Un modo surrettizio per introdurre l’eliminazione del valore legale del titolo di studio. L’emendamento introdotto al ddl delega di riforma della PA che mira a dare valore non solo al voto di laurea ma al “peso” dell’Ateneo di provenienza è un evidente vulnus alla razionalità e alla stessa funzione dei concorsi.
La disposizione introdotta nel corpo dell’articolo 13 del disegno di legge prevede: “superamento del mero voto minimo di laurea quale requisito per l'accesso ai concorsi e possibilità di valutarlo in rapporto a fattori inerenti all'istituzione che lo ha assegnato e al voto medio di classi omogenee di studenti, ferma restando la possibilità di indicare il conseguimento della laurea come requisito necessario per l'ammissione al concorso”.
Tutti i media, non senza torto, parlano della svolta verso la discriminazione tra università di “serie A” ed università di “serie B”. La gran parte degli esperti, docenti universitari e conoscitori dei sistemi di valutazione delle università hanno già avvertito che sostanzialmente non esiste un metodo che sia uno capace di attribuire al voto di laurea una sorta di peso specifico ponderato, connesso al peso dell’università che ha rilasciato il titolo.
Al di là dei problemi tecnici che porrebbe la concreta attivazione dell’emendamento approvato dalla Commissione affari costituzionali alla Camera e già ripudiato dall’autore che voleva solo incidere sull’innalzamento del voto minimo di accesso al concorso, alcune considerazioni operative comunque si impongono.
Senza fingere di non sapere come vanno le cose nel mondo, è perfettamente evidente che l’attuazione dell’emendamento determinerebbe non tanto la distinzione delle università in serie A, B o C, bensì tra università con forti agganci politici e quelle senza. E’ noto a tutti quanta influenza reciproca abbia la politica sulle università e viceversa: in Parlamento, nei consigli regionali e locali, nelle aziende ed enti partecipati, siedono tantissimi professori universitari.
La gara per l’università più “di peso” ai fini dei concorsi pubblici si trasformerebbe prestissimo non in una competizione verso il migliore e più efficace insegnamento, ma la corsa verso l’ateneo con maggiori agganci politici, quella che può assicurare sbocchi verso il lavoro pubblico.
Le università diverrebbero ancor più di quanto non lo siano oggi non solo conventicole, nel rispetto della tendenza italiana verso le corporazioni medievali, ma anche fonte di costruzione di consenso elettorale, da veicolare attraverso un sistema di rating che di tecnico avrebbe pochissimo. Conterebbero le lauree di quegli atenei ben agganciati con la politica e presenti nelle assemblee elettive, acquisite da studenti disposti all’affiliazione verso quelle forze politiche.
Questo concretissimo rischio è ben dimostrato dall’assenza, rivelata dagli esperti, di validi sistemi di rating e dallo stesso criterio ponderale previsto dall’emendamento. Immaginare che un 110 e lode di un’università conti meno del pari voto di un’altra solo perché nella prima i 110 e lode sono più frequenti della seconda è sostanzialmente privo di senso. Nulla può assicurare che questa incidenza della votazione sia il frutto del caso, della diversità di visione e giudizio dei docenti, della possibilità che in un certo lasso di tempo si iscrivano in un certo ateneo contemporaneamente studenti molto bravi o molto meno bravi. E’ un criterio non solo rozzo, ma assolutamente inidoneo a dimostrare che il valore del voto di laurea di un ateneo possa dimostrarsi maggiore o minore a paragone di quello di altri.
Il “liberalismo” all’italiana, molto favorevoli all’eliminazione del valore legale del titolo di studio, non spiega che la previsione, per norma statale, di un rozzo criterio di ponderazione del voto è frutto di uno statalismo ancora maggiore, che di liberale non ha proprio nulla. Si affiderebbe ad un sistema meramente burocratico e a forte politicizzazione la determinazione dei valori ponderati, senza che a spingere verso il risultato della pretesa di un insegnamento veramente valido siano i risultati veri, quelli del mercato.
