Comunque sia andata realmente la vicenda del decreto fiscale, con l’inserimento della norma “salva Berlusconi”, un risultato è stato ottenuto di certo: l’abolizione di fatto dell’articolo 98 della Costituzione.
Si tratta di quell’ingenua norma, che però dovrebbe garantire i cittadini da azioni della pubblica amministrazione indotte dall’appartenenza partitica, piuttosto che dal perseguimento dell’interesse collettivo, ai sensi della quale “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”. Non è così. E le vicende del decreto fiscale, corroborate da un’intervista del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri rilasciata al Messaggero del 6.1.2015 lo chiariscono abbastanza bene.
Partiamo dai fatti. Che vedono come possibile protagonista un vigile urbano, anzi, una vigilessa. In questi giorni, la polizia municipale è proprio un cruccio del Governo: prima, i vigili di Roma che utilizzano le assenze dal servizio come impropria forma di protesta contro le modifiche della contrattazione decentrata del loro comune; poi, il capo dell’ufficio legislativo della Presidenza del consiglio, Antonella Manzione, comandante dei vigili del comune di Firenze in aspettativa, secondo molti autrice fattiva della norma del decreto fiscale, il famoso articolo 19-bis, utile per la revoca della condanna a Silvio Berlusconi.
La Manzione è stata cooptata direttamente dal premier a Palazzo Chigi, allo scopo di “dirigere il traffico”dei testi normativi all’esame del Consiglio dei ministri, per coordinarli ed assicurare il rispetto complessivo dell’ordinamento, nonché relazionare sulle conseguenze delle modifiche normative, così da fornire ai ministri l’istruttoria completa, così da permettere loro di comprendere approfonditamente cosa approvano e gli effetti che ne derivano.
Appare evidente che con la norma “salva Berlusconi” qualcosa non ha funzionato. Non tanto perché l’inserimento della norma sia da considerare un “errore”. L’evoluzione della vicenda, segnata da un’iniziale atteggiamento di sorpresa e dispetto da parte del premier e di molti ministri, ad una successiva sostanziale rivendicazione accompagnata dal mero rinvio nel tempo della norma, senza volontà di eliminarla, dimostra che in realtà quella norma il Governo, meglio dire il Consiglio dei ministri, che agisce collegialmente, l’ha voluta.
Non è chiaro come e quando, tuttavia, essa sia stata inserita nel testo approvato dal Consiglio dei Ministri. Il Mef giura che il testo sottoposto all’approvazione di Palazzo Chigi non contenenva l’articolo 19-bis. Dunque, è a Palazzo Chigi che è stato modificato.
Il premier, dopo l’iniziale dispetto, ha poi detto al Fatto Quotidiano che la norma non è stata scritta da una mano ignota, ma l’ha voluta egli stesso. Sempre il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, nella citata intervista del 6 gennaio (e con ampio ritardo rispetto ai fatti) rafforza la versione da ultimo data dal premier, affermando che in Consiglio dei ministri tutti fossero consapevoli della norma: “Quel consiglio ha discusso della delega fiscale, che è un enorme passo in avanti per questo Paese, perché come aveva detto la dottoressa Orlandi proprio al suo giornale, abbiamo un sistema che si concentra sui piccoli evasori lasciando immuni i grandi. Il punto è che se tutto è penale poi si finisce che nulla è penale. Su questo si intendeva e si intende intervenire. Sul fatto se si dovesse includere o meno soglie percentuali o assolute, c'è stata una discussione che ha prodotto il testo poi pubblicato. Mi stupisco di chi si stupisce che il testo uscito dal consiglio sia diverso da quello entrato”.
In effetti, stupisce che il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, incaricato di verbalizzare le riunioni del collegio, intervenga con ampio ritardo e solo dopo le dichiarazioni del premier, per raccontare ciò che, dalla sua narrazione, appare una normalissima dinamica del Consiglio dei ministri. Se era tanto normale, perché non raccontarlo subito?
Ovviamente, nell’intervista di simile domanda non v’è traccia. Sta di fatto, che è stato il Sottosegretario all’economia Enrico Zanetti ad accorgersi della cosa e a dare l’allarme sui giornali il 27 dicembre. E, come si ricorderà, le reazioni iniziali, da parte dei componenti del Consiglio dei ministri, sono state lontanissime da quella compassata sfoderata il 6 gennaio da Delrio.
