Per anni il mantra sempre uguale a se stesso dell’abolizione delle province ha imperversato sui giornali. Fino a sfociare nella “sentenza” sulla loro sorte, pronunciata (o, probabilmente, fatta pronunciare) dalla Banca Centrale Europea nel terribile agosto del 2011, con la famosa lettera al Governo italiano: “Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l'uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). C'é l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)”.
Ligi al comandamento della banca centrale e all’Ukaze della stampa, i Governi Monti, Letta e Renzi si sono prodotti con lena nella riforma dell’assetto istituzionale del Paese e delle Province.
Il Governo Monti, producendo una riforma talmente mal congegnata e con strumenti inappropriati da essere incappato in una desolante quanto clamorosa bocciatura da parte della Corte costituzionale che con la sentenza 220/2013, oltre a rilevare l’incostituzionalità dello strumento del decreto legge per modificare l’ordinamento locale, notò anche l’inutilità di una riforma che puntava “alla costruzione di nuove strutture istituzionali, senza peraltro che i perseguiti risparmi di spesa siano, allo stato, concretamente valutabili né quantificabili, seppur in via approssimativa”.
Come è noto, alla desolante perfomance del Governo Monti hanno inteso porre rimedio, in successione il Governo Letta, sotto l’operato del quale l’allora Ministro per gli affari regionali Delrio ha avviato il processo di riforma, completato da Sottosegretario alla Presidenza del consiglio sotto il Governo Renzi, con l’approvazione della legge 56/2014, “completata” dalla legge 190/2014 (che per molti versi va in contrasto frontale con la prima).
Alla domanda se l’iniziativa del Ministro Delrio e del Governo Renzi sia riuscita a rimediare agli errori e all’inefficacia della riforma Monti la risposta, da mesi e mesi la danno i fatti.
La legge 56/2014, esattamente come le riforme di Monti, non ha determinato alcun risparmio di spesa. E’ questa la ragione per la quale la legge 190/2014, in contrasto e malgrado la riforma Delrio, ha imposto “in vitro” una riduzione della spesa delle province di 1 miliardo nel 2015, 2 miliardi nel 2016 e 3 miliardi nel 2017, senza legarla in alcun modo al processo di riordino delle funzioni provinciali.
Insomma, i risparmi, sempre che fossero stati realmente conseguibili, non avrebbero potuto che essere risultato di una razionalizzazione successiva al processo di riallocazione delle funzioni e delle connesse risorse finanziare; inoltre, il risparmio avrebbe potuto essere conseguito solo dagli enti destinatari delle funzioni provinciali, a seguito di una riorganizzazione interna, susseguente all’acquisizione delle funzioni, per effetto di quella sorta di cessione di ramo d’azienda a grandi linee disegnata dall’articolo 1, commi 92 e 96, lettera a), della legge Delrio.
La legge 190/2014, prescindendo totalmente dalla connessione tra funzioni e risorse, ha invece imposto alle province una devastante riduzione della spesa, aggiunta a tagli precedenti per un importo già di circa 3 miliardi dal 2011, senza nemmeno consentire una simmetrica riduzione delle imposte. Infatti, le riduzioni di spesa imposte alle province sono servite a finanziare le spese dello Stato, col risultato di risultare completamente ininfluenti per gli oneri fiscali dei cittadini, che hanno continuato a pagare le stesse imposte di prima. Solo che invece di essere intascate dalle province per la gestione delle loro competenze, ora le province le debbono girare allo Stato, che le spende per tutt’altri fini.
Dunque, sul piano strettamente organizzativo, economico e fiscale, non c’è dubbio alcuno: la riforma Delrio è un flop, addirittura peggiore del tentativo andato a vuoto di Monti. E questo a prescindere dai ritardi spaventosi nell’attuazione della riforma, nonché dalle ulteriori conseguenze finanziarie, che destinano inesorabilmente le province al dissesto e scaricano addosso alle regioni il buco finanziario di 3 miliardi determinato dalla legge 190/2014.
Si dirà: queste osservazioni sono malanimoso frutto di una posizione conservatrice, di stampo “provincialista”, contraria al “nuovo”, alle “riforme che servono per la flessibilità” e portavoce del “partito delle province”, eternamente date per morte ed eternamente in vita.
Diamolo per scontato. Ammettiamo che si tratti di annotazioni di parte, preconcette contro le riforme, a prescindere.
Ci sarebbe da osservare che anche la Corte dei conti, autrice attraverso la Sezione Autonomie non solo di critiche pesantissime al disegno di legge di riforma prima della sua entrata in vigore, ma anche di analisi impietose sugli effetti rovinosi della legge 190/2014; e la Corte dei conti non dovrebbe essere considerato organi “di parte”, iscritto al sempiterno partito delle province.
Ma, ammettiamo che anche i giudici contabili, magari inconsapevolmente si siano schierati contro l’ineluttabilità delle “riforme che servono per la flessibilità”.
C’è, però, in questi giorni un piccolo fatto nuovo. E’ noto che le “riforme che servono per la flessibilità” sono attuate dietro l’occhiuta vigilanza non solo dell’Unione Europea, ma anche dei famosi “mercati”, capaci di mettere in ginocchio la Grecia e, come noto, di spingere quasi oltre il ciglio del burrone l’Italia, proprio nel già ricordato annus horribilis che fu il 2011.
Moody’s, una delle “terribili” agenzie di rating che valutano l’azione politica ed economica anche delle nazioni nei giorni scorsi si è pronunciata da par suo sulle “riforme” dell’Italia e sulla loro efficacia. Ecco cosa scrive Moody’s a proposito delle riforme riguardanti gli enti locali e delle province, secondo quanto riporta Il Fatto Quotidiano on line del 18 settembre: “Nel complesso l’opinione di Moody’s è positiva sui provvedimenti che riguardano l’armonizzazione contabile, la rinegoziazione del debito di Comuni e Province, la razionalizzazione delle società partecipate e la centrale unica degli acquisti. Sospeso invece il giudizio sulla riforma delle province, perché non è chiaro come saranno redistribuiti i compiti e di conseguenza gli oneri”.
Sembra quasi di rileggere i rilievi della Consulta riferiti al flop della riforma di Monti. Né Moody’s può essere accusata di iscriversi al partito delle province o di appartenere alla razza dei volatili rapaci notturni.
La realtà, se guardata con l’evidenza dei fatti, non può sfuggire nemmeno a chi, come Moody’s, certamente non può considerarsi in maniera preconcetta sfavorevole a qualsiasi riforma dell’assetto pubblico, soprattasso se presentata come strumento di semplificazione e riduzione della spesa.
Il fatto è che il micidiale combinato disposto delle leggi 56/2014 e 190/2014 (aggravato ulteriormente dai bizantini decreti sulla mobilità dei dipendenti) di certo non ha fatto capire a nessuno come, quando e a carico di chi saranno riordinate le funzioni provinciali; di conseguenza, rimane impossibile comprendere gli effetti economici della riforma, se per effetti economici si deve intendere effetti qualificati dall’aggettivo “benefici”.
Fin qui si sono visti solo ritardi, contraddizioni, interpretazioni giurisprudenziali di segno opposto, contrasti, rinvii dei bilanci, addirittura bilanci approvati per il solo 2015 ma non per il trienni, parziali ripensamenti, toppe alle falle come il maldestro ed incompleto “decreto enti locali”.
Di riorganizzazione, semplificazione, risparmi, maggiore efficienza non c’è nemmeno l’ombra. Ma, non c’era bisogno di Moody’s per accorgersene.
Nessun commento:
Posta un commento