L’azienda trasporti di Roma ha un buco di circa 1,5 miliardi, un punto di Pil, più del prelievo forzoso chiesto alle province nel 2015. La spending review colpisce a caso invece di essere selettiva
Dopo l’intemerata del sindaco Marino nei confronti dei vertici dell’Atac, messi sulla graticola dopo l’ennesima dimostrazione di inefficienza del trasporto locale della Capitale, torna al centro dell’attenzione il gigantesco volume di spesa di Roma e delle sue inefficienze.
Dovrebbe insegnare come si fanno le riforme e la spending review e quali obiettivi dovrebbero cogliere, l’analisi della situazione disastrosa di un comune già sull’orlo del fallimento e che ha messo a carico dello Stato e dell’imposizione fiscale di tutti gli italiani e non solo i romani una gestione commissariale per debiti di circa 15 miliardi, che costano una maggiorazione della tassa d’imbarco dell’aeroporto capitolino di 1 euro e, soprattutto, un contributo statale annuale di 500 milioni, praticamente senza scadenza.
Il bilancio del comune di Roma, da solo, vale 6,5 miliardi, più della metà della spesa complessiva di 107 province, gli enti colpiti dalla furia cieca abolizionista. Un bilancio, quello del comune di Roma, che, come dimostra il disastro finanziario sfociato nella gestione commissariale e la vicenda dell’Atac, per centinaia di milioni viene utilizzato per coprire annualmente perdite che per la sola azienda trasporti sono mediamente di 200 milioni l’anno. Per arginare l’ulteriore buco del 2015, il comune ricapitalizzerà di altri 200 milioni e 300 li riceverà dalla regione Lazio: mezzo miliardo per evitare che l’Atac porti i libri in tribunale e continuare ad avere un disservizio nei trasporti pubblici come nessun’altra capitale dei Paesi occidentali (ma anche nessuna città di medio-bassa amministrazione) conosce.
Il punto, allora, è: viste le dimensioni spaventose della mala amministrazione che caratterizza Roma da almeno 20 anni e l’imponenza delle cifre, ha avuto un senso l’offensiva contro le province?
Il fatto è che le riforme e le spending review (più annunciate che realizzate) in questi anni sono state portate avanti solo a forza di slogan, senza nessuna analisi di impatto, utilittà e fini.
L’esempio della riforma delle province è emblematico: si è posta in essere una normativa azzardata, dilettantesca e causativa di caos ordinamentale e riduzione dei servizi, su un volume di spesa pari all’1,25% di quella complessiva, inerente 107 enti, al grido “abolire le province!”, senza sapere perché e cosa facessero. Il mantra è che si trattasse di “enti inutili”, ma senza averlo verificato. E adesso, gli enti “inutili” non possono mantenere strade e scuole e tutti si sono di colpo accorti che inutili non erano.
Il mantra diceva che si sarebbero ottenuti miliardi e miliardi di risparmio. In effetti, interventi legislativi tra il 2010 e il 2013 hanno ridotto la spesa delle province da circa 13 a 10 miliardi. Oltre non si poteva andare, come dimostrano i fatti.
Ma, si è insistito su questa strada. E adesso, si replicano slogan e mantra per altre riforme o manovre da spending review insensate e senza sbocchi. Come la riduzione delle stazioni appaltanti a sole 35, che secondo stime ovviamente riportate sui giornali senza mai specificare come esse siano calcolate, dovrebbe portare a risparmi per 2,5 miliardi sugli appalti. A parte che si tratta appunto di stime tutte da verificare, nessuno considera che risparmi veri si possono conseguire solo su forniture e servizi ad alta standardizzazione (farmaci, cancelleria, telefonia e simili), ma su appalti di lavori e servizi come ad esempio tutti quelli afferenti il sociale, nessuna standardizzazione è possibile. E’ praticamente certo che, dunque, la convergenza degli appalti verso le centrali uniche sarà limitata, e col tempo sempre più, per valori, per dimensioni territoriali, sicchè entro pochi mesi e anni il numero delle eccezioni alla regola di utilizzare le centrali sarà talmente ampio, da trasformare il tutto in un sistema ingestibile ed incomprensibile. Basta aspettare.
L’altra replica riguarda il mantra della riduzione delle società partecipate degli enti locali da 8000 a 1000. Nessuno spiega il perché di questa riduzione forfettaria. Esistono studi che dimostrino che sono proprio 7000 le società in perdita o in situazioni finanziarie disastrose? Quali sono le 1000, invece, meritevoli e ben amministrate? Non si sa.
Il perché non lo si sappia è semplice: non esiste alcuna ricerca analitica sulla situazione delle società.
Eppure, agire in modo corretto per cercare davvero di tagliare la spesa pubblica in modo efficiente e non barbaramente indiscriminato come si è fatto con le province sarebbe semplice. Basta individuare poche decine o centinaia di casi, come il comune di Roma e l’Atac e colpire con decisione questi conclamati esempi di totale inefficienza, che per altro movimentano denari pubblici per volumi spaventosi, pari a interi punti di Pil.
La spending review può funzionare solo se è selettiva e non costruita a tavolino con fogli di Excel e forfetariamente allargata ad interi comparti. Spreca l’Atac? Allora, si attaccano tutte le società partecipate, mettendo nel mazzo anche quelle per nulla male amministrate e in perdita. Mentre nel frattempo lo Stato continua a foraggiare con 500 milioni l’anno l’inefficienza di Roma. L’Atac è gestita col modello in house? Allora, è il modello che, secondo Il Sole 24 Ore, non va bene, anche se diffusissimo in Europa ed ammesso dalle varie direttive sui servizi pubblici. Perché mai si deve colpire la reale inefficienza: sarebbe troppo una “personalizzazione”, considerando che, fermandosi al caso di Roma sono passati, come sindaci ed assessori, in fluentissimi politici.
Più facile è colpire nel mucchio: parlare di 8000 partecipate, quando sarebbe facilissimo individuare esattamente quelle decine o centinaia che come l’Atac meritano l’azzeramento e il totale rifacimento; parlare di ridurre le stazioni appaltanti, senza mai approntare sistemi per controllare se gli acquisti siano effettuati attraverso le centrali (basterebbe un controllo preventivo obbligatorio per far effettuare tutti gli acquisti alla Consip); parlare di eliminare il sistema in house, come fosse questo il problema e non la mala gestione, che porta al fallimento anche se non in house; parlare di riformare le province, quando agendo su un solo comune come Roma, riportandolo alla semplice normalità si potrebbero conseguire molti più risparmi, senza devastare organizzazioni territoriali esistenti da oltre un secolo.
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