venerdì 6 giugno 2014
"Italia Semplice" Accordo governo enti locali per politicizzare la #Pa #riforme
Per la riforma della pubblica amministrazione tra breve si ricorrerà a formule esoteriche e all’apporto degli immancabili Templari.
In attesa che i cavalieri del Tempio entrino in gioco, intanto, col lancio dell’ennesimo slogan “Italia semplice”, Governo, Regioni, comuni, province e città metropolitane (che ancora non esistono) stringono una “Alleanza istituzionale per rilanciare la funzione pubblica nel Paese”. A quanto sembra, il protocollo, sottoscritto il 5 giugno, non è avvenuto tra sfolgoranti arazzi e mistiche formule, ma attraverso una semplice sottoscrizione.
I contenuti dell’Alleanza (sic) per un verso confermano integralmente l’impianto parecchio discutibile dei 44 punti evidenziati dal Presidente del consiglio e dal Ministro della funzione pubblica, per altro verso lasciano davvero sbigottiti.
Un primo elemento di non indifferenti sorpresa e stupore si rinviene nella premessa alla “alleanza”, nella quale, ovviamente, si magnificano le capacità taumaturgiche di “Italia semplice” di rilanciare economia, imprese ed efficienza della PA, indicando espressamente che la “riorganizzazione avrà successo se saprà andare in profondità coinvolgendo tutti i livelli di governo del Paese indicati dall’art. 114 della Costituzione”. Ma, l’articolo 114 menziona tra gli enti che compongono, con pari dignità, la Repubblica le province, che con tanta determinazione si vogliono eliminare.
Rilevare l’incoerenza della “alleanza”, al limite della vera e propria ipocrisia istituzionale, risulta piuttosto semplice, oltre che inevitabile. Anche perché il protocollo rincara poco oltre la dose: infatti, i provvedimenti attuativi che dovrebbero seguire alla “alleanza” secondo il protocollo troveranno attuazione “nel rispetto delle prerogative costituzionali e normative assegnate a ciascun livello di governo”. Di quale “rispetto” si parli, considerando i contenuti della legge 56/2014 e i continui attacchi alle province, è proprio molto difficile capire. E il passaggio immediatamente successivo appare francamente canzonatorio: “Ogni ente come elemento fondamentale ed imprescindibile su cui poggia la Repubblica italiana”. Talmente imprescindibili sono considerate le province (oggettivamente appare piuttosto curiosa la sottoscrizione del protocollo da parte dell’Upi), che appunto la legge 56/2014 le riforma in vista del loro superamento.
Ma, al di là di intenti involontariamente comici o canzonatori, la “alleanza” si smentisce subito, quando entra nell’analisi dettagliata del primo dei “5 interventi strategici” che disciplina.
Infatti, in totale contraddizione con le affermazioni sull’importanza “fondamentale” di ogni ente componente la Repubblica, si chiarisce che il processo di riordino e riorganizzazione locale (fissato in modo caotico e confusionario secondo uno schema di differenziazione molto accentuata, ma senza parametri chiari) “deve avvenire in coerenza con la Legge 56/2014 e con uno sguardo rivolto al disegno di legge di revisione del titolo V della Costituzione in discussione al Senato”: con tanti saluti agli enti locali “come elemento fondamentale ed imprescindibile” della Repubblica.
Non basta. Oltre alle contraddizioni in termini, volte forse ad una captatio benevolentiae di corto respiro, il caotico disegno di riforma disegnato in via embrionale dalla “alleanza” non manca di profondere fuffa incomprensibile, ma facilmente spendibile nei talk show come “ideone” per una riforma efficace della PA. Si prefigura, infatti, “una amministrazione semplice, più ordinata, organizzata secondo il criterio del risultato”. Cosa sia l’organizzazione “secondo il criterio del risultato” ovviamente non lo sa assolutamente nessuno, ma lo slogan colpirà certamente le menti degli spettatori televisivi e dei distratti lettori della stampa generalista.
Unico elemento più chiaro è la proposta di improntare la riforma al principio dell’attribuzione alle amministrazioni in modo in equivoco i compiti e le responsabilità, così da evitare sovrapposizioni.
Il punto 1 della “alleanza”, tuttavia, chiude con l’ennesima incoerenza: per un verso, infatti, afferma che gli obiettivi di semplificazione e razionalizzazione debba avvenire “attraverso una attribuzione delle funzioni amministrative e della responsabilità dei servizi ai livelli di governo più vicini ai cittadini”; per altro verso, a totale smentita di questa affermazione il protocollo prosegue sottolineando che tale obiettivo da raggiunto “mediante una riduzione consistente degli enti intermedi locali, regionali e nazionali”. Come si faccia ad avvicinare l’amministrazione alla comunità, riducendo gli enti intermedi e, di fatto, rinunciando al principio di sussidiarietà verticale posto dall’articolo 118 della Costituzione, è risultato misterioso. Urge davvero l’intervento miracolistico dei Templari.
