domenica 13 luglio 2014
#riforme #appalti Il metodo di governo dei sindaci che distrugge leggi e democrazia
Nel corso degli anni ’90 del secolo scorso un argomento divenne una vera e propria ubriacatura istituzionale: l’autonomia dei comuni ed il “federalismo” all’italiana.
Sebbene la Lega non sia mai riuscita a sfondare politicamente, nonostante le alleanze ed i ruoli di primo piano ottenuti per lunghi anni nei governi, alcune delle sue principali argomentazioni hanno fatto breccia, anche grazie all’attenzione che uno stuolo di costituzionalisti e docenti della sinistra hanno assicurato al tema delle autonomie.
I risultati del “federalismo” sono un chiarissimo disastro sotto gli occhi di tutti. La stessa sinistra che in omaggio alle pulsioni autonomistiche, indotte anche dal tentativo – ovviamente fallimentare – di attrarre voti del popolo leghista nelle elezioni del 2001, portarono alla modifica di quel Titolo V della Costituzione, adesso denuncia, tardivamente, quella riforma come un vulnus cui porre rimedio.
Non si rinuncia, tuttavia, ad utilizzare del sistema autonomistico locale metodi, strumenti, schizofrenia e inefficienze.
Un esempio palmare di questo modo di amministrare da sindaci di campagna (con tutto il rispetto che meritano) è dato dall’assurda norma sulle centrali uniche appaltanti.
Il Governo, come è noto, è intriso di rappresentanti provenienti dal mondo dei comuni e dell’Anci: Renzi, Delrio, Rughetti, che hanno anche riempito le strutture dirigenziali ministeriali di ex dirigenti dei comuni da loro diretti o provenienti direttamente dalle strutture amministrative dell’Anci. Si dovrebbe supporre, dunque, da parte di questo stuolo di sindaci e funzionari di fiducia di sindaci, una profonda conoscenza delle esigenze e dei problemi locali.
Invece, nemmeno per sogno. Qualche maligno potrebbe dire che questo deriva dal fatto che i sindaci-star ora al governo hanno frequentato ben poco i palazzi municipali e, dunque, dei famosi problemi “concreti” sappiano solo per sentito dire. Sta di fatto, comunque, che avrebbe dovuto essere chiarissimo sin da subito che l’idea balzana di Cottarelli di impedire ai comuni di svolgere funzioni di stazione appaltante è semplicemente impraticabile, perché vi sono tipologie e livelli di appalto (si pensi solo ai servizi sociali) totalmente inadeguate ad una centralizzazione, in quanto troppo strettamente connesse al territorio.
Dunque, qualsiasi soggetto proveniente dal mondo delle autonomie realmente competente e a conoscenza delle esigenze e dinamiche degli enti locali avrebbe dovuto consigliare a Cottarelli di occuparsi un po’ meglio del suo deficitario mandato, trovando altre e più idonee soluzioni.
Invece, niente da fare. La norma sulla centrale unica è passata nel d.l. 66/2014, quello del bonus degli 80 euro. E siccome la centralizzazione degli appalti fa “audience”, perché la conoscenza approfondita del modo di gestire i comuni è roba per pochi, la si è approvata e confermata anche nella legge di conversione.
Salvo, però, arrivare al primo luglio e constatare con sorpresa (?) che gli appalti nei comuni sono rimasti bloccati.
Allora, qui viene fuori l’habitus mentale dei sindaci: “c’è una legge? Ma noi dobbiamo trovare egualmente un sistema per ottenere il risultato”. In altre parole, utilizzare la cosiddetta “autonomia” per creare norme ad hoc, privilegi, stratagemmi per superare con strade di comodo disposizioni normative.
In questo caso, la “trovata” geniale è un accordo in Conferenza Unificata, niente più di una prestazione di consenso tra rappresentanti di Stato ed enti locali, privo di qualsiasi rilievo giuridico e forza di legge, per consentire all’Anac di far attribuire egualmente il codice Cig ai comuni che, in violazione dell’articolo 9 del d.l. 66/2014, attivassero appalti, inducendo la stessa Anac, autorità garante dell’anticorruzione e della legalità, a violare la legge.
Un decreto legge per eliminare la norma non lo si poteva fare. Certo, perché i decreti legge non servono ad affrontare davvero situazioni di urgenza, ma solo ad imbrigliare l’attività del Parlamento, impedendogli di esercitare con indipendenza la funzione legislativa, ormai passata mani e piedi tutta in capo al Governo, col sistema evidentissimo di ingolfare il Parlamento di decreti legge da convertire pena la proposizione della fiducia e la minaccia di dimissioni, così da spostare totalmente non solo l’indirizzo politico, ma la stessa funzione legislativa in quello che era l’esecutivo.
Inconsciamente, i “sindaci” al governo vogliono ripetere al livello nazionale lo schema presente negli enti locali, ove i consigli altro non sono se non un’assemblea di “alzatori di mano”, con pochissime competenze e totale capacità di indirizzare e, soprattutto, controllare l’attività di sindaci e giunte.
E’, quello comunale, un modello che della separazione dei poteri e dei pesi e contrappesi, non ha nulla. Ma, finchè si tratta di svolgere attività amministrativa e non politica, può anche andare bene, per quanto, guardando in profondità, il modello spacciato per estremamente efficiente e decisionista dei sindaci non ha certo impedito a moltissimi comuni anche di grandi dimensioni di andare incontro al baratro (Alessandria, Roma, Napoli, Torino, Palermo, Catania, tra gli altri, sono lì a ricordarcelo).
Portare, tuttavia, questo sistema utile per un soggetto amministrativo al livello di politica nazionale implica paradossi come quello di un verbale di Conferenza Unificata considerato di forza pariordinata alla legge.
E’ lo svilimento più assoluto della legge, quale strumento di governo del popolo, in quanto adottato esclusivamente dai rappresentanti del popolo.
Ma, a ben vedere, i rappresentanti del popolo, come ha chiarito la Corte costituzionale in merito alla legge elettorale detta “porcellum” non ci sono più. E confermando lo schema del “porcellum” con l’ “italicum”, con in più l’eliminazione della seconda camera, il Senato, composta di nominati dei consigli regionali e comunali che entreranno e usciranno di continuo, lo schema operante nei comuni si avvilupperà come un parassita sull’apparato della Costituzione.
Il sindaco d’Italia diverrà realtà, sebbene non esplicitamente formalizzata nella Costituzione, la quale, con la riforma, rafforzerà a dismisura i poteri dell’esecutivo e del premier non attribuendo ad essi nuovi poteri, ma eliminando o riducendo a pura forma quelli degli altri organi e dei contrappesi.
Così diverrà normale che le leggi potranno essere tranquillamente violate o applicate in modo particolare e utilitaristico con provvedimenti amministrativi e non legislativi, senza che nessuno apra bocca, anche perché la gran parte dei residui organi a presidio dell’attività, sarà tutta nominata dal vertice, come appunto nei comuni.
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