Il Governo ritiene non applicabile il Jobs Act alla pubblica amministrazione per il pericolo di licenziamenti discriminatori di natura politica, ma di fatto prevede esattamente l’esautorazione dei vertici amministrativi per ragioni politiche, al riparo da qualsiasi tutela.
In merito alla questione dell’estensione alla pubblica amministrazione della nuova tutela dei licenziamenti illegittimi prevista dal Jobs Act, la posizione del Governo continua ad essere poco persuasiva e sostanzialmente indifendibile. Essa, infatti, non tiene in alcun conto le disposizioni contenute negli articoli 2, comma 2, e 51, comma 2, del d.lgs 165/2001 che estendono automaticamente al lavoro pubblico le regole non derogate del lavoro privato: e il d.lgs 165/2001, né alcun’altra norma, contengono norme speciali derogatorie sul licenziamento illegittimo, specificamente dedicate al lavoro pubblico. La cosa è tanto vera, che il Governo stesso, per voce del premier e di diversi ministri, ha dichiarato di intendere rinviare alla legge delega di riforma della pubblica amministrazione il compito di disporre regole particolari sui licenziamenti: si tratta, dunque, della prova inconfutabile che attualmente l’unica disciplina esistente, tanto nel lavoro privato, quanto nel pubblico, è quella dell’articolo 18 della legge 300/1970 e sue successive modificazioni ed integrazioni.
Non è un caso che le argomentazioni favorevoli alla mancata estensione del Jobs Act al lavoro pubblico si appoggino esclusivamente su generali fini: “è una legge scritta per le logiche di flessibilizzazione dell’impresa”. Ma, dovrebbe essere chiaro che il fine di una norma non può modificare quanto disposto da regole di diritto positivo, quali le citate norme del d.lgs 165/2001, che occorrerà modificare espressamente (non si sa con quanto rispetto dell’articolo 3 della Costituzione) per ottenere l’effetto di scindere le tutele da licenziamenti del privato, rispetto a quelle del pubblico.
Sta di fatto che anche il Sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Graziano Delrio, nell’intervista concessa al Messaggero il 6 gennaio scorso insiste, per difendere la supposta mancata estensione del Jobs Act al lavoro pubblico, su argomentazioni diciamo di suggestione o di cornice, senza sfiorare la questione giuridica sul piano tecnico e, per altro, cadendo in contraddizioni plateali col diritto vigente e con il ddl delega di riforma della pubblica amministrazione.
Ecco quanto dichiara il Sottosegretario: “La questione è delicata per vari motivi. Nel lavoro pubblico vi è la necessità di proteggere chi lavora da atteggiamenti discriminatori dovuti all'orientamento politico. Se quando cambia amministrazione c'è disponibilità di licenziare discriminatoriamente, rischiamo di distruggere la nostra burocrazia. Dal punto di vista generale, pur mantenendo queste attenzioni, è chiaro che è un ragionamento che va fatto. Il lavoro pubblico ha peculiarità sue proprie per la tutela del bene pubblico e degli interessi generali, ma credo che sia assolutamente legittimo e serio pensare ad un'evoluzione in questa direzione. Serve un ragionamento a 360 gradi senza particolari paure”.
Evidentemente al Sottosegretario sfuggono una serie di elementi, tali da rendere la sua dichiarazione oltre che confusionaria, totalmente fuorviante.
Sembra, infatti, che un regime speciale di tutela per i dipendenti pubblici debba discendere dalla necessità di garantirli da licenziamenti discriminatori, derivanti da intenti politici.
Per un verso, la dichiarazione appare una voce dal sen fuggita e una confessione del modo col quale l’apparato politico si rapporta con i dipendenti: in totale disprezzo dell’articolo 98 della Costituzione che pretende gli impiegati pubblici al servizio della Nazione e non di una parte politica, gli organi politici e di governo non riescono a fare a meno di immaginare l’insieme dei dipendenti pubblici come un apparato di supporto alla maggioranza, invece di essere un apparato servente, chiamato ad attuare le indicazioni della maggioranza, ma con autonomia e nel rispetto della parità di trattamento di ciascun cittadino, qualsiasi sia la sua propensione (o appartenenza) politica. Insomma, può pensare all’esistenza di un problema di discriminazione politica solo chi, evidentemente, considera che il rapporto di lavoro pubblico possa e debba essere condizionato dalle scelte politiche dei vertici elettivi di governo.
In ogni caso, pare evidente che al Sottosegretario manchi la cognizione di quanto prevede la normativa vigente e delle conseguenze che deriverebbero anche dalla sua modifica attraverso il Jobs Act, il quale non allenta la tutela, mediante reintegro, del licenziamento discriminatorio dovuto esattamente a ragioni politiche.
Delrio non dovrebbe ignorare quanto dispone l’articolo 3 della legge 108/1990, ai sensi del quale “Il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell'articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e dell'articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'articolo 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla presente legge. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti”.
Quali sono le ragioni discriminatorie che conducono alla nullità del licenziamento con conseguente reintegro, previste dall’articolo 4 della legge 604/1990? Ecco cosa prevede la norma: “Il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali è nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata”.
L’articolo 15 della legge 300/1970 aggiunge che è nullo ogni patto o atto diretto a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.
