La prospettiva del licenziamento di migliaia di dipendenti, in particolare i circa 10.000 di addetti ai servizi per il lavoro e alla polizia provinciale è ormai estremamente concreta. Vediamo il perché.
Servizi per il lavoro. In quanto ai servizi per il lavoro, che coinvolgono circa 7.500 dipendenti di province e città metropolitane, il decreto attuativo del Jobs Act che attiva l’istituzione dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal) a sorpresa (non troppo per chi scrive) non prevede in alcuna sua parte il trasferimento dei lavoratori provinciali presso l’Agenzia.
Le porte del nuovo ente, al contrario, restano solidamente chiuse: la dotazione organica dell’Agenzia sarà di soli 400 dipendenti, che transiteranno dalle file del Ministero del lavoro o di Italia Lavoro spa.
Per quanto riguarda il personale delle province addetto ai servizi per il lavoro, la soluzione prevista dal decreto si abbina e coordina con quanto prevede il “decreto enti locali”. In sostanza:
- il decreto enti locali anticipa le disposizioni sul convenzionamento tra regioni e Ministero del lavoro, allo scopo di mantenere per qualche tempo i servizi per il lavoro ancora in capo alle province, ma sottoposti ad un più stringente coordinamento delle regioni, che dovrebbero sostenerne le spese avvalendosi di un esiguo cofinanziamento statale;
- il decreto legislativo del Jobs Act riprende pari pari la previsione del “decreto enti locali”, ma trasforma una gestione provvisoria dei servizi, legata alle convenzioni tra Ministero del lavoro e regioni, in una assegnazione definitiva dei centri per l’impiego alle regioni, come uffici regionali.
Infatti, l’articolo 11 dello schema di decreto attuativo del Jobs Act, riprende quanto prevede il “decreto enti locali”, ma mette a regime i centri per l’impiego alle dipendenze delle regioni. Ecco quanto prevede la norma citata: “Allo scopo di garantire livelli essenziali di prestazioni attraverso meccanismi coordinati di gestione amministrativa, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali stipula, con ogni regione e con le province autonome di Trento e Bolzano, una convenzione finalizzata a regolare i relativi rapporti e obblighi in relazione alla gestione dei servizi per l’impiego e delle politiche attive del lavoro nel territorio della regione o provincia autonoma, nel rispetto del presente decreto nonché dei seguenti principi:
a) attribuzione delle funzioni e dei compiti amministrativi in materia di politiche attive del lavoro alle regioni e alle province autonome, che garantiscono l’esistenza e funzionalità di uffici territoriali aperti al pubblico, denominati centri per l’impiego [...]”.
Se non fosse, comunque, troppo chiaro che la previsione citata sopra significa traslare i centri per l’impiego dalle province alle regioni, ogni dubbio viene risolto dall’articolo 18, comma 1, dello schema di decreto: “Allo scopo di costruire i percorsi più adeguati per l’inserimento e il reinserimento nel mercato del lavoro, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano costituiscono propri uffici territoriali, denominati centri per l’impiego, per svolgere in forma integrata, nei confronti dei disoccupati, disoccupati parziali e a rischio di disoccupazione, le seguenti attività […]”.
Risolto il problema della ricollocazione dei 7.500 dipendenti provinciali addetti ai servizi per il lavoro? Per nulla.
Lo schema di decreto attuativo del Jobs Act non disciplina l’elemento più importante per il trasferimento delle funzioni delle politiche attive del lavoro (e del connesso personale) alle regioni: la dotazione di risorse e finanziamenti necessari.
Di fatto, si tratta di una modalità surrettizia con cui lo Stato passa alle regioni il peso delle politiche attive del lavoro e del connesso personale, ancora una volta senza minimamente preoccuparsi di applicare ciò che prevede in proposito la legge 56/2014: agli enti destinatari delle funzioni provinciali non fondamentali debbono essere assegnati personale, risorse strumentali, patrimoniali e tecnologiche, insieme alle fonti di entrata necessarie a sostenere le spese connesse.
Questa operazione è, tuttavia, impedita dalla legge 190/2014, che avendo prelevato forzosamente alle province 3 miliardi di spese correnti a regime dal 2017, non consente alle province stesse di trasferire agli enti destinatari le risorse necessarie al funzionamento delle funzioni traslate.
Ci si aspettava che il decreto attuativo del Jobs Act istituendo l’Anpal rimediasse al problema, reperendo le risorse anche, perché no, proprio tra i miliardi prelevati forzosamente dallo Stato ai danni delle province.
