Ormai è opportuno che qualcuno urli che “il re è nudo” e, cioè, che la disciplina dell’anticorruzione non ha alcuna utilità.
Si presta certamente alle campagne mediatiche, soprattutto del presidente dell’Anac, invocato come Figaro per qualsiasi questione. Ma, l’efficacia della legge 190/2012 e delle disposizioni normative che ne discendono, in particolare il d.lgs 33/2013 sulla trasparenza, il d.lgs 39/2013 sulle incompatibilità, il dpr 62/2013 contenente il codice etico e, soprattutto, i piani triennali nazionali e di ciascuna singola amministrazione rasentano il fiasco totale.
Ultima dimostrazione la grottesca vicenda della sospensione del presidente della regione Calabria, Mario Oliverio, decisa nei giorni scorsi da Raffaele Cantone in applicazione dell’articolo 18, comma 2, del d.lgs 39/2013, in quanto Oliverio aveva nominato come commissario di un’azienda sanitaria una persona che non ne aveva i requisiti. Infatti, era stato candidato sindaco (senza poi essere stato eletto) nel 2013. La nomina, dunque, è avvenuta in violazione dell’articolo 8, comma 1, sempre del d.lgs 39/2013, ai sensi del quale “gli incarichi di direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo nelle aziende sanitarie locali non possono essere conferiti a coloro che nei cinque anni precedenti siano stati candidati in elezioni europee, nazionali, regionali e locali, in collegi elettorali che comprendano il territorio della ASL”.
Cosa è, allora, che non funziona? A ben vedere, assolutamente nulla. Occorre in primo luogo rilevare che le misure di tutela dalle norme su corruzione e conflitti di interesse “interne” agli enti sostanzialmente non servono assolutamente a nulla. Non ha alcun senso, ad essere generosi, che il presidente della regione Calabria, abbia potuto nominare il commissario straordinario senza che risulti l’adozione di alcun atto o azione inibitoria da parte del responsabile regionale della prevenzione della corruzione. Il che conferma la totale debolezza, se non assoluta inutilità, di questa figura.
I responsabili anticorruzione nelle amministrazioni pubbliche scontano tutti il vizio di essere incaricati allo svolgimento di tale funzione direttamente dagli organi di governo, nei confronti dei quali debbono rivolgere alcune (in realtà solo una ristretta minoranza) delle loro attenzioni. Un classico caso nel quale il controllato nomina il controllore, sicchè le funzioni di quest’ultimo non possono non essere pesantemente condizionate.
Basti pensare che il soggetto che nomina, presidente di regione o sindaco, ha una voce piuttosto significativa nel capitolo delle valutazioni delle attività svolte dall’incaricato, che spesso non svolge esclusivamente l’attività di responsabile anticorruzione, ma accanto ad essa conduce anche altri incarichi dirigenziali. E’ troppo facile capire che se quale responsabile anticorruzione commette uno “sgarbo” nei riguardi del soggetto che lo ha nominato, possono esservi conseguenze poco piacevoli sulla valutazione degli altri incarichi dirigenziali, per salvare la forma e scongiurare il sospetto che si possa trattare di ritorsione.
Sta di fatto, comunque, che il presidio interno alla regione Calabria non è servito assolutamente a nulla e la nomina si è fatta comunque.
Proiettiamo per un attimo questa vicenda al dopo attuazione della legge delega 124/2015, immaginando che sia già vigente la riforma della dirigenza pubblica. Possiamo pensare che tale riforma rafforzi il ruolo del responsabile anticorruzione? Sappiamo che la riforma consegna in mano agli organi di governo un potere discrezionale illimitato, sostanzialmente arbitrario, non solo di conferire gli incarichi, pur nella finzione scenica delle rose di candidati selezionate dalle Commissoni, ma soprattutto di lasciare i dirigenti senza incarico, non risultando necessaria allo scopo nemmeno una specifica motivazione. Può, in questo modo, un responsabile anticorruzione sentirsi terzo, indipendente e garantito nel compimento della propria attività? Non lo può già oggi, figurarsi quando sarà vigente la riforma della dirigenza. La vicenda della regione Calabria è lì, a dimostrarlo senza dubbio alcuno.