Su Libero del 6 gennaio 2015, Franco Bechis offre una ricostruzione un po’ meno semplice di quella delineata da Delrio: “Sono state discusse quelle modifiche in consiglio dei ministri? Libero ne ha sentiti tre diversi, e tutti e tre non ricordano alcuna proposta o discussione: è vero che Renzi ha illustrato in dettaglio il decreto legislativo, ma non ha citato la norma contestata che non apparivano nel testo inserito nelle cartelline dei ministri, proponendo invece altre due modifiche poi effettuate. «Si è convenuto», racconta un ministro, «che quelle correzioni al testo originario sarebbero state coordinate in una successiva riunione tecnica Palazzo Chigi-Ministero Economia e Ministero Giustizia». Ma la riunione non c'è stata. Su questo concordano fonti del ministero dell'Economia e di quello della Giustizia. La paternità di quel testo dunque è interamente di palazzo Chigi. Allora chi ha scritto le modifiche? Qui bisogna limitarsi a riportare indiscrezioni, che restano tali per quanto autorevoli: alla riunione che ha preceduto la pubblicazione del testo insieme alla Manzione avrebbe partecipato il ministro per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi, che avrebbe portato una cartellina con alcuni dei testi inseriti. Altro è difficile sapere”.
Poiché è sostanzialmente provato che le modifiche al testo proveniente dal Mef sono state effettuate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, non si può che dare credito a quanto dichiarato dal premier al Fatto Quotidiano: la norma “salva Berlusconi” l’ha voluta lui. Meno credibile è la versione secondo la quale i suoi consulenti giuridici (non si è saputo chi) gli abbiano assicurato che essa non avrebbe avuto effetti sulle condanne all’ex premier. I consulenti giuridici in particolare, ma anche il premier ed ogni altro come lui laureato in giurisprudenza dello staff di Palazzo Chigi e membro del Consiglio dei ministri, conoscono benissimo l’articolo 2, comma 2, del codice penale: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali”. Chiunque, dunque, anche poco addentro alla giurisprudenza non poteva che rendersi perfettamente conto delle conseguenze della norma “salva Berlusconi”.
Cosa c’entra, in tutto questo, l’articolo 98 della Costituzione? Tra breve ci si arriva. Torniamo al Consiglio dei ministri del 24 dicembre 2014. Se il premier intende inserire nel testo del decreto proposto dal Mef la norma sulla “modica quantità” di evasione, è suo sacrosanto diritto di farlo, nell’esercizio della determinazione dell’indirizzo politico. Ovviamente, difficilmente il premier avrà scritto di proprio pugno la norma. Avrà dato l’input.
Poiché a “dirigere il traffico” dei testi normativi a Palazzo Chigi è l’ufficio legislativo, che ci sta proprio per quello, è impossibile non pensare che una “manina” a scrivere la norma vi sia effettivamente stata, né è possibile non ricondurre tale “manina” al vertice di quell’ufficio, la dottoressa Antonella Manzione.
Ci si ricorderà che la Manzione è stata fortemente voluta a Palazzo Chigi da Renzi, tanto da scontrarsi con la Corte dei conti, poco propensa a registrare l’incarico, non ritenendo il curriculum dell’interessata del tutto rispondente alle specificità della funzione di capo dell’ufficio legislativo. Dopo modifiche al contratto e alle “regole di ingaggio”, anche la Corte dei conti ha ceduto, e la cooptazione dell’ex comandante dei vigili urbani a capo dell’ufficio legislativo è avvenuta.
Molti hanno storto la bocca. Qualcuno, invece, inneggiò al coraggio del premier, dimostrato anche dalla volontà di imporre “facce nuove” alla dirigenza pubblica.
Sta di fatto, però, che i dirigenti, come qualsiasi impiegato pubblico, dovrebbero svolgere le loro attività al servizio esclusivo della Nazione, come dispone la Costituzione.
Ora, è evidente che se il Presidente del Consiglio impartisce al suo capo ufficio legislativo la direttiva di modificare un testo normativo proposto da un Ministero, perché venga approvato nel diverso testo indicato dal premier, il capo dell’ufficio legislativo non può mancare a tale indicazione.
Di fatto, quindi, anche se materialmente la norma “salva Berlusconi” l’ha scritta la dottoressa Manzione, non può che ricondursi in ogni caso al premier la volontà di essa.
Tutto bene, dunque? Il discrimine è: redigere il testo richiesto dal premier è nell’interesse della Nazione, oppure di pochi soggetti o di patti politici extraistituzionali?