Niente di tutto questo. Il decreto attuativo del Jobs Act conferma quanto prevede il “decreto enti locali”: al massimo, lo Stato, per due anni, attribuirà alle regioni che sottoscriveranno le convenzioni viste prima per la gestione delle politiche attive del lavoro, 70 milioni, tratti come anticipazione dal fondo di rotazione per la formazione professionale, a sua volta finanziato dal Fondo Sociale Europeo.
Si tratta da un lato di un azzardo, dall’altro di una compartecipazione assolutamente irrisoria alle spese. E’ un azzardo, perché le regole di gestione del Fse vietano di utilizzarne le risorse per il pagamento dei servizi ordinari: nel caso di specie, i 70 milioni servirebbero per coprire i costi degli stipendi dei dipendenti provinciali. Se le regioni accettassero di utilizzare i 70 milioni come si ostina a proporre il legislatore (norma analoga era contenuta nell’articolo 1, comma 429, della legge 190/2014, abolita dal “decreto enti locali”), si esporrebbero al rischio di sanzioni economiche fortissime, in veste di beneficiarie del finanziamento Fse.
Un rischio che non vale proprio la pena di essere corso, dal momento che la spesa per il personale provinciale addetto ai servizi per il lavoro è di circa 250 milioni anni, 3 volte e mezzo circa in più di quanto verserebbe, per altro solo per il 2015 e 2016, lo Stato. Ma, complessivamente i servizi per il lavoro movimentano una spesa annua di circa 700 milioni.
Dunque, il decreto attuativo del Jobs Act passa alle regioni le funzioni provinciali in tema di politiche del lavoro, ma senza assicurare il finanziamento e limitandosi ad una compartecipazione di dubbia legittimità del solo 10% per i soli anni 2015 e 2016.
La violazione dell’articolo 119 della Costituzione è clamorosa. Il quarto comma del citato articolo 119 dispone, infatti, che la legge deve prevedere fonti di finanziamento tali da consentire “ai comuni, alle province, alle città metropolitane e alle regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”. Invece, l’impostazione del decreto attuativo del Jobs Act scarica di fatto integralmente sulle regioni la spesa di 700 milioni annui, senza applicare le regole dell’articolo 1, commi 92 e 96, della legge 56/2014 e violando, come detto, l’articolo 119 della Costituzione.
Un caos assoluto. Le regioni, a meno che non riescano a finanziare la maggiore spese di 700 milioni con nuove tasse, non avranno alcun interesse a sottoscrivere le convenzioni previste ed a subentrare alle province nella gestione diretta dei servizi per il lavoro, tanto più quelle che già destinano imponenti risorse ai servizi privati, per altro potenziati dal decreto attuativo del Jobs Act.
I rischi concreti, dunque, sono molteplici:
- a) che nessuna o solo alcune regioni stipulino le convenzioni;
- b) che, di conseguenza, tutte o molte province restino costrette ad affrontare la spesa per la gestione dei servizi per il lavoro, pur non disponendo del potere di spesa connesso, andando incontro al dissesto;
- c) che tutto o gran parte del personale non venga acquisito dalle regioni, sì da restare presso le province a contribuire al dissesto finanziario e, soprattutto, destinato ad andare in disponibilità se entro il 31.12.2016 non riesce a ricollocarsi da qualche altra parte.
Insomma, il pericolo che il Governo lasciasse servizi e dipendenti provinciali al proprio destino, pur negato ripetutamente dagli esponenti dell’esecutivo, si fa estremamente concreto.
E non si può non nascondere la assoluta inutilità e velleitarietà della circolare interministeriale di Funzione Pubblica e Ministero degli affari regionali 1/2015, che ha fornito una serie impressionante di indicazioni “attuative” della legge 190/2014 completamente al di fuori della realtà, per prima quella di escludere dai processi di mobilità il personale provinciale dei centri per l’impiego, in quanto destinato all’Agenzia nazionale per il lavoro. Ma è possibile che due Ministeri abbiano scritto disposizioni attuative di legge totalmente al buio, fornendo indicazioni che si sono rivelate completamente infondate? Non era meglio tacere?
Stucchevole, poi, è anche la circostanza che a due anni quasi dall’avvio dell’iter per la riforma delle province, rovinosamente sfociato nella legge 56/2014, si scopra che i servizi per il lavoro sono da attribuire alle regioni. Non era, allora, più producente farlo subito, prima di approvare la deleteria legge 190/2014, che impedisce il corretto finanziamento dei servizi?
