Tra le moltissime falle del sistema contenuto nel Dpcm, emerge una sorpresa, leggendo con attenzione il “regime transitorio” contenuto nell’articolo 11, comma 1, che vorrebbe fare salve le procedure di mobilità indette dalle amministrazioni, nelle more della vigenza del decreto stesso.
Come è noto, tali procedure hanno trovato una disciplina piuttosto parziale e lacunosa nella circolare interministeriale di Funzione Pubblica e Affari regionali 1/2015. Il passaggio sul quale i comuni e le pochissime altre amministrazioni si sono basati per attivare qualche mobilità è il seguente: “Fintanto che non sarà implementata la piattaforma di incontro di domanda e offerta di mobilità presso il Dipartimento della funzione pubblica, è consentito alle amministrazioni pubbliche indire bandi di procedure di mobilità volontaria riservate esclusivamente al personale di ruolo degli enti di area vasta”.
Il 30 settembre 2015, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, il Dpcm regolante la mobilità è entrato in vigore e con esso l’implementazione della piattaforma di incontro domanda/offerta, il PMG in realtà esistente già da aprile 2015, ma sostanzialmente fin qui null’altro che un reperto amministrativo, inerte.
Questo significa che per questo aspetto, la circolare 1/2015 ha perso qualsiasi efficacia regolatoria della mobilità: essa, infatti, dal 30 settembre in poi è disciplinata in via esclusiva dal Dpcm, che per altro dispone criteri generali e soggettivi molto stringenti, che privano totalmente gli enti locali dei margini di discrezionalità nella selezione dei dipendenti provinciali da assumere per mobilità, invece possibili ai sensi della circolare. Infatti, in assenza del Dpcm i criteri selettivi erano solo quelli disposti dai bandi o dai regolamenti di organizzazione dei comuni.
L’articolo 11, comma 1, del Dpcm non ha inteso, però, privare immediatamente di efficacia le procedure di mobilità ancora in corso al 30 settembre del 2015, avviate sotto la copertura della circolare 1/2015. Pertanto, prevede un ristretto regime transitorio, ai sensi del quale:
- “Il presente decreto non si applica alle procedure di mobilità volontaria avviate dalle amministrazioni pubbliche anteriormente al 1° gennaio 2015”. Il Dpcm, quindi, conferma indirettamente la possibilità di portare a termine le procedure di mobilità attivate nel 2014, secondo il molto discutibile orientamento espresso proprio dalla circolare 1/2015. Discutibile, perché non ci si rende conto che in questo modo si sottraggono, nel 2015, posti disponibili alla ricollocazione dei soprannumerari, contraddicendo totalmente alla logica della legge 190/2014 ed alla priorità loro riservata, tale da far ritenere alla Corte dei conti, Sezione Autonomie, delibera 19/2015, non ammissibile la mobilità volontaria “neutra”. Se tale mobilità non è ammessa, non dovrebbe avere alcun rilievo la circostanza che la procedura sia stata avviata prima dell’.1.1.2015, posto che la mobilità oltre tutto non ha il fine di assicurare l’ingresso nel lavoro pubblico di nuovo personale, ma la modifica del datore di lavoro di dipendenti già in servizio: dunque, la mobilità non ha alcuna connessione con le politiche di tutela del lavoro proprie dell’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014;
- “Sono, altresì, escluse dalla disciplina del presente decreto le procedure di mobilità volontaria avviate anche successivamente alla predetta data del 1° gennaio 2015, purchè riservate in via prioritaria al personale degli enti di area vasta o al personale della CRI”.
Quest’ulteriore parte dell’articolo 11, comma 1, del Dpcm è intrisa di incoerenze con la disciplina vigente e veri e propri errori di prospettiva.
Il fine è chiaro: salvaguardare le procedure di mobilità attivate sulla base della circolare 1/2015, entro un ristretto termine: infatti, la parte finale del secondo periodo dell’articolo 11, comma 1, precisa che dette procedure “comunque devono essere concluse entro 15 giorni dalla data di pubblicazione del presente decreto nella Gazzetta Ufficiale”.