E’ vero che l’interesse della Nazione viene considerato dal Consiglio dei ministri e dal Presidente del Consiglio nell’ambito delle proprie prerogative. Altrettanto vero è, però, che se il compito dell’ufficio legislativo è produrre istruttorie sulle norme all’esame del Consiglio, allora ci si sarebbe dovuto aspettare una relazione ben approfondita sulla modifica richiesta dal premier, posta a evidenziarne gli effetti, a beneficio dei Ministri.
In questo modo, il capo dell’ufficio legislativo avrebbe adempiuto alle sue funzioni: predisporre la norma seguendo le direttive del premier, ma illustrando nel dossier conseguenze ed effetti.
Sembra evidente che ciò non sia avvenuto, perché altrimenti nessuno avrebbe avuto la reazione di sorpresa e dispetto inizialmente mostrata.
Ma, allora, se lo scopo di un capo dell’ufficio legislativo è limitarsi a scrivere su dettatura del premier, senza aggiungere elementi valutativi ed istruttori, non si capisce il ruolo dirigenziale che lo caratterizza: può bastare qualsiasi stenografo e un comandante dei vigili appare addirittura sovradimensionato allo scopo.
La questione è che il servizio alla Nazione si svolge non solo seguendo fedelmente ordini del soggetto che coopta alla carica, ma realizzando tutte le altre parti del lavoro da compiere, anche se meno “gradite” o leggermente più scomode. Forse, una relazione più ampia sulla norma avrebbe davvero messo qualche ministro nelle condizioni di comprendere realmente la portata della norma approvata ed evitato che ad accorgersi realmente del tutto fosse un Sottosegretario che per altro non aveva partecipato alla riunione del Consiglio dei Ministri.
Allora, l’ulteriore domanda è: il capo dell’ufficio legislativo, nel caso di specie, ha perseguito l’interesse della Nazione o di una parte?
Il semplice fatto che la domanda si ponga e che sulla stampa si ventili una qualche significativa responsabilità della Manzione, in virtù soprattutto del suo strettissimo rapporto fiduciario col premier, depone male.
Non si saprebbe quale alternativa sarebbe da considerare peggiore: la mancata “regia” istruttoria sul testo frutto di poca competenza, piuttosto che di un rapporto di fedeltà ed idem sentire tra un dirigente e l’organo di governo, tale da annullare gli scopi e gli effetti della delicata funzione istruttoria di sua competenza.
L’azione di un dirigente pubblico non dovrebbe essere minimamente coperta da anche solo flebili ombre, tali da poter solo far immaginare che essa sia frutto dell’interesse di chi lo incarica, specie se la cooptazione avvenga senza concorso, per strettissimo rapporto di confidenza, con una notevole promozione economica e di ruolo, in assenza (come ha detto la Corte dei conti) di una specifica competenza per quella materia. Il premier poteva benissimo puntare sulla Manzione, ma magari darle modo di acquisire sul campo esperienze e competenze, per costruirne man mano la professionalità.
Sta di fatto che comunque sia, nel caso della Manzione ha trionfato la logica della chiamata diretta fiduciaria, cosa che mina in radice gli articoli 97 e 98 della Costituzione e un sano rapporto tra politica, amministrazione e cittadini, in quanto costruisce una dirigenza politicizzata o, quando va bene, comunque sospetta di agire per interessi della parte politica e non solo di rendere servizio ad un indirizzo politico, ma in posizione di autonomia e con imparzialità.
Tuttavia, è proprio l’appartenenza, la fedeltà, la condivisione politica la guida della riforma della pubblica amministrazione e, in particolare, della dirigenza, per come si delinea sia nell’azione concreta e pratica del Governo, sia nel disegno di legge delega. Esso, come è noto, in totale contrasto con l’indirizzo maturato dalla Corte costituzionale dal 2007 in poi, spinge per una fortissima dipendenza della dirigenza dall’incarico di matrice politica, con un chiaro vulnus all’articolo 98 della Costituzione.
A chiusura del cerchio, la dichiarazione del Sottosegretario Delrio sempre sul Messaggero del 6 gennaio 2015: “Il lavoro pubblico deve diventare più simile al privato sui meccanismi di selezione in ingresso, poco focalizzati ad attrarre persone di qualità”.
Una vera e propria dichiarazione programmatica, non a caso inserita in un’intervista che funge da “cordone sanitario” a copertura della Manzione, volta verso la diffusione della cooptazione, della chiamata diretta, della rinuncia al concorso pubblico. Che, per quanto difettoso e soggetto a corruzione, resta(va) un baluardo contro la messa a sistema di chiamate dovute a favori o tessere di partito.
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