Tuttavia, la regione ha già manifestato l’intenzione di ricorrere al Tar, perché secondo i pareri legali raccolti dal presidente Oliverio in effetti la nomina in questione era legittima. Letteralmente, infatti, l’articolo 8, comma 1, del d.lgs 39/2013 vieta di nominare i direttori generali delle aziende sanitarie, ma non i commissari straordinari.
Ora, basta un semplicissimo ragionamento alla sola luce della logica per comprendere agevolmente come, sul piano sostanziale, la carica di direttore generale e di commissario straordinario di un’azienda sanitaria siano totalmente equivalenti. Anzi, l’organo commissariale monocratico riunisce in sé le funzioni di altri organi, quali quelle anche del direttore amministrativo, oltre a disporre, ovviamente, di quelle del direttore generale, che sostituisce.
Eppure, il precedente della vicenda dell’elezione del presidente della regione Campania non lascia affatto senza speranza il probabile ricorso al Tar che intenterà la regione Calabria. Appare chiaro, infatti, che i giudici delle varie giurisdizioni siano molto attenti all’applicazione del dato formale delle norme anticorruzione, anche perché trattandosi di misure sanzionatorie che incidono sulle persone, sull’elettorato attivo, sull’esercizio di pubblici poteri, i magistrati assumono un atteggiamento comprensibilmente cautelativo e garantista.
Se il ricorso al Tar della regione Calabria avesse successo, si scoprirebbe un altro clamoroso buco nell’impostazione complessiva della normativa anticorruzione, della quale si avrebbe la conferma dell’assenza assoluta di utilità e funzionalità non solo sul piano organizzativo interno, ma anche su quello della stessa disciplina normativa, che richiedere ampia revisione, per chiudere i vari buchi che la caratterizzano, a conferma della frettolosità con la quale venne confezionata dal Governo Monti ormai scaduto.
La vicenda, ancora, appare ulteriormente grottesca se messa in rapporto ad altre. La misura della sospensione del presidente della regione dalle sue funzioni è letteralmente indicata dal citato articolo 18, comma 2, del d.lgs 39/2013 e il presidente dell’Anac l’ha applicata senza nessuno dei dubbi che, invece, lo attanagliarono rispetto alla vicenda De Luca, per quanto nel caso di specie il presidente dell’authority non avesse alcuna competenza.
Appare piuttosto strano che, invece, nessuna disposizione sia stata adottata dall’Anac nei riguardi di alcun organo di governo o tecnico del comune di Roma, sebbene situazioni di conflitti di interessi, se non di conclamata azione corruttiva, appaiano proprio evidenti.
Segno evidente che l’azione anticorruzione si presenti troppo influenzata da un lato dalla pressione mediatica, dall’altro dall’opportunità “politica”, sicchè nei confronti di un certo tipo di enti e di loro rappresentanti politici si ritenga possibile adottare decisioni diverse da quelle riguardanti altri enti condotti da altri rappresentanti politici, nonostante la chiara analogia delle fattispecie.
Questo, ovviamente non giova alla linearità del sistema, alla sua coerenza e alla necessità derivante dalla Costituzione di adottare misure, tutte, tendenti alla parità di trattamento e al miglior perseguimento possibile dell’interesse pubblico.
Il “tagliando” alla normativa anticorruzione di cui parlava mesi fa il presidente dell’Anac andrebbe fatto davvero. Ma, se esso si limita a poche norme sulle varianti degli appalti o alla creazione delle centrali uniche appaltanti o, ancora, ad interventi spot per Expo o il Giubileo, ovviamente non potranno giovare ad un sistema complessivo, che oltre a produrre carte su carte, tra piani triennali anticorruzione trasparenza, oltre a produrre centinaia di adempimenti, come si nota alla fine sulle cose realmente concrete non si dimostra capace di ottenere alcun risultato utile o quanto meno incontrovertibile.
Nessun commento:
Posta un commento