Tuttavia, la norma in esame considera le mobilità sorrette dalla circolare 1/2015, come “volontarie”. Si tratta di una vera e propria mistificazione. La mobilità regolata provvisoriamente dalla circolare 1/2015 di volontario non ha nulla: si è trattato semplicemente di un sistema escogitato da Palazzo Vidoni per consentire al personale provinciale di transitare verso altre amministrazioni, nell’assoluta inesistenza degli strumenti di disciplina della mobilità previsti dall’articolo 1, comma 423, della legge 190/2014. Dunque, la circolare ha regolato in via transitoria e suppletiva una mobilità avente le stesse caratteristiche di quella disciplinata dai commi 422, 423, 425 e 425, dell’articolo 1 della legge 190/2014 e cioè una volontà sicuramente non volontaria, ma al contrario obbligatoria, seppure con sfumature proprie e peculiari.
I dipendenti delle province che hanno provato ad andare in mobilità verso altri enti non lo hanno fatto in quanto spinti da un’esigenza professionale volontaria, ma perché indotti dalla legge 190/2014. Del resto, se si fosse trattato di mobilità “volontaria” non sarebbe stata consentita in via esclusiva al solo personale provinciale.
In secondo luogo, il Dpcm dispone impropriamente che restano salve le mobilità riservate “in via prioritaria” ai dipendenti delle province.
Chiunque comprende agevolmente che c’è una bella differenza tra l’indicazione della circolare 1/2015 che ha ammesso (e la Corte dei conti ha avallato tale previsione) “procedure di mobilità volontaria [volontaria in senso atecnico, visto quanto poco sopra, nda] riservate esclusivamente al personale di ruolo degli enti di area vasta” e procedure di mobilità “riservate in via prioritaria”. Alle prime possono partecipare solo dipendenti delle province; alle seconde no.
Appare un tentativo goffo ed illegittimo di apportare una sanatoria alle procedure di mobilità indette in questi mesi non integralmente riservate al personale provinciale e, dunque, in evidente contrasto con le previsioni della legge 190/2014 ed affette da insanabile nullità, se concluse con l’assunzione di dipendenti non provenienti dalle province.
Il più grave problema, comunque, posto dall’articolo 11, comma 1, è dato dalla nuova ed imprevista condizione alla quale il Dpcm subordina la salvezza di queste mobilità attivate prima della sua vigenza: “Le procedure di mobilità di cui al presente comma non devono incidere sulle risorse previste dal regime delle assunzioni per gli anni 2015 e 2016”.
Dunque, il Dpcm non fa salve le procedure di mobilità rette dalla circolare 1/2015 in quanto tali, consentendo loro di concludersi entro il 15 ottobre, ma solo quelle che abbiano reperito il finanziamento dal budget assunzionale diverso da quello vigente negli anni 2015 e 2016. In termini molto semplici, poiché in questo biennio il 60% e l’80% del costo del personale cessato gli anni precedenti (rispettivamente 2014 e 2015) sono da riservare ai vincitori di concorsi appartenenti a graduatorie vigenti o approvate all’1.1.2015 o ai dipendenti in sovrannumero delle province, mentre la restante percentuale rispettivamente del 40% e del 20% è da riservare esclusivamente ai dipendenti delle province, l’unico legittimo finanziamento delle mobilità del periodo transitorio previsto dal Dpcm potrebbe provenire dai famigerati “resti assunzionali” del triennio 2011-2013, nel 2015 e del triennio 2012-2014, nel 2016.
L’indicazione del Dpcm è piuttosto dirompente, perché letta al contrario significa che dal 30 settembre 2015 non è più possibile portare avanti mobilità extra piattaforma, che non siano espressamente finanziate dai resti assunzionali.
Probabilmente, si tratta di una cautela, volta a lasciare ai dipendenti provinciali in sovrannumero il più elevato possibile livello di risorse assunzionali a disposizioni, per assicurare il successo della ricollocazione. E’ immaginabile che l’indicazione sia anche frutto dell’errore di considerare le mobilità attivate come “volontarie” sì da ritenere corretto differenziarne la fonte di finanziamento rispetto a quelle obbligatorie, attuative del Dpcm stesso.
Sta di fatto che le assunzioni per mobilitè fattibili da qui al 15 ottobre 2015 debbono essere “doc”: occorre dimostrare che siano finanziate senza intaccare le risorse riservate ai dipendenti provinciali soprannumerari.