Polizia provinciale. Discorsi in parte analoghi possono farsi per le disposizioni del “decreto enti locali” riguardanti la polizia provinciale.
Anche in questo caso non possiamo non constatare la totale inutilità, inopportunità e fallacità della circolare 1/2015, che, senza alcuna base normativa, aveva escluso anche la polizia provinciale dalla mobilità ordinaria, immaginando un infondato ed inesistente percorso dedicato verso un nuovo corpo di polizia, che sarebbe dovuto emergere dalla legge delega di riforma della PA. Ancora una volta, a Palazzo Vidoni mostrano di non sapere bene di cosa parlano e di aver di fatto emanato una circolare dai contenuti solo propagandistici.
Infatti, il legislatore ha totalmente smentito le avventate affermazioni della circolare. Prima, negando ogni possibilità che i corpi di polizia provinciale confluissero nella riforma delle forze di polizia, col disegno di legge delega di riforma della PA; poi, proprio col “decreto enti locali”, ai sensi del quale i dipendenti dei corpi di polizia provinciale sono destinati ad ingrossare le file dei corpi di polizia municipale.
Ma, anche in questo caso le cose non saranno così semplici. I tempi si annunciano lunghi. Le indicazioni del “decreto enti locali” sulla polizia provinciale nella sostanza aggiungono ben poco al regime vigente. Si prevede che il personale dei corpi di polizia provinciale transiti “nei ruoli degli enti locali per lo svolgimento delle funzioni di polizia municipale”. Tuttavia, l’unico elemento di “novità” della disposizione consiste nella specificazione normativa che i dipendenti dei corpi di polizia provinciale non sono “bloccati” nel prestare servizio presso le province, in attesa dell’impalpabile riforma delle forze di polizia a smentita della circolare 1/2015.
Il resto delle disposizioni del decreto, però, lascia di fatto fermo quanto previsto dall’articolo 1, comma 89, della legge 56/2014. Dunque, il trasferimento dei componenti della polizia provinciale sarà comunque subordinato alle leggi con cui le regioni riordineranno le funzioni. Sicchè, i tempi per giungere ai trasferimenti si rivelano estremamente lunghi, considerando l’inerzia delle regioni, che si trascina da mesi.
Il decreto, ancora, stabilisce che finchè i comuni non abbiano integralmente assorbito i dipendenti dei corpi di polizia provinciale (e non è possibile immaginare quando questo si verificherà), non potranno assumere, a pena di nullità “personale con qualsivoglia tipologia contrattuale per lo svolgimento di funzioni di polizia locale, fatta eccezione per le esigenze di carattere stagionale come disciplinate dalle vigenti disposizioni”. Ma, l’articolo 1, comma 424, della legge 190 era già chiaro nel disciplinare ciò: nessuno ha mai dubitato che i comuni potessero assumere i vigili per esigenze stagionali, posto che il blocco delle assunzioni non coinvolge quelle a tempo determinato, quali sono quelle destinate alle esigenze stagionali.
Poco innovativa anche la previsione secondo la quale il transito del personale dei corpi di polizia provinciale potrebbe avvenire sì nei limiti della dotazione organica e della programmazione triennale dei fabbisogni, ma “in deroga alle vigenti disposizioni in materia di limitazioni alle spese ed alle assunzioni di personale, garantendo comunque il rispetto del patto di Stabilità interno nell’esercizio di riferimento e la sostenibilità di bilancio”. Di fatto, si estende la deroga ai tetti di spesa, già comunque normata dal comma 424 della legge 190/2014.
Allo scopo di facilitare la mobilità dei dipendenti dei corpi di polizia provinciale, come degli altri dipendenti provinciali, il “decreto enti locali” come è noto ha anche eliminato alcuni impedimenti alle assunzioni, consentendo di assumere anche ai comuni che non si sono rivelati puntuali con i pagamenti. Confermando, indirettamente, per un verso l’eccessiva afflittività della sanzione del blocco delle assunzioni, e per l’altro verso che molte regole, comprese quelle sulla puntualità dei pagamenti, si rivelano velleitarie soprattutto a causa dell’assenza di strumenti di controllo preventivo. Nel caso specifico, poi, pretendere puntualità nei pagamenti, mentre si strozzano gli enti con le regole sul patto di stabilità è oggettivamente canzonatorio.
Sta di fatto che l’insieme delle disposizioni approvate dal Governo dimostra l’assoluta mancanza di idee concrete su come fare per garantire il trasferimento delle funzioni provinciali senza incidere negativamente sugli assetti finanziari degli enti destinatari e, ancora, come evitare il licenziamento di migliaia di dipendenti.
