I recenti emendamenti al disegno di legge delega di riforma della PA portano a conseguenze letteralmente paradossali.
L’Italia appare quel Paese contemporaneamente fortemente impegnato a sanare l’attribuzione della qualifica dirigenziale protratta per quasi 15 anni senza concorsi, nonostante sia stata dichiarata incostituzionale dalla sentenza della Consulta 37/2105, e contemporaneamente a dequalificare i dirigenti di ruolo, che hanno acquisito la qualifica dirigenziale a seguito di concorsi, come funzionari.
E’ davvero inspiegabile come un unico ordinamento giuridico possa regolare insieme due fattispecie assolutamente contrapposte e insanabilmente confliggenti, almeno in apparenza.
C’è, in effetti, tra la cooptazione senza concorso di funzionari ed il demansionamento di dirigenti di ruolo a seguito di concorsi, un nesso comune: la crescente ingerenza della politica, che, giunta ormai a 18 anni dalla legge Bassanini, la legge 127/1997, ha superato qualsiasi imbarazzo connesso al principio di separazione tra politica e gestione e si è resa conto che detto principio può sopravvivere benissimo nella forma, risultando altrettanto facilmente superabile nella sostanza.
La dirigenza può continuare ad essere formalmente separata, per carriera e regolazione, dalla politica, ma questa sarà chiamata a disporre del potere senza limiti sostanziali di plasmare una dirigenza in tutto e per tutto ad essa conforme. Sicchè, la dirigenza sarà null’altro della longa manus, un cuscinetto ad una gestione delle decisioni minute che tornerà saldamente nelle mani della politica, la quale la eserciterà con dirigenti a sé conformi.
Così si spiega la concezione della dirigenza non come di una qualifica acquisita a seguito di un reclutamento imparziale, legato in via esclusiva alla professionalità accertata a seguito di concorsi, bensì come un incarico, una “creazione del re”, una qualità, più che una qualifica, indifferentemente attribuibile a chi ha vinto un concorso oppure no e allo stesso modo revocabile, sulla base dell’esercizio del potere di “nomina”, frutto del “governo degli uomini”, che sostituisce la gestione concreta degli atti.
Infatti, gli emendamenti al ddl delega prevedono la possibilità che i dirigenti collocati in disponibilità per assenza di incarico scelgano, pur di non perdere il lavoro, di demansionarsi come funzionari. Mentre magari, l’amministrazione che ha collocato in disponibilità quel dirigente, assuma ai sensi dell’articolo 19, comma 6, un funzionario come dirigente, senza concorso, come, in effetti, soprattutto le amministrazioni continuano a fare, totalmente indifferenti alla sentenza 37/2015 della Corte costituzionale e alla necessità che i funzionari debbano, quanto meno, disporre almeno dei requisiti di particolarissima professionalità (essere magistrati, avvocati dello stato, dirigenti pubblici o privati, docenti universitari, ricercatori con dotazione di pubblicazioni scientifiche) tali da giustificare un reclutamento senza concorso.
L’emendamento fa, del resto, il paio con l’assurdo criterio di selezione della futura dirigenza di ruolo: concorsi che sboccheranno non nell’acquisizione della qualifica dirigenziale, bensì nell’assunzione come funzionari (cioè, il dirigente resterebbe nella qualifica già posseduta) per tre anni.
Il che significa attrattività a valore zero per gli aspiranti dirigenti, ma ferreo controllo degli uomini, precarizzazione della dirigenza fin dalla genesi costitutiva del rapporto, demansionamento ancor prima di aver preso servizio.
E così, la funzione dirigenziale, strategica per la rete di coordinamento, programmazione e gestione della complessa macchina amministrativa, si riduce ad una sorta di concessione, se non di creazione feudale di un valvassore da parte del feudatario, finchè ciò gli piaccia e non certo per fini di interesse generale.
Quelli che imporrebbero davvero procedure selettive sempre e comunque, estremamente rigorose e sistemi di valutazione altrettanto ferrei, totalmente sottratti all’ingerenza della politica, resi da soggetti che non derivino il proprio incarico a loro volta da organi politici, e tali da decretare le sorti lavorative dei dirigenti inefficienti.
La riforma si sta delineando non come sistema per incrementare poteri negoziali e gestionali della dirigenza a fronte di una sua maggiore efficienza e sottoposizione al “rischio” della valutazione, ma come un mercato, anzi un suk, nel quale gli incarichi dirigenziali sono una sorta di merce di scambio e di pressione volta non alla ricerca dell’efficienza ma della migliore e più opportuna affiliazione. Quella che consente a chi non vince i concorsi per la dirigenza di essere tuttavia assunto come dirigente e che condanna i non affiliati o gli scomodi a dequalificarsi come funzionari.
Sulla razionalità di un simile modo di concepire l’organizzazione pubblica e sulla capacità effettiva del ddl delega di riforma della PA di darci una macchina amministrativa più efficiente ed utile, i dubbi non possono che essere molti.
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