L’emendamento è sicuramente solo un cavallo di Troia verso traguardi ben diversi, per una ragione estremamente semplice. Per costruire un sistema di classificazione o rating delle università ai fini della loro capacità di sfornare davvero funzionari e dirigenti pubblici preparati non ci vogliono astrusi sistemi valutativi: basterebbe semplicemente costruire un data base che raccogliesse per ciascun funzionario o dirigente in servizio e per quelli che in futuro vincano i concorsi, le università di provenienza, limitarsi a ponderare il numero degli iscritti (non si possono paragonare città universitarie come La Sapienza con piccoli atenei sul piano dei numeri assoluti) e il gioco sarebbe fatto. Sarebbe, cioè, possibile comprendere quali atenei sono maggiormente capaci di sfornare funzionari e dirigenti pubblici.
Ma, questa operazione avrebbe senso per la ponderazione dei voti ai fini dei concorsi? La risposta non può che essere negativa. La capacità delle università di formare gli studenti ai fini della loro preparazione per l’ingresso nella PA non ha alcun rilievo ai fini delle valutazioni nei concorsi. Serve, al contrario ed esclusivamente, per orientare gli studenti, i quali, sapendo che un certo ateneo ha l’attitudine a formare in percentuali elevate funzionari e dirigenti pubblici può optare, nella vera logica di mercato e liberale, di scegliere quell’ateneo piuttosto che un altro, laddove sia intenzionato ad una carriera lavorativa nella PA.
Ma, ai fini del concorso, l’università di provenienza non ha alcun valore. Priva di senso l’affermazione dei tanti che, invece, mostrano di apprezzare l’emendamento, i quali sostengono che esso sia corretto, in quanto introdurrebbe nella PA sistemi di reclutamento dei lavoratori come quelli utilizzati dai privati. E’ normale, infatti, per le aziende tenere conto del rating delle scuole e delle università ai fini delle loro selezioni.
Questa è un’argomentazione semplicemente non pertinente, tale da sviare l’attenzione. I privati utilizzano questo ed altri strumenti di valutazione di chi assumere, per una ragione semplicissima: non fanno concorsi pubblici. In assenza, dunque, di un sistema di competizione diretta e strutturata tra più candidati, le aziende scelgono i colloqui individuali e strumenti di pesatura dei curriculum come quelli del rating delle università o, comunque, si affidano al “naso”,al“buon senso”, alla “fiducia”, alla “simpatia” e, perché no, visto che possono consentirselo, alla “conoscenza personale” o alla “referenza”.
Tutti fattori che la pubblica amministrazione, vigente l’articolo 97 della Costituzione, non può utilizzare, visto che è obbligata a selezionare i dipendenti pubblici tramite concorsi pubblici. E poiché i concorsi servono, con tutti i loro limiti (non maggiori dei sistemi di reclutamento utilizzati dalle aziende private), a selezionare i migliori, non è certo la ponderazione del peso delle università un criterio selettivo utile e, comunque, in linea con le indicazioni della Costituzione. Del resto, scopo del concorso è mettere alla prova, a parità di condizioni, i concorrenti per identificare i più preparati: nulla vieta che la selezione produca come vincitore qualcuno che provenga da un’università a bassa incidenza di formazione di funzionari e dirigenti pubblici.
In ogni caso, l’emendamento ha comunque fatto tanto rumore per nulla ed è, a ben vedere, frutto della continua violazione di norme generali. Se l’intento, infatti, è di fornire strumenti ulteriori di valutazione per il reclutamento dei dirigenti pubblici, si dovrebbe ricordare che ai sensi dell’articolo 28 del d.lgs 165/2001 è ammesso esclusivamente il concorso per esami, senza possibilità di avvalersi dei titoli.
Solo per le qualifiche non dirigenziali i concorsi possono contemplare oltre all’esito degli esami anche la valutazione del punteggio dei titoli, che, comunque, sono tanti e complessi e quelli di studio per solito incidono davvero poco.
Ecco perché l’emendamento desta la forte sensazione di non mirare realmente alla PA e all’organizzazione, ma punta all’annullamento del valore legale del titolo di studio e all’introduzione in un percorso ad oggi oscuro di riforma complessiva dell’università e dei percorsi di studio.
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