In realtà, sulla prima questione le scelte del Governo sono chiare: non si torna indietro dal prelievo forzoso di 3 miliardi alle province, sicchè gli enti “fortunati” che subentreranno alle province nell’esercizio delle funzioni dovranno arrangiarsi. Questo comporterà l’inevitabile incremento di tasse, confermando che dalla riforma delle province non poteva derivare alcun risparmio, ma evidentemente è considerato un “danno collaterale” sopportabile. Ancor più sopportabile appare il danno del licenziamento, divenuto estremamente concreto, di migliaia di dipendenti. Esso, per un verso, alleggerisce i conti pubblici, dunque ben venga; in secondo luogo, è evidente che il Governo dalla notizia del licenziamento di alcune migliaia di lavoratori pubblici non potrà che raccogliere plausi e consenso da parte della stragrande maggioranza dei cittadini.
Sicchè, se le disposizioni in tema di riforma delle province e riordino delle loro funzioni si riveleranno, come ogni giorno appare sempre più chiaro, un totale fallimento sul piano normativo ed ordinamentale, in via di fatto si prestano comunque al plauso dell’elettorato.
Questa appare l’unica ragione che spiega come mai il Governo ed il Parlamento si intestardiscono in misure palliative (suscita sorriso la previsione di consentire agli enti della PA di assumere i dipendenti provinciali in comando o distacco: si tratta di poche decine di soggetti, ininfluenti per il problema del costo del personale) o in disposizioni in completo contrasto con le misure finanziarie inizialmente contenute nella comunque disastrosa legge Delrio.
Dal quadro descritto, dovrebbe risultare chiaro che per i dipendenti provinciali c’è, ormai, il “liberi tutti”. I “percorsi privilegiati” di mobilità vaticinati senza alcun fondamento dalla circolare 1/2015 non hanno davvero più senso. Gli spazi aperti ai comuni per le assunzioni non potranno essere negati ai dipendenti provinciali anche dei servizi per il lavoro, dal momento che non esiste alcuna garanzia che essi transiteranno presso le regioni; al contrario, l’atteggiamento di aperto contrasto di queste alle iniziative governative sul lavoro pone seriamente a rischio la posizione dei 7.500 dipendenti provinciali dei servizi per il lavoro, per i quali diviene essenziale cercare comunque di ricollocarsi presso i comuni. Occorrerà verificare se il fin qui inutile portale mobilita.gov.it, vuoto ed inutilizzabile, sbloccherà i trasferimenti dei 7.500 interessati.
Intanto, il tempo stringe: dei 24 mesi disponibili per la ricollocazione dei circa 20.000 dipendenti provinciali in sovrannumero ne sono trascorsi 6 con un sostanziale nulla di fatto, che ha però reso la vita difficile ai comuni, per i quali solo a giugno si è finalmente aperta la possibilità di effettuare assunzioni a tempo indeterminato nell’ambito dei servizi educativi e scolastici. Anche in questo caso, era certamente meglio provvedere subito, con uno dei tanti decreti legge approvati dal Governo. Ed anche in questo caso si è dimostrata l’inutilità della circolare 1/2015, che si era inventata la fattispecie delle assunzioni per “figure infungibili”, proponendosi come fonte per superare la sanzione di nullità per le assunzioni vietate dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014. Allo scopo di superare tale sanzione, non poteva certo bastare una mera circolare, ma occorreva una fonte di legge che, con ampio ritardo, è stata approvata.
Il tutto dimostra che occorrono mesi per comprendere l’avventatezza, l’insufficienza, la sommarietà di alcune norme e di circolari interpretative e provare ad adottare correttivi. Vedremo se nei restanti 18 mesi per l’attuazione del processo di ricollocazione dei dipendenti provinciali si sarà in grado di rimediare agli ancora moltissimi elementi critici della riforma.
C'è un piccolo refuso: il comma 89 è quello della legge 56/2014
RispondiEliminaGrazie, corretto.
RispondiEliminaMa su Twitter non ci sei più? era così comodo essere avvertiti dei tuoi sagaci commenti da un cinguettio!
RispondiEliminaDavvero a lei risulta che si è finalmente aperta la possibilità di effettuare assunzioni a tempo indeterminato nell’ambito dei servizi educativi e scolastici? pensavo che questo emendamento fosse saltato.
RispondiEliminaNiente più twitter.
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