Il problema, ovviamente, consisterà nel verificare questo dato, rimesso integralmente alla correttezza gestionale degli enti. Potranno controllare ben poco i prefetti, ai quali il comma 2 del Dpcm per altro assegna poteri di vigilanza del tutto fumosi ed imprecisati per attuare, comunque, il Dpcm e non ciò che sta fuori dal suo ambito di regolazione.
In sostanza, l’articolo 11, comma 1, introduce un altro dei troppi elementi di incertezza già in esso contenuti, quali la già citata assenza di strumenti di controllo efficaci sull’operato delle amministrazioni, l’assenza dell’obbligo sia per le province di caricare sul portale l’elenco dei dipendenti in sovrannumero, sia (cosa ancora più grave) di un obbligo sanzionabile per gli enti di indicare i posti disponibili in relazione ai fabbisogni.
I media non potevano non raccontare della pubblicazione del Dpcm (cosa molto strana, registrato “al volo” dalla Corte dei conti nonostante non vi fosse stato l’assenso unanime delle Regioni) come reale e concreto avvio della fase di mobilità dei dipendenti provinciali.
Purtroppo, la realtà è un’altra. Il Dpcm poteva e doveva essere la chiave di volta del sistema, ma giunge senza che vi sia stata ancora la ricognizione piena e reale dei posti disponibili, lascia a ciascuna amministrazione rendere noto se e quali posti mettere nel sistema, giunge a 10 mesi dall’1.1.2015, dopo che si è consumata quasi la metà dei 24 mesi disponibili per la ricollocazione di migliaia di dipendenti, dei quali non è nemmeno ancora nota l’identità e l’esatta quantificazione. Le premesse per ulteriori intoppi, problemi e modifiche in corso d’opera ci sono tutte, anche perché le regioni si sono messe davvero ad approvare le leggi di riordino entro il 31 ottobre 2015, come imposto dal d.l. 78/2015, convertito in legge 125/2015. Tanto valeva aspettare gli esiti di queste leggi, che potrebbero rendere del tutto inutili gli adempimenti previsti dal decreto, laddove stabilissero – come possono ai sensi dell’articolo 118, comma 2, della Costituzione – di lasciare le funzioni non fondamentali tutte in capo alle province. Insomma, il viaggio è ancora lunghissimo ed il tempo a disposizione sempre di meno.
E i comandati come si inseriscono in queste tipologie di mobilità?
RispondiEliminadomanda: un comune (del sud italia) presso cui lavorasse in comando da maggio 2015 un lavoratore di una provincia (del nord italia) può "concretamente" negare la mobilità prevista dal decreto legge 78/2015 (art. 4 comma 3) e dal successivo decreto ministeriale, perché "di fatto" il lavoratore non è gradito a sindaco e/o assessori?
RispondiEliminagrazie.
scusa ovviamente il comma è il 2...
RispondiEliminaNo. I comuni non hanno alcuna discrezionalità
RispondiEliminaIl dipendente di una Provincia che è posto in comando ad altra Amministrazione dal 1° ottobre scorso oppure lo sarà a novembre/dicembre, può esprimere il consenso al trasferimento nell’Amministrazione dove è comandato? Se sì, entro quanto tempo? Ringrazio per l’eventuale risposta.
RispondiEliminaNo. La cosa vale per chi era già comandato alla data di entrata in vigore del dl 78/2015
RispondiEliminaSe non approfitto troppo, vorrei chiedere ancora che fine faranno coloro che sono stati comandati dopo il 20/06/15 alla luce di questo decreto mobilità. Ovvero, all’art. 9 non vedo per loro alcuna procedura di assegnazione, secondo lei è perché verranno presi ( nei limiti delle capacità di assunzione) indipendentemente dalla loro categoria/qualifica? Nell’individuazione dell’offerta –art. 5,p.3- è stabilito che le Amministrazioni devono “tener conto del personale interessato già in posizione di comando”, ma potrebbe riferirsi solo ai comandati che hanno espresso il consenso dell’art.2? Grazie ancora.
RispondiEliminaMa ai comandati assunti ex art.2 dm 14.09.2015 si applicano o no le tabelle di equiparazione? Ag. Entrate non ritiene di applicare art 10.
RispondiElimina