Se il punto 1 della “alleanza” è il trionfo del velleitarismo e della confusione istituzionale, molto più chiari, anche se solo se letti in filigrana, sono gli intenti contenuti nel secondo punto “strategico” (qualsiasi riforma per colpire le coscienze deve essere “strategica”): “Valorizzare il capitale umano quale elemento vitale della capacità della PA di dare risposte certe in tempi rapidi”.
Il punto esplicita meglio il concetto di rilancio della mobilità tra dipendenti della PA: “tutti coloro che hanno un rapporto di lavoro con la PA sono dipendenti o dirigenti della Repubblica incardinati momentaneamente presso un ente pubblico che ne è datore di lavoro”.
Un principio, questo, oggettivamente condivisibile e, se ben applicato, utile per risolvere uno dei principali problemi dell’organizzazione pubblica: la cattiva distribuzione dei dipendenti. Il problema, infatti, non è affatto la loro quantità, né la loro spesa. Gran Bretagna, Francia e Germania, i Paesi con i quali è opportuno confrontarsi, hanno un numero di gran lunga superiore ai dipendenti della PA in Italia e costi di poco superiori (salvo la Germania).
E’, invece, vero che vi sia una distribuzione sia territoriale, sia tipologica, dei dipendenti quanto meno irrazionale, cioè non spiegabile. La loro configurazione come dipendenti di un’unica entità, la Repubblica, organizzata, poi, tra molteplici datori di lavoro ovviamente finirebbe per favorire una più facile redistribuzione, magari alla luce anche dell’individuazione di indicatori comuni (standard) di dotazioni rispetto ai risultati e alla popolazione da servire.
Se l’intento evidenziato sopra appare condivisibile, meno, molto meno, persuasivi sono gli strumenti che la “alleanza” immagina per regolare sia la standardizzazione, sia la regolamentazione organizzativa. Infatti, si prevede che “il sistema delle regole del lavoro pubblico deve essere composto da un livello minimo di norme rivolto a tutti i datori di lavoro e a tutto il personale impiegato e da un livello di regolamentazione più specifico frutto della negoziazione e della regolamentazione organizzativa specifica di ogni ente”. Si prefigura un rilancio della contrattazione, in totale contrasto con la riforma-Brunetta, ma, soprattutto, difficilmente compatibile con una visione “unitaria” dell’organizzazione del lavoro. Soprattutto, visto che i punti di dettaglio della riforma del lavoro pubblico evidenziati dalla “alleanza”, secondo quanto ivi riportato, dovrebbero determinare “effetti positivi sulle retribuzioni che dovrebbero ispirarsi al merito e alla omogeneità a parità di prestazioni o incarichi svolti”. Dovrebbe apparire chiaro a chiunque che lasciando spazio alla contrattazione e all’organizzazione autonoma spinta, l’auspicata “omogeneità” delle retribuzioni risulta non conseguibile, esattamente come avviene attualmente.
Nel dettaglio, il punto 2 della “alleanza” indica una serie di spunti di riforma che in parte confermano, in parte innovano le indicazioni dei 44 punti della lettera del premier e dell’inquilina di Palazzo Vidoni.
Tra essi, spicca l’obiettivo di “fissare pochi parametri e limiti alla spesa per il personale, tenendo conto della tipologia di servizi e prestazioni che ciascun ente è tenuto ad assicurare alla comunità”. In effetti, l’affastellarsi confusionario di norme, hanno creato un reticolo inestricabile di regole e regolette, divieti, deroghe, diversificazioni, per stabilire i tetti alle spese. Modificare l’assetto delle norme, che è sempre la causa prima della “burocrazia” e delle complicazioni, appare fondamentale in questo campo, anche per completare il tentativo di sanare la violazione dei vincoli alla contrattazione decentrata, disciplinato dal decreto “salva Roma” ed orientare meglio le amministrazioni locali.
Molto meno condivisibili e, di conseguenza, più allarmanti sono i seguenti altri due punti:
- “la realizzazione di un “mercato” organico della dirigenza articolato territorialmente, che implichi anche un intervento sulla disciplina dei segretari comunali e provinciali”;
- “il ripensamento del sistema di accesso”.
Il primo dei due punti sembra evidenziare un ripensamento parziale all’indicazione contenuta nel punto 13 della famosa lettera di Renzi e Madia, che prevede in modo molto più secco e drastico l’abolizione della figura dei segretari comunali.
Il Governo ha forse accolto la sollevazione da parte dei sindaci, che non hanno per nulla apprezzato l’intenzione di eliminare una figura che rappresenta per loro uno strumento di garanzia, tutela ed efficienza. La “allenza”, dunque, ripiega su un non meglio definito “intervento” sulla disciplina dei segretari, aggregandolo a quello dell’istituzione del “mercato” della dirigenza.
