E’ davvero spiacevole quando la suprema Corte di cassazione incappa in errori clamorosi ed inaccettabili, come quello in cui è incorsa la Sezione lavoro civile con la sentenza 13 giugno 2012, n. 9645.
Detta pronuncia contiene due affermazioni, una corretta e l’altra assolutamente fuori bersaglio e del tutto non condivisibile.
L’affermazione corretta è quella secondo la quale “l'interpretazione logico-letterale e complessiva delle disposizioni collettive sopra richiamate consente di addivenire alla conclusione indicata dal ricorrente, vale a dire a far ritenere che l'articolo 26 del CCNL dell'Area della Dirigenza del Comparto Regioni - Autonomie locali del 23 dicembre 1999 va interpretato nel senso che nella determinazione del fondo previsto dalla stessa disposizione contrattuale deve tenersi conto delle sole posizioni dirigenziali effettivamente coperte e non di tutte quelle contemplate nell'organico dell'ente”. Quanto sancito dalla Cassazione appare del tutto scontato, per quanto la sentenza per dimostrarlo pecchi di barocchismo argomentativo, sicchè in questa sede non si approfondisce l’argomento.
Fuori bersaglio, come detto, è invece la seconda affermazione secondo la quale “lo stesso fondo va utilizzato anche per le indennità spettanti ai dirigenti assunti con contratto a tempo determinato”.
In merito alla sentenza, autorevole dottrina (L. Tamassia, “Fondo accessorio dei dirigenti: l'incremento delle sole posizioni in organico salva la spesa pubblica” in Il Sole 24 Ore, Quotidiano digitale Enti Locali & Pa dell’8 settembre 2015) afferma: “appare arduo rinvenire, nell'iter argomentativo percorso della Corte, una qualche sbavatura giuridica degna di rilievo”. E’, invece e purtroppo facilissimo evidenziare i difetti gravissimi e gli errori marchiani in cui incorre la Cassazione, quando afferma che il fondo finanzia gli incarichi dirigenziali a tempo determinato. Vediamo il perché.
La Cassazione, in primo luogo, sostiene che “non è, infatti, dato rinvenire nella disposizione collettiva in esame (cioè il Ccnl 23.12.1999, nda) ed in quella ad essa correlata del precedente accordo del 1996 alcun elemento concreto che imponga un diverso finanziamento della retribuzione di posizione qualora alcune delle funzioni dirigenziali previste dall’ordinamento dell’ente siano affidate a dirigenti assunti con contratto a termine […]”.
La Cassazione è, evidentemente, alquanto – ed imperdonabilmente – distratta. Nella disciplina contrattuale l’elemento concreto che impone il diverso finanziamento esiste eccome ed è inequivocabile: è l’articolo 1, comma 1, del Ccnl 23.12.1999, ai sensi del quale “Il presente contratto collettivo nazionale si applica a tutto il personale con qualifica dirigenziale dipendente dagli enti del comparto Regioni - Autonomie Locali, comprese le IPAB, di cui all'area II) dell’art.2, comma 1, dell’Accordo quadro del 25.11.1998, con rapporto di lavoro a tempo indeterminato”. Basta leggere: la disciplina della contrattazione collettiva si applica in via esclusiva al personale dirigenziale con rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Poiché l’interpretazione non solo delle leggi, ma anche degli accordi contrattuali, non può mai prescindere dal chiaro significato delle parole nella loro sequenza logica, se un contratto collettivo autolimita la propria portata al solo personale con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, non è consentito ad alcun giudice ritenere che, al contrario, esso si estenda anche a personale assunto con contratto a tempo determinato.
Basterebbe questa semplice constatazione per comprovare come la sentenza della Sezione lavoro in commento sia priva di qualsiasi pregio interpretativo e meritevole di un auspicabile pronto emendamento da parte dei supremi giudici.
