Da oltre 20 anni ci convincono che i dirigenti pubblici non debbono essere solo esperti di diritto, ma, soprattutto, “manager” e che introdurre professionalità diverse, matematiche e perfino filosofiche, orientate al cambiamento, alla sburocratizzazione, all’orientamento al risultato sarebbe fondamentale. Soprattutto, occorrerebbe infarcire la dirigenza e gli apparati di professionalità statistiche, finanziarie ed economiche.
Compreso esattamente quanto questo possa risultare utile in tutte le attività della PA che richiedono profondissime competenze giuridiche non per capriccio, ma per il contenuto ed il tenore delle regole (servizi demografici, del lavoro, espropriazioni, appalti, contrattualistica pubblica, anticorruzione, gestione della legge 241/1990, attività di produzione normativa e provvedi mentale, servizi sociali, servizi previdenziali, etc), c’è da osservare che l’impostazione data è stata pedissequamente seguita soprattutto dai Governi.
Sia al livello ministeriale, sia al livello dirigenziale, da anni ormai i dicasteri si sono infarciti di professionalità economiche e similari.
Con risultati oggettivamente imbarazzanti, se non proprio devastanti. Ne è esempio purtroppo calzante la sentenza della Corte costituzionale 70/2015, che ha bocciato quella parte del d.l. 201/2011, convertito in legge 214/2011 che aveva bloccato l’adeguamento al costo della vita delle pensioni di tre volte superiori al minimo Inps, di poco superioi ai 1400 euro al mese.
E’ chiaro che si tratta di una norma redatta da tecnici dell’economia, avente lo scopo di recuperare in via di cassa hic et nunc, tra 2012 e 2013, circa 5 miliardi di euro. Altrettanto chiaro è che si tratta di una norma probabilmente ben misurata in merito agli effetti finanziari, ma priva di una valutazione sulla propria sostenibilità giuridica.
Sulla Consulta in questi giorni stanno piovendo moltissime critiche, che l’accusano di essere causa di un buco al bilancio dello Stato. Accuse tutte basate solo sull’analisi degli effetti economici, completamente avulse dall’analisi in punto di diritto.
Si insiste nel non capire che in uno Stato di diritto prima ancora delle necessarie efficienza, efficacia, economicità, viene la legalità. Nessuna norma può comportare benefici effetti economici, se non è redatta e studiata in modo da armonizzarsi con l’ordinamento. E’ un vincolo al quale i Governi ed il Legislatore non possono sottrarsi, proprio perché in uno Stato di diritto anche gli organi dotati dei poteri esecutivo e legislativo (come anche di quello giudiziario) non possono anteporre al rispetto delle norme effetti o principi diversi. Nessuna legge, atto, provvedimento, può considerarsi efficace e finanziariamente o economicamente corretto, se non legittimo. La legittimità viene prima; gli effetti concreti di altra natura, necessariamente dopo.
Immaginare di gestire il delicatissimo potere legislativo demandandolo agli economisti è una prospettiva totalmente sbagliata. Va benissimo che economisti e professionisti tecnici siano interpellati dal Governo per trovare metodi e idee; ma la traduzione in legge di questi, laddove necessaria, deve forzatamente fare i conti con il rispetto delle leggi e della Costituzione. Non è burocrazia, ma la base essenziale della convivenza pubblica.
Altrimenti, è fin troppo facile per qualsiasi Governo e Parlamento varare leggi che diano effetti immediati di natura economica, sperando che per due-tre anni vada bene, nella speranza (ovviamente vana) che la Consulta non se ne occupi o che essa possa essere guidata, nell’esame delle leggi da giudice delle leggi, da ragioni economiche, invece che di diritto.
Ancora qualche giorno fa Vincenzo Visco censurava la sentenza 37/2015 della Consulta che ha definitivamente confermato l’illegittima prassi delle Agenzie di conferire incarichi dirigenziali a propri funzionari senza concorso, evidenziando da economista che sarebbe la Consulta a sbagliare e che l’ordinamento non adeguato.
Occorrerebbe probabilmente fermarsi e guardare a quello che è successo in questi 20 anni di equivoci in merito a contenuti ed assetto di poteri ed ordinamento della PA. La legge 214/2011, pomposamente chiamata “salva Italia”, redatta in fretta e furia con impronta e piglio economico ha prodotto non pochi danni: gli esodati, una norma costituzionalmente illegittima sulle pensioni e un’altra norma costituzionalmente illegittima sulle province, ottusamente poi riveduta, corretta e rilanciata dalla riforma Delrio.
Guardando indietro di 20 anni, ci si accorge che la maggiore efficienza, efficacia, semplicità dell’azione amministrativa e legislativa sono solo enunciazioni vuote. Le leggi sono sempre più frettolosi esiti di decreti sempre d’urgenza, approvati col fiatone, senza spazio ad approfondimenti, con maxiemendamenti e voti di fiducua. Le semplificazioni esitano mostri, come il Durc, il 730 on line che non funziona, l’AvcPass, la fatturazione elettronica che aumenta gli adempimenti invece di ridurli.
E’ assolutamente corretto pensare di arricchire le professionalità pubbliche anche con competenze diverse da quelle giuridiche. Ma, pensare di reggere uno Stato, formularne le regole fondamentali – che sono leggi – negando la necessaria, insopprimibile competenza giuridica porta solo a risultati come quelli di una legge “salva Italia”, dalla quale molti italiani non sanno come salvarsi.
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