Come chi scrive sostiene ormai da anni, niente di quello che è stato raccontato sulla riforma delle province era vero e fondato. Non si tratta per nulla di una riforma utile, non è assolutamente una riorganizzazione efficiente delle istituzioni, non si è ricavato nemmeno un centesimo di risparmio (i soldi prelevati alle province li ha “requisiti” lo Stato che li spende per i propri fini), non si è nemmeno riusciti a riallocare il personale.
Un pasticcio di proporzioni colossali, che ha rivelato la totale improvvisazione, confermando che se le riforme hanno come fonte di ispirazione e di conteggio delle conseguenze economiche le inchieste alla Stella&Rizzo o società di consulenza che vivono del formare fogli elettronici per assecondare i desiderata del committente, come la Sose, il risultato non può che essere la catastrofe.
Due province già in dissesto, Vibo Valentia, Biella, cinque in predissesto, tutte le altre nell’impossibilità di chiudere i conti ed approvare i bilanci e destinate entro pochi mesi a fare compagnia a Vibo Valentia e Biella.
In mezzo, scuole che non hanno più il rinnovo degli arredi, i finanziamenti per le spese di pulizie, utenze e generali, i finanziamenti per le manutenzioni ordinarie; strade provinciali non più mantenute, piene di frane, buche e dissesti, chiuse o con limiti di velocità dei 30 l’ora; uffici di informazione turistica chiusi, attività di classificazione delle strutture ricettive sospesa; centri di formazione professionale allo sbando, con corsi chiusi per impossibilità di acquisire il personale necessario; servizi ai disabili come il trasporto nelle scuole o l’assistenza ai disabili sensoriali interrotti e negati.
Il tutto, causato da avventurieri del diritto e dell’organizzazione pubblica, che hanno fabbricato un mostro giuridico, senza né capo né coda.
Questi giudizi sono frutto di una preconcetta valutazione basata su un indimostrato partito preso? Diremmo proprio di no.
Sono i fatti a dimostrarlo. Sui risultati totalmente negativi di una riforma così mal concepita e peggio attuata ci si è già soffermati sul numero di La Settimana degli Enti Locali 25/2015, con l’articolo “Province: il bilancio fallimentare di una riforma”. Ma, ancor più delle evidenze derivanti dalla sostanziale impossibilità di attuare i contenuti assolutamente velleitari e mal concepiti dallo stuolo di “esperti” e “consulenti” che pure hanno collaborato col Ministro Delrio, sono i numeri a dimostrarlo. E di fronte ai numeri, pur senza ammettere di aver commesso un clamoroso errore e chiedere scusa, il Governo comincia a vacillare e a rendersi conto che la riforma delle province è uno sgorbio inguardabile, dannoso e da rivedere.
La prova è fornita dall’emendamento proposto dal Governo al cosiddetto “decreto enti locali”, il d.l. 78/2015, col quale si autorizzano le province ad approvare il bilancio di “previsione” a settembre (a 2015 già concluso, praticamente) per la sola annualità 2015. Senza, dunque, la prospettiva triennale propria di qualsiasi bilancio di previsione, per altro autorizzatorio come quelli pubblici.
Perché questa decisione? E’ semplicissimo: nel 2016 e nel 2017 i conti delle province non possono mai chiudere, a causa del prelievo forzoso di 2 miliardi e 3 miliardi imposto incoscientemente dalla legge 190/2014, che con le sue previsioni finanziarie sulle province ha assestato alla riforma Delrio, già pessima di per sé, il colpo definitivo per renderla uno dei fallimenti più clamorosi dell’Italia repubblicana e forse anche monarchica.
Che i conti non tornassero non ci volevano 7 mesi per capirlo, bastavano 7 nanosecondi. Chi scrive ha da sempre evidenziato l’assoluta insostenibilità ed erroneità dei calcoli del Governo (https://rilievoaiaceblogliveri.wordpress.com/2015/03/14/3285/).
In effetti, non ci voleva nulla a fare un po’ di conti e scoprire che l’intera impalcatura sulla quale è stata costruita la legge 190/2014, costruita solo sulle inchieste giornalistiche prive di qualsiasi tecnicità ma molto nazionalpopolari o su conti artefatti in foglio elettronico, assolutamente non regge.