Ma, per completezza di argomentazione, occorre andare oltre. Verifichiamo se l’accordo del 1996, per caso, non si estenda anche ai dirigenti a termine. L’articolo 1, comma 1, dispone: “Il presente contratto collettivo nazionale si applica a tutto il personale con qualifica di dirigente dipendente dalle amministrazioni del comparto di cui all'art. 5 del D.P.C.M. 30 dicembre 1993, n. 593, con rapporto di lavoro a tempo indeterminato”. Niente da fare, dunque: i contraenti per due volte hanno espressamente inteso limitare l’applicazione delle regole contrattuale al solo personale di ruolo, escludendo i dirigenti con contratto a tempo determinato: secondo svarione della Cassazione.
Ma ce n’è uno ancora più grave. E’ vero che il giudice deve giudicare secondo la documentazione allegata dalle parti a comprova delle proprie argomentazioni. E’ altrettanto vero, tuttavia, che il giudice ha il dovere di reperire tutte le fonti normative che disciplinano la materia.
Ora, nel caso di specie si disquisisce della possibilità di finanziare la retribuzione dei dirigenti a termine con il fondo contrattuale decentrato. Abbiamo visto che nella contrattazione nazionale collettiva esiste – evidentissimo – l’elemento concreto che esclude di finanziare i dirigenti a termine con il fondo contrattuale. Ma, tale esclusione è ancora più chiara ed evidente nella disciplina legislativa che regola il rapporto di lavoro dei dirigenti a tempo determinato negli enti locali. Si tratta dell’articolo 110, comma 3, del d.lgs 267/2000, imperdonabilmente pretermesso dalla Sezione lavoro nella sua frettolosa argomentazione, estremamente appiattita sul parere, erroneo e privo di consistenza, espresso sul merito dall’Aran il 16 ottobre 2009, nonostante fosse stata proprio l’Aran a stipulare ben due contratti collettivi che escludono espressamente la dirigenza a tempo determinato dall’applicazione dei contratti collettivi medesimi!
Cosa dispone l’articolo 110, comma 3 citato? Il contenuto della norma è noto e, anch’esso inequivocabile, nel suo ultimo periodo: “il trattamento economico e l'eventuale indennità ad personam sono definiti in stretta correlazione con il bilancio dell'ente e non vanno imputati al costo contrattuale e del personale”.
Non solo, dunque, nella contrattazione collettiva è ben visibile (si tratta dell’articolo 1, comma 1, di ben due contratti) l’elemento concreto che impone un finanziamento della retribuzione dei dirigenti a contratto, diverso dal fondo contrattuale, ma tale elemento concreto è addirittura contenuto nella legge, con un livello, dunque, di generalità, astrattezza e cogenza ben maggiore.
Il precetto normativo è chiarissimo:
a) il trattamento economico dei dirigenti a contratto è correlato col bilancio dell’ente, non col fondo contrattuale, in perfetto coordinamento con la contrattazione collettiva che esclude appunto i dirigenti a termine dalla disciplina contrattuale;
b) i costi relativi al personale dirigenziale a termine non debbono nemmeno essere imputati al costo contrattuale: ciò implica senza alcun dubbio che il finanziamento non può e non deve in alcun modo essere reperito nei fondi contrattuali.
Le argomentazioni della Sezione lavoro, quindi, si dimostrano essere non solo erronee perché non hanno guardato alle chiare previsioni dei contratti collettivi che limitano esplicitamente il loro campo di operatività al solo personale a tempo indeterminato, ma si pongono contra legem in modo frontale, in quanto assolutamente in contrasto con quanto disposto in modo non equivoco dall’articolo 110, comma 3, del d.lgs 267/2000. Come si nota, sbavature nell’argomentazione giuridica della Cassazione, di rilievo e poco giustificabili, ve ne sono, purtroppo fin troppe.
Ma non è finita. La Cassazione, incorrendo ancora una volta nell’errore interpretativo dell’Aran, afferma che diversamente operando, cioè (come imposto dai contratti e dalla legge) escludendo di finanziare la retribuzione dei dirigenti a termine col fondo contrattuale, “finirebbe per ammettersi una duplicazione di spesa con riferimento alle medesime funzioni dirigenziali”. Verrebbe da chiedere, rispetto a questa affermazione: perché? Ma, nella sentenza essa affermazione resta sospesa, apodittica e immotivata. Per la semplice ragione che essa non può trovare argomentazione alcuna che la sorregga.
