Tra i tanti, troppi, elementi negativi della riforma Madia della PA, vi è anche l'introduzione di un'imprudente e mal concepita revoca degli incarichi dirigenziali per responsabilità erariale.
Nel corso dell’esame parlamentare del disegno di legge, è stato introdotto il criterio di delega della “previsione di ipotesi di revoca dell’incarico e di divieto di rinnovo di conferimento di incarichi in settori sensibili ed esposti al rischio di corruzione, in presenza di condanna anche non definitiva, da parte della Corte dei conti, al risarcimento del danno erariale per condotte dolose”.
Dunque, il legislatore delegato è chiamato a regolare i casi e le modalità perché gli incarichi dirigenziali siano revocati in caso di condanna anche non definitiva della Corte dei conti per danno erariale, connessa a fatti dolosi in settori esposti a rischi di corruzione.
Si tratta di una norma che può apparire corretta sul piano etico, ma crea una grandissima confusione tra elementi completamente disomogenei.
Infatti, il giudizio contabile, rispetto alla corruzione, non ha nulla a che vedere e non costituisce nemmeno un indice preciso o decisivo per rilevare comportamenti corruttivi.
Ovviamente, si sta facendo riferimento alla “corruzione amministrativa”, disciplinata dalla legge 190/2012 e non al reato di corruzione, che va accertato in sede giudiziale penale.
La corruzione “amministrativa” deriva da una deviazione nel processo gestionale causata dall’intento di inquinare l’azione amministrativa ed i fini pubblici che deve perseguire, attraverso atti posti in essere allo scopo di conseguire fini di natura privata.
Non necessariamente la responsabilità erariale è in grado di evidenziare il fenomeno della corruzione disciplinato dalla legge 190/2012. La responsabilità erariale può scaturire anche nella piena legittimità formale dei provvedimenti adottati, dal momento che la magistratura contabile valuta gli effetti economici della gestione, potendo anche prescindere da un giudizio di legittimità. Al contrario, la corruzione amministrativa difficilmente può prescindere da valutazioni se non di legittimità, quanto meno di legalità complessiva dei provvedimenti e dei comportamenti posti in essere.
La stretta correlazione, dunque, tra responsabilità erariale, incidenza in settori esposti al rischio della corruzione e la revoca dell’incarico dirigenziale crea un vero e proprio cortocircuito, dando luogo ad una sorta di responsabilità disciplinare di stampo oggettivo, di legittimità costituzionale più che dubbia.
Basti tenere presente che tra i settori sensibili ai fini della corruzione v’è quello della selezione del personale. La disciplina dell’anticorruzione ricomprende anche le norme sulla trasparenza, regolate dal d.lgs 33/2015, il quale all’articolo 15 prevede una serie di oneri di pubblicità ad esempio per gli incarichi a consulenti e collaboratori, che se non rispettati comportano responsabilità anche erariale del dirigente. Tale responsabilità può scattare nonostante la piena legittimità del conferimento degli incarichi, per la mera circostanza della mancata pubblicizzazione. Essa, visto che così prevede la legge introduttiva di una vera e propria responsabilità formale, è causa di responsabilità per danno erariale: non si vede perché, al di là della dimostrazione della dolosità della mancata pubblicazione, un mancato adempimento certamente non incidente sulla complessiva legittimità dell’azione amministrativa possa giungere fino all’extrema ratio della revoca dell’incarico dirigenziale, corroborata anche dal divieto di rinnovo.
Ricordiamo che gli ambiti considerati “sensibili” ai fini della corruzione sono definiti dall’articolo 1, comma 16, della legge 190/2012, in base ai procedimenti di:
a) autorizzazione o concessione;
b) scelta del contraente per l'affidamento di lavori, forniture e servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n.163;
c) concessione ed erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonchè attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati;
d) concorsi e prove selettive per l'assunzione del personale e progressioni di carriera di cui all'articolo 24 del decreto legislativo n.150 del 2009.
Per il legislatore delegato il compito sarà, dunque, arduo e delicatissimo: dovrà fare in modo di evidenziare fattispecie di responsabilità molto chiare, profonde ed evidenti.
Comunque, una buona dose di “garantismo” all’interno di una norma dal sapore molto punitivo è data dalla circostanza che la revoca dell’incarico ed il correlato divieto di rinnovo presuppongono l’accertamento della responsabilità erariale per fatti dolosi, con esclusione dunque della fattispecie della colpa grave.
C’è da chiedersi se vi sarà una correlazione tra la revoca dell’incarico per condanna non definitiva dovuta a danno erariale in settori sensibili per la corruzione. A seguito della revoca dell’incarico, conseguirà ovviamente la collocazione del dirigente a disposizione del ruolo unico. Se la revoca in questione dovesse essere connessa ad una valutazione negativa (o esserne concausa), allora le conseguenze della condanna per danno erariale potrebbero essere ancora più gravi della semplice revoca dell’incarico, in quanto la collocazione in disponibilità dei ruoli per valutazione negativa implica la decadenza dal ruolo ed il licenziamento, se il dirigente non ottiene un nuovo incarico entro un certo periodo di tempo che sarà definito dal legislatore delegato. Unico modo per scongiurare la risoluzione del posto di lavoro potrebbe essere accettare il demansionamento a funzionario. Una serie di conseguenze possibili, che potrebbero apparire oggettivamente esorbitanti in relazione a fattispecie di condanna erariale di natura più formale che sostanzialmente correlate ad effettivi comportamenti lesivi dei principi anticorruzione.