Lo ha dimostrato anche l’Unione Province Italiane, col “dossier Riforma delle Province e delle Città metropolitane: a che punto siamo?” (http://www.upinet.it/docs/contenuti/2015/07/conferenza%20stampa%2015%20luglio%20riforma%20province%20e%20citt%C3%A0%20metropolitane.pdf). Potrebbe apparire, ovviamente, una difesa di parte, ma in realtà nessuno si è azzardato a confutare le indicazioni del dossier: la manovra finanziaria sulle province non consente loro di avere le risorse nemmeno per gestire le funzioni fondamentali che rimarranno di loro competenza. Cioè esattamente quanto chi scrive ebbe a profetizzare. Perché i numeri sono numeri e da essi non si scappa.
Il Governo, con l’emendamento al decreto enti locali che consente alle province di approvare il bilancio per il solo 2015 ammette il fallimento clamoroso della legge 190/2014, perché indirettamente conferma che, come del resto ha confermato la Corte dei conti, Sezione autonomie, con delibera 15/2015, la manovra sulle province è semplicemente insostenibile.
D’altra parte, dal 2010 ad oggi il totale delle manovre finanziarie sulle province hanno comportato una riduzione della loro capacità di spesa che al 2015 ammonta a 3,741 miliardi e diverrebbe di 4,741 miliardi nel 2016 per assestarsi a 5,741 miliardi nel 2017, su una spesa totale che nel 2010 era di circa 12,5 miliardi, nel 2013 si è abbassata a 10,351 miliardi e nel 2014 è ulteriormente scesa a 8,97, miliardi. Una riduzione di spesa che in un quinquennio è stata pari al 28,2%!
Immaginiamo di apportare un simile taglio alla spesa delle regioni, che ammonta a circa 160 miliardi (di cui 113 per il servizio sanitario): si sarebbero risparmiati circa 45 miliardi; oppure, immaginiamo di tagliare del 28,2% la spesa complessiva dei comuni, 66 miliardi: il risultato sarebbe un risparmio di 18,6 miliardi; ancora, se si apportasse questa percentuale spaventosa di tagli alle spese dello Stato, al netto di quella previdenziale, ammontante a 272,9 miliardi, il risparmio sarebbe di circa 78 miliardi! Molto, ma molto di più di quanto preannunciato dal Governo di recente, come effetto della riduzione delle tasse.
Ma, ovviamente, il taglio lineare e diffuso alla spesa pubblica del 28,2% sarebbe assolutamente disastroso e insostenibile, esattamente come avvenuto per le province.
Da qui la “pezza” che prova a mettere nel buco di bilancio creato dal Legislatore l’emendamento al d.l. 78/2015: l’esenzione dall’approvazione del bilancio per le annualità 2016 e 2017 significa la presa d’atto e certificazione dell’assenza totale di equilibrio nei conti, dovuta alla macroscopica eccessività del prelievo forzoso imposto dallo Stato a province e città metropolitane.
Se un ente locale avesse impostato una propria manovra finanziaria come ha fatto lo Stato con la legge 190/2014, sarebbe incappato negli strali e ire della Corte dei conti. Il disastro istituzionale, organizzativo, economico e finanziario causato dalla micidiale combinazione della legge Delrio e della legge di stabilità 2015, invece, passa via come acqua fresca. Come se nessuno ne fosse responsabile.
E, invece, sarebbe proprio il caso di individuare chi è causa di un simile esempio di mala amministrazione. Perché di responsabili ve ne sono. Tantissimi.
A partire dalla stampa generalista e dalle sue cieche campagne populiste. A partire dal pamphlet “La Casta” l’abolizione delle province è divenuto un mantra, un comandamento. Nonostante l’ukaze del giornalismo d’inchiesta scandalistico non fosse minimamente argomentato e sostenuto da numeri e considerazioni tecniche. Per i giornalisti generalisti le province erano e sono da abolire in quanto “inutili”, senza sapere esattamente cosa esse facciano.
Un giornalismo di “inchiesta” che non sa cogliere la differenza tra “spesa” e “costi” e che ha fatto credere di cogliere, con la riforma delle province, risparmi eguali alla spesa (confusa con il costo) da essa movimentata, cioè all’epoca circa 12 miliardi. Quello stesso giornalismo dalle conoscenze giuridiche ed amministrative estremamente sommarie e generiche che si è persuaso e vuol persuadere dell’utilità ed efficacia della riduzione delle stazioni appaltanti a 35 per risparmiare sugli appalti e che ha lanciato da anni l’altro ukaze sulle società partecipate: senza soffermarsi sulla logica e banale necessità, ovvero chiudere solo quelle in perdita. Non è difficile: basta guardare i bilanci e mandare dei commissari presso gli enti che si rifiutino di liquidare società succhia soldi.
