domenica 17 maggio 2015

Province, la Corte dei conti certifica il disastro della riforma Delrio

Dunque, la Cgil aveva affermato il vero: la combinazione micidiale tra legge 56/2014 e la sua sostanziale violazione, cioè la legge 190/2014, desina le province al dissesto finanziario. E se non sarà giugno 2015 il mese nel quale le province non potranno più permettersi di pagare gli stipendi, l’evento sarà praticamente certo per i mesi futuri, a meno che il Governo e il Parlamento non comprendano il disastro che hanno innescato e compiano una (molto improbabile) marcia indietro.

La riforma delle province, se proprio andava fatta, avrebbe potuto essere molto semplice e cioè attribuire alle regioni le funzioni non fondamentali delle province con i finanziamenti e le risorse necessarie, mediante attribuzione delle entrate e indicazione alle regioni di riorganizzare il livello territoriale e di spesa dei servizi. Sarebbero bastati pochi articoli di pochissime righe per risolvere la questione.

Ci si è, invece, intestarditi in una riforma quasi complessiva dell’ordinamento locale, la Delrio, che ha partorito una mostruosità giuridica: città metropolitane che sono province sotto falso nome, associazionismo comunale che, come sempre, è solo teorico, privazione del voto per i cittadini, sfascio delle province, accentuato dall’assurdo cambio di rotta sul processo di riforma, imposto dall’incauta legge 190/2014.

A certificare il disastro e l’insipienza di Governo e Parlamento ancora una volta è la Corte dei conti, Sezione Autonomie, che pure nel novembre 2013, nelle sue audizioni in Parlamento aveva opportunamente avvisato del disastro a venire che sarebbe derivato da quello che ancora allora era solo il disegno di legge destinato a divenire da lì a poco la scellerata legge 56/2014.

La deliberazione 17/2015 della Sezione Autonomie contenente la relazione “Il riordino delle province aspetti ordinamentali e riflessi finanziari” più che un atto di accusa contro l’assoluta inefficacia delle norme ed il caos creato è la conferma dell’assoluta improvvisazione e della dannosità del governare per slogan e sommarie cognizioni di ciò di cui si parla.

Alla luce della durissima relazione della Corte dei conti, rievocare le parole di esponenti del Governo pronunciate contro l’allarme lanciato dalla Cgil sul pericolo dissesti e buste paga, desta un senso di profondo sconforto.

La Sezione Autonomie non ha fatto altro che confermare il disastro della riforma delle province.

Andiamo subito alle considerazioni conclusive. Il quadro disegnato dalla Corte dei conti è agghiacciante: confusione normativa, ritardi, violazioni di accordi, intenti chiaramente boicottatori delle regioni: “Il progetto di riorganizzazione dell’amministrazione locale, anche sotto il profilo finanziario, delineato dalla l. n. 56/2014 - nel rispetto dei principi costituzionali, come da ultimo ritenuto dalla Consulta nella sentenza n. 50 del 6 marzo 2015 - sta incontrando ritardi e difficoltà nella fase attuativa, in particolare per quanto riguarda il riordino delle funzioni delegate o trasferite alle Province. E ciò, pur dopo l’adozione del d.p.c.m. 26 settembre 2014, che, in esecuzione del comma 92 dell’art. 1 della legge medesima ha stabilito, previa intesa in sede di Conferenza unificata, i criteri generali per l'individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connesse all'esercizio delle funzioni che devono essere trasferite, ai sensi dei commi da 85 a 97, dalle Province agli enti subentranti, garantendo i rapporti di lavoro a tempo indeterminato in corso, nonché quelli a tempo determinato in corso fino alla scadenza per essi prevista”.

Un disastro di una gravità semplicemente clamorosa. E’ semplicemente impressionante, scorrendo il paragrafo 2 della delibera, constatare come il Governo abbia sistematicamente violato tutti i punti dell’accordo siglato in sede di Conferenza Unificata l’11 settembre 2014 e recepito nel Dpcm 26.92014. La Corte dei conti ne sintetizza i contenuti:

1) siano modificati gli obiettivi del patto di stabilità interno secondo quanto previsto dal comma 94, al fine di tenere debitamente conto degli effetti anche finanziari derivanti dal trasferimento di funzioni; non se ne è fatto assolutamente nulla: il patto di stabilità interno per le province non è stato modificato e l’obiettivo per gli anni 2014 e 2015, di circa 600 milioni, finisce solo per aggravare ulteriormente la situazione finanziaria degli enti, confermando che la legge 190/2014 ha lo scopo preciso di portare le province al dissesto, probabilmente premeditato, visto che si vìola platealmente un accordo;