Gli effetti e gli intenti di queste formule indefinite sono, tuttavia, piuttosto facilmente decodificabili. Per “mercato” della dirigenza, nella sostanza, sembra proprio si debba intendere la creazione, come hanno insistentemente scritto sui giornali specializzati esperti della Bocconi, sempre in prima linea tra i consulenti dei Governi di ogni colore, di un albo generale, nel quale inserire i dirigenti. Sembra proprio di capire che tale albo sarà “aperto”, nel senso che non vi saranno, verosimilmente, steccati tra i ruoli e gli incarichi dei dirigenti. I segretari comunali potrebbero, dunque, non essere aboliti come figura, ma degradati ad “incarico”, uno tra i tanti che potrebbero essere conferiti ai dirigenti locali inseriti nell’albo, sulla base, forse, di parametri di valutazione.
Si tratterebbe di una sorta di espansione all’ennesima potenza del sistema di attribuzione e revoca degli incarichi vigente proprio per i segretari comunali. Uno spoil system estremamente spinto, del tutto contrario ala Costituzione e parecchio inefficace, che verrebbe dunque esteso a tutta la dirigenza locale. In un trionfo di politicizzazione della dirigenza, che verrebbe totalmente subordinata alle nomine intuitu personae dei sindaci, con buona pace del principio di separazione tra politica e gestione e l’insorgere del pericolo fortissimo della creazione di una dirigenza non più “apparato servente” della politica, ma garante di imparzialità ed efficacia, bensì “apparato servile” o, quanto meno, assoggettato al controllo pieno e diretto degli organi di governo, verosimilmente destinatari del potere assoluto di determinare carriere e la stessa possibilità di proseguire il rapporto di lavoro.
Questa sensazione appare confermata dal secondo punto evidenziato sopra, che costituisce una “new entry” nell’elenco delle riforme, dal quale, fino a qui, era stato escluso, per quanto si intuisse che mira del Governo era proprio anche “il ripensamento del sistema di accesso”. Indicazione molto più chiara per quello che vuole eliminare, meno per quanto intende costruire. Sembra evidente che la “alleanza” voglia spingere per una modifica profonda del reclutamento. Ovviamente, qualsiasi motivazione si aggancerebbe alle generiche e standardizzate considerazioni degli “aziendalisti” che considerano i concorsi come “superati” da “più moderni sistemi di selezione” reperibili “nel privato”. Così si insisterebbe nell’imperdonabile errore di considerare lavoro pubblico e privato, funzione pubblica ed iniziativa privata, come simili o comunque assimilabili.
Ma, soprattutto, il rischio è che le più “moderne” modalità di selezione operanti nel privato contribuiscano alla definitiva politicizzazione dei dipendenti pubblici. I sistemi selettivi del privato, vedono, infatti, come dominus assoluto delle scelte il datore. Alla fine, molte volte le procedure privatistiche adottate nel sistema pubblico allargato (quello delle società partecipate o enti pubblici economici) si riducono alla creazione di “rose”, nelle quali sistematicamente sono presenti proprio coloro che risultano “graditi” all’organo politico di governo.
Estendere simili modalità di selezione alla dirigenza o, ancor più, all’intero reclutamento pubblico non solo cozza con gli articoli 97 e 98 della Costituzione, ma non solo rischia, bensì sicuramente getta le basi per un’amministrazione a misura di “maggioranza”. Con grave pregiudizio non solo della “meritocrazia”, ricercata solo a parole, ma, soprattutto, della parità di trattamento dei cittadini. Tutti i sistemi di semplificazione e open data, come quelli immaginati nei punti 3, 4 e 5 della “alleanza” finirebbero per essere sostanzialmente vanificati da una struttura di enti amministrativi costruita non tanto per essere fedeli alla Nazione e rispettare i principi di buon andamento, imparzialità ed economicità dell’azione amministrativa, quanto per garantire un apparato amministrativo “funzionale” alla maggioranza e allo schieramento al potere.
Sugli altri punti, quelli relativi alla semplificazione (3) e quelli concernenti la digitalizzazione e gli open data (4 e 5) la “alleanza” propone ben poco di innovativo. Sulla semplificazione è un florilegio di obiettivi già da anni presenti in ogni riforma “rivoluzionaria” della pubblica amministrazione. Sulla digitalizzazione è difficile non condividere ciascuno dei singoli obiettivi previsti e fissati. Ciò che appare poco persuasivo e velleitario è l’elencazione delle scadenze, fitte e ravvicinatissime, mentre continua a mancare l’elemento fondamentale per un passo in avanti reale e deciso: la creazione di piattaforme di scambio univoche tra tutte le banche dati, che permettano a ciascun ente di interrogare, per le proprie esigenze, le banche date di ogni altro, così da creare davvero un’amministrazione pubblica “unica”.
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