La riforma della pubblica amministrazione è stata annunciata da grida di guerra come la “lotta violenta alla burocrazia”.
Il miglioramento della funzionalità della pubblica amministrazione è certamente una delle chiavi per provare il rilancio del Paese, dal momento che da essa provengono servizi essenziali il cui funzionamento è condizione per la produttività del lavoro di tutti. Non secondariamente, la PA è il più grande committente, sicchè il suo funzionamento fluido, abbinato ad una seria lotta alla corruzione, muove il Pil in modo imprescindibile.
Come già visto nelle bozze del decreto di riforma circolate nei giorni del travagliatissimo iter per giungere alla stesura e pubblicazione del d.l. 90/2014, tuttavia nel prodotto del Governo è proprio difficile intravedere, anche solo da lontano, gli effetti promessi.
Il Governo cade, per l’ennesima volta, in un gravissimo equivoco: considerare come “burocrazia” solo le persone e i ruoli, non l’apparato folle di norme prodotte in modo torrenziale e contraddittorio da un Legislatore bulimico e sempre meno capace di dirigere la vita amministrativa in modo corretto, attraverso le regole.
Per queste ragioni si fa passare l’idea che l’efficienza dell’amministrazione si possa raggiungere con la mobilità obbligatoria o con i demansionamenti. La mobilità obbligatoria potrebbe davvero cambiare il volto dell’amministrazione solo se fosse finalizzata a risolvere davvero i problemi organizzativi, derivanti dalla pessima distribuzione del personale, in particolare nel territorio nazionale e anche tra un’amministrazione e l’altra.
Limitare, invece, i trasferimenti al raggio di 50 chilometri non apporta alcun vantaggio organizzativo all’amministrazione nel suo complesso: gli enti sovradimensionati del sud resteranno con surplus di personale. Semplicemente, si scimmiotta la faccia dura dell’imprenditoria, permettendo ai vertici politici ed amministrativi di giocare un po’ al Marchionne, per spostare qualche pedina di qualche decina di chilometri. Un po’ di disagi fatti passare per la “caduta dell’inttoccabilità del travet pubblico”, i cui esiti concreti per i cittadini sono pari allo zero: nessuna imposta si abbasserà per questo, nessun procedimento amministrativo si abbrevierà, nessuna spinta all’impiego delle tecnologie informatiche si determinerà, nessun posto di lavoro in più verrà creato.
L’emblema di una riforma a parole della burocrazia, nei fatti un miscuglio di carte tendente solo a rafforzare i poteri della politica sta nell’odiosa norma che distingue tra i comuni mortali e i portaborse dei sindaci.
Si tratta dell’inserimento del comma 3-bis nell’articolo 90 del d.lgs 267/2000: “resta fermo il divieto di effettuazione di attività gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal possesso del titolo di studio, è parametrato a quello dirigenziale”.
Qualsiasi comune mortale per accedere alla pubblica amministrazione deve effettuare un concorso. Se vuole provare ad ascendere alla carriera dirigenziale, deve affrontare una seconda prova concorsuale, dopo anni di esperienza operativa in funzioni di vertice quale funzionario. Ma, prima di tutto, deve investire il proprio tempo ed il proprio denaro in attività di alta formazione, conseguendo la laurea.
Ma, si sa, ci sono i comuni mortali e, poi, i clientes della politica. Per costoro, il “merito” non consiste nella capacità di conseguire titoli di studio elevati e superare prove selettive, ma solo nella “fedeltà” assoluta, acritica ed incondizionata al referente politico, nonché nella speranza che tale referente prima o poi assurga alla carica di sindaco.
In questo caso, il nostro fedelissimo vedrà fruttare ampiamente la propria dedizione: pur senza laurea, potrà essere assunto nemmeno dovendosi disturbare a pagare la tassa per il concorso, potrà avere lo stipendio dirigenziale senza avere la minima professionalità allo scopo e, per altro, potrà ottenere tale lauta remunerazione in assenza di una delle qualsiasi delle responsabilità proprie dei vertici, in quanto non potrà e non dovrà svolgere alcuna attività gestionale e decisionale.
Tenere l’agenda degli appuntamenti, l’archivio e smistare le telefonate del sindaco di turno, insomma, può essere un ottimo affare. Inutile investire in formazione universitaria, a questo punto.
Questo è, in effetti, il messaggio semplicemente devastante che deriva dalla riforma che dovrebbe rivoluzionare la pubblica amministrazione.
Ma, ancora una volta, non si riesce a capire quale sia il vantaggio per i cittadini. Cosa ne ricava l’imprenditore, il contribuente, la famiglia, dalla circostanza che un “cliente” del sindaco gli tenga l’agenda pagato come un dirigente? Quale nuova assunzione (oltre a quella dell’amico del sindaco, s’intende) vi sarà, quale tassa sarà tagliata? Niente di tutto ciò, ovviamente.
L’unico vantaggio di questo sistema familistico e da clan di gestione della cosa pubblica lo potrà avere quell’imprenditore, quella famiglia, quella persona che, agganciata al sistema di amicizie e clientele, potrà ottenere l’occhio di riguardo, passando appunto per lo “staff”, che molto spesso è decisivo per fare sì che le leggi si interpretino. Per gli amici.
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