2) si provveda, ove necessario, a modifiche legislative per agevolare il trasferimento di personale nella misura richiesta dal trasferimento delle funzioni; non c’è stata alcuna modifica legislativa efficace volta all’agevolazione del trasferimento del personale. Come è noto, anzi, la legge 190/2014 ha previsto solo un blando congelamento delle assunzioni, non controllato da nessuno e ampiamente violato, come dimostrano numerosissimi bandi di concorso indetti da una serie di amministrazioni, tra cui l’Agenzia delle entrate. La circolare 1/2015 della Funzione Pubblica e del Ministero per gli affari regionali ha solo ulteriormente complicato le cose, ammettendo la mobilità non riservata ai dipendenti da ricollocare se attivata nel 2014, nonché prevedendo la possibilità di assumere per “figure infungibili”, fattispecie assolutamente non prevista nei commi 424 e 425 della legge 190/2014;

3) le procedure di mobilità siano condotte, come previsto dal comma 96, attraverso la  sterilizzazione della relativa spesa, ai fini del rispetto dei limiti e dei vincoli imposti dal d.l. n. 78/2010, fermo restando il principio di invarianza della spesa; niente di tutto questo è avvenuto. Intento dell’accordo era rendere completamente neutrale per gli enti che acquisissero in mobilità il personale provinciale addetto alle funzioni non fondamentali, in modo che non gravasse né sui tetti di spesa di personale, né a maggior ragione sui vincoli assunzionali. Invece, la legge 190/2014, in ulteriore clamorosa violazione dell’accordo, prevede che le mobilità consumino le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, non siano neutrali ai fini del patto di stabilità e non si computino solo per il tetto di spesa. Il tutto ha causato anche lo stucchevole contrasto interpretativo tra molte, troppe, sezioni regionali di controllo della Corte dei conti sull’ammissibilità della “mobilità neutrale” coinvolgente anche dipendenti non appartenenti alle province, senza che il Governo sia stato intenzionato a precisare la portata del congelamento delle assunzioni e della riserva di mobilità in modo da risolvere gli equivoci interpretativi cagionati dalla pessima qualità della legge 190/2014;

4) per gli enti subentranti non rilevino ai fini del rispetto della vigente disciplina in materia di limiti dell’indebitamento gli effetti derivanti dal trasferimento di funzioni; violata anche questa indicazione. Non c’è alcuna norma che sollevi gli enti subentranti dal peso dell’indebitamento. Anzi, la legge 190/2014, sottraendo a regime alle province 3 miliardi, ha il preciso scopo di accollare alle regioni ed ai comuni l’onere finanziario, debiti compresi, delle funzioni trasferite;

5) in applicazione dei principi e dei criteri di cui al comma 97, lett. b), siano attribuite agli enti subentranti le risorse finanziarie già spettanti alle Province ai sensi dell’art. 119 della Cost., dedotte quelle necessarie alle funzioni fondamentali; nulla di fatto anche per questo contenuto dell’accordo. Una violazione che contrasta palesemente appunto con l’articolo 119 della Costituzione. Lo Stato ha in sostanza requisito 3 miliardi alle province ed impone alle regioni di riordinare le funzioni non fondamentali senza assicurarne il finanziamento;

6) in applicazione dei principi e criteri di cui al comma 97, lett. l) dell’art. 1 della l. n. 56/2014, si provveda all’attribuzione ai soggetti che subentrano nelle funzioni di una parte delle entrate tributarie già spettanti alle Province nell’ambito del riassetto complessivo della capacità fiscale degli enti interessati dal processo di riordino; era una disposizione più che ovvia: attribuire, cioè, a regioni e comuni la quota parte di entrate delle province necessarie al finanziamento delle funzioni da trasferire. Ma, anche in questo caso il prelievo forzoso di 3 miliardi a regime imposto dalla sciagurata legge 190/2014 ha impedito che gli enti subentranti finanziassero le funzioni provinciali acquisite mediante le entrate provinciali loro devolute. Infatti, quasi il 40% delle entrate provinciali, scaturenti dall’imposta sull’assicurazione RC auto, serve allo Stato per garantirsi l’acquisizione dei 3 miliardi a regime requisiti alle province: dunque, gli enti subentranti debbono arrangiarsi con entrate proprie.