Essa sarebbe vera e sostenibile se col bilancio dell’ente si finanziasse una posizione dirigenziale a tempo determinato in più rispetto a quelle di ruolo e tale posizione fosse la duplicazione di almeno una delle prime. Non è vera e sostenibile, se invece questo non accada.
Andiamo a quanto dispone l’articolo 27, comma 9, del Ccnl 23.12.1999, ai sensi del quale “le risorse destinate al finanziamento della retribuzione di posizione debbono essere integralmente utilizzate. Eventuali risorse che a consuntivo risultassero ancora disponibili sono temporaneamente utilizzate per la retribuzione di risultato relativa al medesimo anno e quindi riassegnate al finanziamento della retribuzione di posizione a decorrere dall'esercizio finanziario successivo”.
Poniamo che un certo ente locale abbia in dotazione organica 10 posizioni dirigenziali di ruolo e che al momento della costituzione dei fondi i 10 posti fossero tutti coperti. Con l’andare della gestione alcuni si sono pensionati e le posizioni di ruolo effettivamente coperte si siano ridotte a 7. L’ente, potendo riorganizzare gli incarichi, ha ritenuto inizialmente di incrementare funzioni e responsabilità di due dirigenti e, dando applicazione al già visto articolo 27, comma 9, ha fatto in modo di coprire il fondo, prima coperto al 100%, in modo da avvicinarsi a tale copertura, giungendo però all’85%, perché il sistema di valutazione e di pesatura delle posizioni non consente – come appare normale – di duplicare i valori della posizione, ma di determinarle eventualmente in aumento in relazione alla redistribuzione dei carichi e degli incarichi. Il 15% del fondo si dimostra essere non utilizzabile per la retribuzione di posizione e, quindi, può confluire nella retribuzione di risultato e, laddove non tutte le risorse di risultato possano essere attribuite ai dirigenti, per la residua parte incrementare il fondo della retribuzione di posizione per il solo anno successivo.
I dirigenti di ruolo, in quanto solo ad essi si applica il contratto, possono quindi contare sulla circostanza che i meccanismi contrattuali rendono potenzialmente “spendibili” le risorse delle retribuzioni di posizione resesi disponibili a seguito di cessazioni di rapporti di lavoro, sia in termini di rideterminazione delle retribuzioni di posizione dovute a riorganizzazioni interne per fare fronte alla riduzione dei dirigenti in servizio, sia in termini di risultato, sia intermini – marginali – di potenziale incremento della posizione per l’anno successivo.
Applicando il ragionamento di Aran e Cassazione, laddove venissero assunti 3 dirigenti a tempo determinato nel corso degli anni e la loro retribuzione di posizione e risultato fosse finanziata col fondo contrattuale, per i dirigenti di ruolo non potrebbero trovare applicazione le misure viste prima, in quanto il fondo verrebbe in parte consumato dai dirigenti a tempo determinato.
Nulla quaestio – apparentemente – se i dirigenti a termine occupassero esattamente le stesse posizioni dei 3 cessati dal servizio in passato, con ripristino totale della precedente organizzazione e nuova pesatura che riporti il tutto a quanto era anni prima.
Ma, se invece, come più probabile, i nuovi tre assunti avessero incarichi e connesse posizioni differenti? E se, come ammette l’articolo 110, comma 3, ad essi l’amministrazione ritenesse di assegnare un’indennità ad personam, volta ad incrementare la retribuzione? Si potrebbe giungere al paradosso che il fondo contrattuale, riservato ai dirigenti di ruolo, venga eroso in modo più che proporzionale al costo dei dirigenti a contratto, se a questi fossero riconosciute retribuzioni di posizioni più elevate di quelle dei 3 cessati e/o si assegnassero loro indennità ad personam, che evidentemente Aran e Cassazione ritengono ammissibile siano finanziate dal fondo, cioè dai dirigenti di ruolo, in ultima analisi.