Dunque, sul piano strettamente tecnico e giuridico, dove risiederebbe il problema dell’estensione del Jobs Act, che non tocca la disciplina del licenziamento nullo perché discriminatorio, all’eventuale discriminazione di carattere politico subìta dal dipendente pubblico, posto che la normativa prevede esattamente la tutela della reintegrazione nel caso di discriminazione politica? Non è dato saperlo. Ma, si ripete, evidentemente rilasciare dichiarazioni “suggestive”, piuttosto che fondate su norme, appare oggi una moda irresistibile.
Sicchè “se quando cambia amministrazione c'è disponibilità di licenziare discriminatoriamente”, a differenza di quanto afferma Delrio non si corre il rischio di distruggere l’apparato burocratico, ma si ha la certezza di compiere licenziamenti discriminatori, nulli, cui consegue la tutela del reintegro.
La cosa rimarchevole, però, è non solo che l’intervista del Sottosegretario rivela freudianamente il desiderio inconfessabile, ma confessato, di ciascun politico di cambiare a proprio capriccio e piacimento l’apparato amministrativo ad ogni tornata elettorale, ma soprattutto che quanto afferma il Delrio sia in assoluto contrasto con intenti ed azioni del Governo.
Mentre, infatti, i componenti dell’Esecutivo si stracciano le vesti a difesa dall’estensione del Jobs Act al lavoro pubblico per inesistenti pericoli di mancanza di tutele dalla discriminazione politica, stanno costruendo un sistema di nomina e licenziamento dei vertici, in particolare della dirigenza pubblica, esattamente fondato sull’appartenenza politica e su modalità di risoluzione di fatto del rapporto di lavoro, tali da escludere qualsiasi tutela per il dirigente interessato.
Infatti, il ddl delega di riforma del lavoro pubblico prevede per gli incarichi dirigenziali la sola “possibilità” che siano conferiti ai dirigenti di ruolo, assunti cioè con contratto a tempo indeterminato. Con ciò, indirettamente, affermando che altrettale possibilità spetti, magari in via prioritaria, a soggetti non appartenenti ai ruoli, assunti senza concorsi e a chiamata diretta, come oggi avviene ai sensi degli articoli 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 e, per gli enti locali, dell’articolo 110, comma 1, del d.lgs 267/2000. E non è un caso certamente che il d.l. “Madia”, il d.l. 90/2014 abbia triplicato il numero dei dirigenti che i comuni possono assumere a contratto.
Cosa c’entra l’incarico dirigenziale col licenziamento? La domanda è lecita, ma la risposta è conseguente. Se per i dirigenti assunti, mediante concorsi pubblici, con contratto a tempo indeterminato il conferimento di un incarico è una mera “possibilità”, per un organo politico sarà semplicissimo disfarsi del dirigente medesimo per intenti politici, senza essere nemmeno tenuto a disporre il licenziamento e correre il rischio di incappare nella nullità in quanto discriminatorio.
I passaggi sono pochi e determinanti. Il ddl di legge delega di riforma della pubblica amministrazione dispone che gli incarichi siano attribuiti ai dirigenti sulla base di “rose” formate da apposite Commissioni, le quali, tuttavia non condizioneranno la scelta definitiva dell’organo di governo che disporrà del potere pieno di decidere quale dirigente incaricare e quale no. Ovviamente, se il plafond degli incarichi dirigenziali sarà in grossa parte riempito da persone scelte senza concorsi fuori dagli organici, si creano le condizioni per una situazione di carenza di incarichi da attribuire.
A questo punto, i giochi sono fatti: per disfarsi di un dirigente poco gradito sul piano politico, l’organo di governo non dovrà far altro che riempire le caselle vuote degli incarichi dirigenziali col maggior numero possibile (e, spesso, anche non possibile) di cooptati esterni, determinare, così, una situazione artificiosa di carenza di incarichi e lasciare il dirigente sgradito privo di incarico. Basterà attendere, allora, che decorra il termine massimo, non ancora quantificato, previsto dal ddl di riforma della pubblica amministrazione di permanenza nei ruoli dirigenziali, decorso il quale la risoluzione del rapporto di lavoro del dirigente non politicamente schierato risulterà cosa fatta.
Che tutela potrebbe promuovere il dirigente nei riguardi di simile azione finalizzata alla perdita del suo lavoro? Nessuna. Non trattandosi di un atto espresso di licenziamento, ma del frutto di una procedura, per quanto perfettamente telecomandabile, simile risoluzione del rapporto di lavoro non è tecnicamente un licenziamento discriminatorio, anche se di fatto può esserlo tranquillamente.
Sicchè, l’organo politico potrebbe disfarsi del dirigente o vertice amministrativo non conforme alle direttive di partito, senza correre alcun rischio di porre in essere licenziamenti nulli in quanto discriminatori. Jobs Act o non Jobs Act.
Appare, dunque, dimostrato che dietro dichiarazioni alla stampa e suggestioni varie, vi sia sempre una cortina fumogena densissima, che oscura i veri effetti ed esiti delle riforme che vengono elaborate, spesso esiti totalmente contrari alle affermazioni diffuse tramite media troppo spesso non in grado di decodificare la propaganda.
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