Una miscela esplosiva di clamorose violazioni a contenuti di un accordo tutto sommato logiche (pur nella complessivamente sbagliata impostazione della legge 56/2014), tutte quante frutto della devastante legge 190/2014. Non si tratta di (ovvie) considerazioni di chi scrive, ma anche di quanto pensa espressamente la Corte dei conti: “Nel percorso tracciato dalla l. n. 56/2014 si è inserita in modo non del tutto coerente la l. n. 190/2014 (legge di stabilità 2015) – come modificata dal d.l. n. 192/2014 (c.d. “milleproroghe”), convertito con modificazioni dalla legge 27 febbraio 2015, n. 11 – che, nonostante la già affermata necessità di correlazione tra funzioni fondamentali, funzioni trasferite, risorse e garanzia di copertura finanziaria, ha mantenuto fermi tagli ed oneri a carico delle Province, senza considerare la invarianza almeno temporanea di necessità finanziarie per le medesime, conseguente alla parziale attuazione della l. n. 56/2014. É anche prevista una tempistica stringente per gli adempimenti da porre in essere in attuazione di dette misure (decreto di riparto del taglio al 31 marzo 2015, prelievo delle risorse al 31 maggio 2015, ridefinizione delle dotazioni organiche al 31 marzo 2015)”.

Insomma, il caos già di per sé creato dall’illogica legge 56/2014 è stato drammaticamente accentuato dalla legge 190/2014, con la quale sono stati traditi tutti i punti, senza eccezione alcuna, dell’accordo Stato regioni dell’11.9.2014 e gettate le premesse per rendere totalmente insostenibile la situazione finanziaria delle province.

La legge 190/2014 ha vanificato completamente l’iter graduale previsto dalla legge 56/2014 e dai suoi provvedimenti attuativi, creando letterale sconquasso. Non fosse chiaro, lo spiega ancora la Corte dei conti: “L’anticipazione degli effetti finanziari, che si concretizzano nei tagli di spesa corrente stabiliti dalla legge di stabilità 2015, rispetto all’effettivo trasferimento dei fattori di determinazione delle uscite di tale natura, in particolare della spesa per il personale eccedentario secondo le previsioni della l. n. 190/2014, produce un effetto distorsivo nella gestione finanziaria degli enti in esame. Si verifica, in particolare, che, ad esercizio finanziario 2015 inoltrato, l’onere della spesa che doveva essere trasferito, secondo la tempistica della l. n. 56/2014, resta ancora a carico delle Province (ed il fenomeno è presumibilmente destinato a protrarsi).

Ne consegue che una parte della spesa, soprattutto di quella per il personale, grava su una gestione che, non avrebbe invece dovuto considerarla nel proprio programma finanziario. E siffatta anomalia sarà rilevante ai fini del rispetto del patto di stabilità interno 2015, con effetti sugli esercizi futuri degli stessi enti che dovessero risultare inadempienti”.

Chiediamoci se sia ammissibile che un Governo ed un Parlamento promuovano ed approvino una legge, quella di stabilità 2015, che produce queste distorsioni di cui parla la Corte dei conti. Chiediamoci quali tecnici, quali menti abbiano potuto immaginare ed attuare questo scempio. Chiediamoci – cosa che dovrebbe fare anche la Corte dei conti – di chi siano le responsabilità. Chiediamoci ulteriormente se il Governo resti ancora convinto della sostenibilità finanziaria della deleteria manovra escogitata. E chiediamoci se sia ammissibile che la valutazione sulla possibilità che una legge, la 190/2014, che strangola le province sul piano finanziario, violando tutti gli accordi attuativi della legge 56/2014, sia comunque sostenibile il Governo debba demandarla ad una società come la Sose, invece che attenersi alle indicazioni di un organo costituzionale come la Corte dei conti, che già dal novembre 2013 Governo e Parlamento hanno avuto la sfrontatezza di ignorare totalmente. Con i risultati che si vedono.

La Corte dei conti sarebbe da ascoltare anche quando con la relazione indica quali rimedi (per altro ormai molto tardivi) sarebbero da adottare: “Appaiono indispensabili, quindi, un riallineamento ed un costante coordinamento tra le fasi procedimentali di trasferimento delle funzioni e delle risorse - come dettagliatamente disciplinate dalla l. n. 56/2014 - e la produzione degli effetti finanziari che ad esse si correlano, al fine di garantire una corretta attuazione della riforma degli enti di area vasta ed il rispetto dei criteri di sana gestione finanziaria, nonché la regolarità amministrativo-contabile delle gestioni dei medesimi enti”.