Non solo. L’anno successivo alla cessazione dei dirigenti assunti con contratto a termine, qualora l’ente ritenesse di non assumerne altri, i 7 residui dovrebbero nuovamente vedersi incrementati carichi e responsabilità: ma, quell’anno non potrebbero contare sui residui dell’anno precedente, utili all’incremento del risultato o della posizione. Anche in questo modo, sarebbero i dirigenti di ruolo a finanziare, rimettendoci parte della loro retribuzione, incarichi a contratto attivati fiduciariamente dalle amministrazioni.
Ancora: successivamente al d.lgs 150/2009 non è più da mettere in dubbio che l’articolo 110 del d.lgs 267/2000 si applichi in combinazione (se non sia stato, nel comma 1 addirittura sostituito) con l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, il quale consente di assumere dirigenti a contratto solo:
a) fornendone esplicita motivazione,
b) a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione.
Se, dunque, nei ruoli dell’amministrazione – come nei fatti è altamente probabile, anche se gli incarichi a contratto siano sempre moltissimi – esistano dirigenti con professionalità tale da poter sostenere il carico lavorativo determinato dalle scoperture della dotazione (come nell’esempio fatto sopra), non vi sarebbero nemmeno i presupposti di legittimità per utilizzare i dirigenti a contratto. Sarebbe il caso di chiarire una volta e per sempre che le amministrazioni locali non possono scegliere indiscriminatamente come alternativa piena se assumere un dirigente di ruolo, oppure se, indifferentemente, reclutarlo a tempo determinato. L’articolo 19, comma 6, chiarisce che la seconda scelta non può che essere un’eccezione, limitata non solo numericamente, ma anche nei presupposti e necessitante una specifica e molto approfondita motivazione.
Tutte queste considerazioni spiegano perché il combinato disposto dell’articolo 110, comma 3, del d.lgs 267/2000 e delle disposizioni contrattuali che riservano la disciplina contrattuale ai soli dirigenti di ruolo impongono alle amministrazioni di finanziare col bilancio e non col fondo contrattuale i dirigenti a contratto.
Il comma 3 dell’articolo 110 è addirittura fonte giuridica che, attraverso il meccanismo dell’indennità ad personam, giustifica persino la crescita della spesa complessiva, la quale non può che essere finanziata col bilancio.
Qualora un ente assuma dirigenti a contratto e non riveda al ribasso, attraverso la riorganizzazione, la portata degli incarichi dei dirigenti di ruolo e le relative retribuzioni, il sistema per evitare “duplicazione” di spesa è semplicissimo: congelare le quote del fondo per la retribuzione di posizione e risultato dei dirigenti connesse con gli incarichi di direzione attribuiti ai dirigenti a contratto, in modo che queste risorse costituiscano un risparmio di spesa per l’ente; infatti, tali risorse non sarebbero utilizzabili per il risultato o per l’incremento del fondo dell’anno successivo. I dirigenti a contratto dovrebbero comunque essere retribuiti da capitoli di bilancio diversi dal fondo. Sicchè, in questo modo, l’anno successivo alla cessazione dei dirigenti a contratto è possibile dare piena applicazione all’articoloo27, comma 9, del Ccnl 23.12.1999.
Infine, altro piccolo particolare che la Cassazione ha del tutto trascurato: l’articolo 110, comma 2, del d.lgs 267/2000 continua ad ammettere l’assunzione di dirigenti a contratto extra dotazione organica, cioè anche in aumento dei posti fissati come tetto massimo funzionale e di spesa. Ritengono i giudici della Cassazione possibile che anche in questo caso le risorse per finanziare le retribuzioni di tali dirigenti a contratto siano reperibili dal fondo?
O, non è forse, necessario un ripensamento molto, ma molto, approfondito della sentenza in commento, prendendo atto di quante sbavature giuridiche siano da correggere?
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