Ovviamente, le responsabilità di simile giornalismo sono gravi, ma infinitamente inferiori a quelle dei soggetti che, a partire dal populismo della stampa, ne prendano davvero sul serio le indicazioni e le facciano proprie, per tradurle in leggi di riforma di così pessima qualità, come quelle approvate per far contento il popolo dei bar.
Una responsabilità evidente, dunque, l’ha avuta prima il Governo Monti, che con l’allora Ministro alla Funzione pubblica Patroni Griffi ha avviato una prima riforma delle province, miseramente naufragata contro gli scogli della illegittimità costituzionale dalla quale era affetta.
Poi, altrettanta responsabilità se l’è assunta Letta, che ha inserito non si è mai capito bene se la riforma o l’abolizione delle province nel proprio programma di governo, senza alcuna analisi di fattibilità, senza alcuna proiezione seria degli effetti finanziari.
Ovviamente, però, la responsabilità più grande è in capo all’attuatore della riforma, l’allora Ministro degli affari regionali Delrio, che ha assunto, con il suo staff tecnico e consulenti e consiglieri, l’iniziativa normativa sfociata nella legge 56/2014 che fin qui ha avuto il solo effetto di privare i cittadini del potere di eleggere i propri rappresentanti. Il resto della legge è sostanzialmente un nulla di fatto clamoroso, a partire dalla grande “innovazione” che a dire di Delrio avrebbe dovuto, nientemeno, rilanciare l’economia: l’istituzione delle città metropolitane, che invece sono nate morte, perché colpite anche loro dai devastanti effetti della manovra economica; non parliamo, poi, dell’altra idea naufragata in quanto irrealizzabile nei termini previsti dalla riforma, cioè l’associazionismo comunale, immaginato nel Paese nel quale non si riesce nemmeno a far partire la centrale unica di committenza.
La legge 56/2014, per quanto mal congegnata sul piano ordinamentale, aveva almeno avuto il pregio di immaginare lo spostamento delle funzioni non fondamentali delle province verso gli enti destinatari come si trattasse di una cessione di ramo d’azienda: assieme alle funzioni, dunque, avrebbe dovuto traslare tutta la struttura, con le sue dotazioni di entrate, patrimonio, strumentazioni e personale.
C’era, però, un problema: la legge Delrio, così congegnata, non avrebbe fatto risparmiare nemmeno un centesimo, salvo 35 milioni di gettoni di presenza e indennità per amministratori, come confermato dalla Corte dei conti nelle sue audizioni in Parlamento, nelle quali aveva – per tempo – demolito pietra su pietra, inascoltata, la così improvvida e dilettantesca riforma.
Poiché il Governo doveva dimostrare al popolo e agli Stella&Rizzo che grazie alla riforma si sarebbero avuti miracolosi risparmi e tagli, allora è stata approvata la legge 190/2014, che ha causato il disastro certificato, ora, dall’emendamento sui bilanci. La legge che porta la riduzione della spesa delle province alle conseguenze nefaste indicate sopra e che non è stata nemmeno in grado di far partire, dopo 7 mesi, il processo di ricollocazione di 20.000 dipendenti, nel frattempo messi in sovrannumero ex lege, nella convinzione – ovviamente completamente sbagliata – che dall’1.1.2015 le regioni avrebbero riordinato le funzioni non fondamentali.
Le responsabilità della legge 190/2014 ricadono, ovviamente, in modo integrale sul Governo, autore del maxiemendamento dal quale sono derivate le disastrose conseguenze finanziarie cui, con estremo ritardo ed in modo parziale, si cerca di rimediare ora. Ovviamente, responsabilità ancora maggiori ricadono ancora sul Ministro Delrio, nel frattempo promosso prima al sottosegretariato alla Presidenza del consiglio e poi ai Lavori pubblici, che ha avallato una legge, quella di stabilità 2015, causa fondamentale dell’impossibilità di attuare il riordino secondo le previsioni originariamente previste dalla sia pur devastante legge 56/2014. Responsabilità molto forti ha anche il Ministro della Funzione pubblica Madia, alla quale la situazione connessa alla mobilità dei 20.000 dipendenti dichiarati in sovrannumero è totalmente sfuggita di mano, come attesta la circolare 1/2015, i cui contenuti sono stati smentiti e smantellati uno dopo l’altro dalle decisioni del Governo stesso (ad esempio in tema di polizia provinciale o centri per l’impiego), o dalla Corte dei conti o da Palazzo Vidoni stesso, che nella bozza di decreto per attivare la mobilità include tra le amministrazioni obbligate ad acquisire il personale provinciale soprannumerario gli enti del servizio sanitario nazionale, che secondo la circolare 1/2015 invece potevano essere esclusi sulla base di decisioni delle regioni.