Detto al contrario, la Corte dei conti afferma:

  1. che la legge 190/2014 causa una non corretta attuazione della riforma delle province;

  2. che la legge 190/2014 non consente il rispetto di criteri di una sana gestione finanziaria;

  3. che dalla legge 190/2014 deriva l’impossibilità di rispettare la regolarità amministrativo-contabile delle province.


La Corte dei conti, dunque, rivela una situazione di gravità inaudita: una legge assolutamente mal concepita, che produce solo danni di natura finanziaria. Tanto che la magistratura contabile rincara la dose, evidenziando le clamorose pecche della legge 190/2014: “Nello stesso tempo appare anche auspicabile la verifica della compatibilità della situazione determinatasi per le rilevate anomalie, finora registrate nello sviluppo delle fasi attuative della legge di riordino, con la sostenibilità finanziaria del contributo richiesto al comparto. Nel contesto di tale verifica andrebbe considerata la possibilità della previsione normativa di misure di flessibilità idonee a superare le situazioni di criticità che i rilevati ritardi e le evidenziate conseguenze, fin qui prodotte, riflettono sia nella prospettiva della gestione, sia in quella della programmazione triennale”.

Di fronte a simili devastanti conclusioni, qualsiasi Governo non potrebbe che prenderne atto e fare una doverosa marcia indietro.

Abbiamo il fondato sospetto, tuttavia, che l’esecutivo continuerà per la sua strada, ignorando del tutto i rilievi della Corte dei conti ed affidandosi ad apprendisti stregoni, sotto forma di società partecipate o consulenti giuridici.

Del resto, all’indomani della pubblicazione della relazione della Sezione Autonomie sostanzialmente il Governo, così comunicativo su tutto, non ha fatto nemmeno una piega: non un commento, non un tweet, nulla.

Anzi, qualcosa il Governo, per voce della Ministra della Funzione Pubblica ha dichiarato. Che, cioè, il Governo è pronto ad imporre alle regioni di effettuare il riordino.

Non solo. La Ministra ha anche affermato che il Governo è pronto a coprire i costi del personale destinato al sovrannumero, 20.000 dipendenti, avendo a disposizione 300.000 milioni allo scopo.

E’ sperabile che qualcuno informi la Ministra che il costo del personale destinato ad essere trasferito non può essere di 300.000 milioni: questa cifra coprirebbe a mala pena il trattamento stipendiale di circa 8000 dipendenti, visto che il costo lordo medio dei dipendenti pubblici è di 34000 euro. Infatti, la stima del costo del personale da trasferire è di oltre 800 milioni.

Ma, che il Governo sia particolarmente refrattario alla capacità di comprendere gli effetti negativi della sua produzione normativa ed attuativa della riforma delle province ha modo di confermarlo su La Repubblica del 16 maggio sempre il sottosegretario Angelo Rughetti. In un’intervista, riferendosi all’inerzia delle regioni, esordisce affermando: “Se non ci penseranno loro, ri penseremo direttamente noi": la riforma delle Province, ricollocamento dei 20 mila dipendenti in esubero compresi, sarà cosa fatta entro il 2016”. Toni duri e risoluti, che potrebbero lasciar intendere chiarezza di idee e decisionismo. Tale impressione, tuttavia, viene immediatamente contraddetta da una semplicissima ricerca d’archivio su Google, ove è facile reperire l’articolo del Corriere della sera del 22 dicembre 2014, nel quale Rughetti affermò: “il 2 gennaio ci sarà un decreto che imporrà alle Regioni di scegliere se acquisire le competenze delle Province e il relativo personale, o lasciarle alle Province o ai Comuni”. E’ vero che la frase parla solo del 2 gennaio, senza indicare l’anno, ma altrettanto vero pare che il cipiglio ed il decisionismo in merito al disastro della riforma provinciale restino solo parole.

Ma, l’intervista del 16 maggio rivela come ancora una volta il Governo non abbia intenzione di prendere atto dell’evidenza. Afferma, infatti, Rughetti in merito alla deliberazione della Sezione Autonomie: “L'ottima relazione della Corte specifica appunto che se le Province vanno in rosso è perché continuano a fornire prestazioni che dovrebbero essere a carico delle Regioni e che lo fanno pagando i dipendenti con risorse proprie perché le regioni non trasferiscono loro i fondi necessari. Il taglio della legge di stabilità non c'entra nulla: garantisce totalmente servizi che lo Stato attribuisce alla Province”.

