Del concetto di “grida manzoniane” si è fatto largo abuso, chi scrive ne è consapevole. Tuttavia, l’ordinamento italiano ha ormai raggiunto vette inarrivabili nella produzione di caos normativo, favorita anche da un numero crescente ed incontrollato di “fonti”.
Sappiamo da tempo, ormai, che l’ordinamento giuridico si sta sempre più degradando ad una questione di autoproduzione di cerchie sempre più strette di soggetti, sempre più lontani ed autonomi dalla rappresentanza del Popolo, espressa dal Parlamento.
L’ordinamento giuridico dovrebbe reggersi su un sistema di fonti tassativo e, appunto, ordinato, con la supremazia assoluta del Parlamento, allo scopo di positivizzare un sistema che rappresenti la volontà del popolo e che sia preconoscibile, geometrico e fisso.
Da qui il primato della legge. Ma, da troppi anni alle leggi, si sostituiscono sempre più sistemi di indebolimento estremo della rappresentanza parlamentare. Alcuni, molto subdoli: l’eccesso della delegazione legislativa o dei decreti legge approvati a seguito di maxiemendamenti con voto di fiducia, i quali fanno scendere dal Parlamento al Governo il vero centro di produzione delle regole.
Altri, sono veri e propri fenomeni di degradadazione delle fonti: dal Parlamento verso altri centri di produzione del tutto incontrollati: si passa, quindi, per le Faq di authorities o Ministeri, per i “pareri” di sezioni regionali della Corte dei conti o anche delle già citate authorities, che non lesinano atti di regolazione, direttive e determine; a breve avremo, negli appalti, anche la “soft regulation”, cioè la sostituzione del regolamento di attuazione del codice dei contratti con un potere esteso di normazione a carico dell’Anac.
Vari soggetti, dunque, materialmente incidono nell’ordinamento: magistratura contabile, ministeri, agenzie dei ministeri, autorità amministrative, uffici di gabinetto.
La nuova entrata è, adesso, la fondazione Ifel, che nei giorni scorsi ha prodotto un elenco degli adempimenti da porre in essere per approvare il bilancio, pronunciandosi sul quesito del secolo: il Dup deve essere approvato o meno?
Il merito delle indicazioni dell’Ifel non è specifico oggetto di questo scritto, anche perché la lettura del documento prodotto risulta estremamente complicata, in quanto le indicazioni fornite sono estremamente involute, contraddittorie, volutamente caratterizzate dall’intento di dire e non dire. Sembra, in estrema sintesi, che l’Ifel indichi alle amministrazioni di orientarsi in base a scelte autonome, affermando, da un lato, che la nota di aggiornamento al Dup “possa”, non debba, essere approvato in uno con l’approvazione del bilancio, mentre il Dup presentato come presupposto del bilancio possa essere approvato, oppure oggetto di un indirizzo politico alla giunta, ai fini dell’aggiornamento.
Le soluzioni proposte dall’Ifel appaiono eccessivamente barocche e poco argomentate. Chi scrive resta dell’idea espressa sul numero 35 di La Settimana degli Enti Locali: le conseguenti deliberazioni del consiglio relative al Dup non ne comportano l’approvazione, dal momento che si tratta di un presupposto del bilancio. Il consiglio approvando, poi, il bilancio, ovviamente prende atto anche dell’atto presupposto.
Ma non è questo ciò che interessa, bensì la presa d’atto che entra tra i soggetti ai quali si riconosce potere di interpretare se non addirittura di innovare l’ordinamento (che sarebbe la funzione propria della norma) all’Ifel. La quale altro non è se non una fondazione dell’Anci, associazione nazionale dei comuni.
Una sorta, dunque, di “privatizzazione” della potestà di normare, affidata - senza nemmeno appalto – ad un soggetto privato, cui qualcuno, ma non gli elettori-popolo sovrano, ha attribuito un compito normativo inusitato.
In questo senso, qualsiasi interpretazione fornita dall’Ifel, che, ovviamente, della funzione normativa semplicemente può solo abusare, è solo e null’altro se non una grida manzoniana.
Il problema è che il sistema pare ormai accettare supinamente la circostanza che una fondazione privata qualsiasi abbia il potere di incidere nell’ordinamento. Triste la rassegnazione a questo stato di fatto.
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