Ovviamente, si tratta di responsabilità solo di natura politica, anche se alcune province, condotte forzatamente al dissesto dalle avventuristiche norme emanate, stanno tentando la strada della tutela giudiziale, quanto meno per ottenere la declaratoria di incostituzionalità dei “tagli”, oggettivamente poco compatibili con l’impianto dell’articolo 119 della Costituzione.
Tuttavia, si tratta di responsabilità estremamente gravi. L’emendamento al d.l. enti locali dimostra come il Governo ed il Parlamento sul tema si siano mossi improvvisando e per tentativi, affidandosi a dati e conteggi non basati sui semplicissimi numeri, ma su stime affidate alla Sose, che, in quanto consulente incaricato dal Governo stesso per ottenere una dimostrazione “tecnica” della sostenibilità delle manovre, in qualche modo si è fatta tornare i conti, sia pure in maniera tuttaltro che persuasiva (si vedano l’articolo di Massimo Bordignon su La Voce.info “Sembra facile tagliare la spesa pubblica” http://www.lavoce.info/archives/34537/sembra-facile-tagliare-la-spesa-pubblica/ e quanto scritto qui: https://rilievoaiaceblogliveri.wordpress.com/2015/04/18/province-i-tagli-incostituzionali-e-le-acrobazie-del-sose/). Ricordiamo che il presidente della Sose, nel corso dell’inchiesta di Report, smentendo un po’ se stesso, ha sottolineato due volte che i tagli proposti dalla sua società al Governo erano sostenibili per il solo 2015, ma non per il 2016 e il 2017; nella realtà, le province e le città metropolitane (che chiedono nuove tasse per sorreggersi) non riescono a farsi carico delle conseguenze finanziarie della legge 190/2014 nemmeno nel 2015, semplicemente perché chi ha fatto i calcoli ha sbagliato e di gran lunga.
Ci sono, poi, le responsabilità delle regioni, guardatesi bene dall’attivare il riordino delle funzioni e sulle quali il Governo intende scaricare quasi la metà dei “tagli” apportati alle province. Fino ad oggi era solo una fondata impressione. Adesso, gli emendamenti al d.l. 78/2015 lo confermano, laddove impongono alle regioni di legiferare per riordinare le funzioni non fondamentali entro il 30 ottobre 2015, prevedendo la sanzione, in caso di inadempimento, di obbligarle a versare alle province le risorse necessarie a sostenere dette funzioni non fondamentali. Dunque, tendenzialmente lo Stato intende confermare la “confisca” di 3 miliardi a regime alle province ed imporre alle regioni di coprire il buco creato al sistema. Vedremo con quali esiti, perché sebbene l’emendamento sia correttamente finalizzato a schiodare finalmente le regioni dalla propria inerzia, per altro verso appare piuttosto lontano dall’essere conforme e rispettoso del già citato articolo 119 della Costituzione.
Ora, comunque, inizia il tempo per leccare le ferite inferte all’ordinamento della scellerata riforma delle province e rattoppare in qualche modo. Ma, nel frattempo, i disservizi elencati prima sono già diffusi e colpiscono spesso le fasce più deboli della popolazione.
giovedì 23 luglio 2015
Bilanci delle province per il solo 2015: la certificazione degli errori nei conti e dello sfacelo di una riforma
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mi sembri perfino troppo buono.
RispondiEliminaqui non si tratta di semplici errori di calcolo, ma di un vero e proprio attacco coordinato da anni (fina dal progetto politico Gelli) per cancellare il controllo democratico del territorio.
mica e` un caso che si siano affossate le Province, invece che tagliare le Regioni.
esigenze di accentramento anti-democratico dei processi decisionali.
e` molto piu` facile per qualunque lobby lavorare e corrompere a livello regionale che provinciale...