Non c’entra nulla la legge 190/2014? E’ chiaro: Rughetti non ha letto o non accetta le conclusioni evidentissime della Corte:

- “ Sul progetto legislativo di riordino delle “Città metropolitane, Province, unioni e fusioni di Comuni” – poi divenuto legge n. 56 del 2014 – è stata sentita la Sezione delle autonomie in due distinte audizioni: la prima presso la Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati il 6 novembre 2013 (A.C. 1542); la seconda presso la Commissione Affari costituzionali del Senato il 16 gennaio 2014 (A.S. 1212). In tali occasioni la Corte ha avuto modo di esprimere le sue valutazioni su taluni ipotizzabili effetti della normativa, segnalando, tra l’altro, la necessità di un attento e continuo monitoraggio: 1) del rispetto dei termini previsti per gli adempimenti esecutivi della riforma; 2) dell’effettivo concretizzarsi dei potenziali risparmi attesi; 3) degli eventuali costi aggiuntivi emergenti, ai fini di una tempestiva ed adeguata copertura.
In prosieguo, questa medesima Sezione ha trattato della situazione finanziaria delle Province nella Relazione sulla gestione finanziaria per l’esercizio 2013 degli Enti territoriali evidenziandone la precarietà e segnalando, tra l’altro: che l’analisi dei risultati delle manovre 2008-2013, ha confermato per le Province il raggiungimento degli obiettivi di risparmio previsti, con la conseguente riduzione delle risorse destinate ai servizi essenziali; che le manovre avviate dal 2009 hanno fatto registrare un taglio di 2,9 miliardi per le Province con una contrazione rilevante degli investimenti (mediamente il 60% delle economie di spesa); che sempre per le Province si registra una severa riduzione della spesa finale di oltre 1,3 miliardi, tagli di risorse particolarmente incisivi, entrate che cedono del 10,4%.
La Corte ha anche richiamato l’attenzione sull’impatto delle nuove misure riduttive sulle risorse delle Province, conseguenti alla legge di stabilita 2015, suscettibili di generare forti tensioni sugli equilibri finanziari, in particolare per gli enti strutturalmente più deboli
”;

- “La l. n. 56/2014 prevedeva per il riordino delle funzioni un iter procedurale articolato in una serie di passaggi, primo fra tutti quello dell’individuazione delle funzioni fondamentali che restano affidate alle Province e di quelle non fondamentali da attribuire agli altri enti (Comuni, Regioni, Stato), cui doveva far seguito la quantificazione di finanziamenti e spese per gestire entrambe le tipologie di funzioni, con contestuale individuazione delle risorse umane, strumentali ed organizzative.
A fronte di tale iter procedurale le disposizioni recate dalla legge di stabilità per il 2015 ed ancora prima l’accordo dell’11 settembre 2014 ed il d.p.c.m. del 26 settembre 2014 hanno introdotto novità che, in parte, vanificano l’anzidetta procedimentalizzazione.
In particolare, la l. n. 190/2014 al comma 418 individua il contributo triennale richiesto alle Province che concorrono con una riduzione della spesa corrente pari ad 1 miliardo (1.180 milioni) di euro per il 2015, 2 miliardi per il 2016 e 3 miliardi per il 2017”;


- “Conclusivamente può osservarsi che, come puntualmente già evidenziato dalle Sezioni Riunite nel documento approvato a febbraio 2015 su “Prospettive della finanza pubblica dopo la legge di stabilità”, il taglio delle risorse non potrà non investire, almeno in parte, anche le funzioni oggetto di trasferimento ad altri livelli di governo che, essendo già state sottoposte dalle Province a forti riduzioni, non sembrano allo stato presentare una dotazione di risorse tale da assicurare risparmi nella misura richiesta dalle disposizioni e, comunque, il predetto taglio potrebbe, a riordino delle funzioni completato, produrre l’effetto di scaricare parte dell’onere sugli enti subentranti.
La stessa considerazione, peraltro, vale anche per le funzioni fondamentali che rimarranno in capo agli enti di area vasta, anch’esse sottoposte negli ultimi esercizi a costante compressione
”.

Ce ne sarebbe abbastanza per convincere chiunque della circostanza dimostrata da numeri e fatti che l’intervento della legge 190/2014 non è sostenibile sotto nessun tipo di punto di vista, né finanziario, né funzionale, né ordina mentale, né logico. Soprattutto, la Corte dei conti conferma che dalla riforma delle province non deriva un euro di risparmio, ma anzi scaturisce il deterioramento di conti pubblici e servizi.

 

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