La disposizione in esame suscita ulteriori forti perplessità. Non può non essere messa in correlazione con la lettera m) dell’articolo 11, ai sensi del quale il legislatore delegato deve provvedere al “riordino delle disposizioni legislative relative alle ipotesi di responsabilità dirigenziale, amministrativo-contabile e disciplinare dei dirigenti e ridefinizione del rapporto tra responsabilità dirigenziale e responsabilità amministrativo-contabile, con particolare riferimento alla esclusiva imputabilità ai dirigenti della responsabilità per l'attività gestionale, con limitazione della responsabilità dirigenziale alle ipotesi di cui all'articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.
Si tratta della disposizione che estende all’infinito la “esimente politica”, scaricando sostanzialmente solo sulla dirigenza la responsabilità gestionale.
Tra le disposizioni della lettera m) e della lettera q) in commento potrebbe determinarsi un cortocircuito irrisolvibile. E’ evidente che l’attribuzione in via esclusiva alla dirigenza della responsabilità erariale per fatti gestionali finirà per incentivare comportamenti dirigenziali volti a fare da “parafulmine” alle decisioni degli organi politici. Non c’è da dubitare minimamente che ai fini dell’assegnazione, proroga, conferma e revoca degli incarichi dirigenziali, esposti come sono al pesantissimo spoil system regolato dalla riforma, uno degli elementi che conteranno maggiormente sarà proprio la disponibilità della dirigenza a fare da scudo agli organi politici in tema di responsabilità erariale.
Ma, la funzione di “parafulmine” diventa l’incudine, cui si abbinerà anche il martello della necessità della revoca dell’incarico per essersi troppo, come dire, immedesimati nella funzione di copertura gestionale delle decisioni politiche. Paradossalmente, quei dirigenti che considereranno insito nella funzione adottare provvedimenti gestionali di esecuzione di indicazioni politiche a rischio di danno erariale, potrebbero ritrovarsi senza incarico, proprio per aver adempiuto all’incarico ricevuto esattamente nello spirito “fiduciario” che ne abbia guidato il conferimento.
Una contraddizione in termini, che potrebbe portare a risultati davvero paradossali. Per i dirigenti selezionati non in base ad appartenenze politiche o a stretti rapporti fiduciari, la revoca dell’incarico discendente dalla sentenza in primo grado per responsabilità erariale finirà per costituire una sanzione senza appello.
Molto probabilmente, invece, per i dirigenti che siano incorsi in responsabilità erariali nell’adempimento al ruolo di scudo, potrebbe verificarsi che l’organo di governo che dovrebbe revocare il loro incarico si guarderà bene dal farlo, proprio perché la revoca dell’incarico potrebbe costituire violazione dell’accordo fiduciario di reciproco vantaggio, al momento del conferimento. Per altro, la norma non pare evidenziare nessuno strumento di controllo e verifica sull’effettiva applicazione della revoca.
La disparità di trattamento in presenza di fattispecie uguali e il caos operativo, abbinato all’assenza di controlli, rendono certamente la disposizione fattore di criticità operativa immensa.
Ma, anche prescindendo dalle possibili (anzi, probabili) applicazioni distorte della disposizione, essa comunque mostra in ogni caso tutte le sue criticità, perché è un’ulteriore estensione di responsabilità formali ed oggettive della dirigenza.
Il sistema giuridico ridonda, ormai, di regole minute e adempimenti cui conseguono correlate responsabilità erariali che giungono, come visto prima, fino alla sanzione per la mancata pubblicazione di dati. Inoltre, l’attività giurisdizionale della Corte dei conti, tra funzione di consulenza che avrebbe dovuto essere “collaborativa” e si è sempre più trasformata in una censura fino al merito delle decisioni, e funzione giurisdizionale ormai pervade e invade quasi ogni aspetto della funzione di amministrazione attiva, condizionandola in ogni suo aspetto ed estensione, ingabbiandola.
Mentre si continua a parlare del dirigente come “datore di lavoro”, “manager”, “attore dell’innovazione”, “organizzatore delle risorse”, “antitesi della burocrazia” e della necessità di superare la “gestione per atti”, in favore finalmente della “gestione per risultati”, l’ordinamento ingessa totalmente l’azione amministrativa e dei suoi vertici, anche con norme che introducono fattispecie sostanziali di responsabilità disciplinare oggettiva.
Il risultato che si ottiene è esattamente contrario a quello di una dirigenza autonoma, chiamata realmente a rispondere dell’efficacia della propria gestione. La previsione contenuta nella lettera q), al di là delle distorsioni che potrebbero discendere dagli incarichi “fiduciari”, aumenta il rischio che i dirigenti, compressi ed oppressi da nuove responsabilità oggettive, agiscano con ancor meno autonomia e agilità, rallentando ed inchiodando tutto, pur di scongiurare le conseguenze automatiche connesse alla gestione.
Sarebbe il caso che il legislatore decidesse una volta e per sempre quale strada percorrere. Si vuole davvero un dirigente manager? Probabilmente l’intero sistema della responsabilità erariale andrebbe rivisto, ridotto, limato e limitato a specifiche e poche fattispecie, per spostare la responsabilità vera sui risultati ottenuti. Non si ritiene di poter seguire questa strada, perché la gestione di risorse pubbliche si presuppone richieda maggiori e più incombenti responsabilità? La si smetta, allora, di fingere che i dirigenti pubblici abbiano modo di gestire ed agire con gli spazi di autonomia propri del privato. E la si smetta col gioco dello scimmiottamento di sistemi di valutazione e di incentivazione a risultato che non possono essere mai concreti, effettivi e reali, finchè l’agire operativo resti così vincolato a responsabilità formali ed oggettive, le quali finiscono sempre per prevalere su qualsiasi tensione verso il raggiungimento di obiettivi “manageriali”.
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