Il conflitto di interessi consiste nell’affrontare questioni ed adottare decisioni essendo coinvolti direttamente o indirettamente nella questione, perché dai provvedimenti conseguenti possono derivare benefici per i propri interessi, a detrimento degli interessi di altri.
La situazione che si è creata con l’affaire di Banca Etruria, anche se in troppi si ostinano a negarlo a se stessi, è esattamente un modello molto preciso di conflitto di interessi.
Occorre un’ulteriore premessa, per capirsi. Il conflitto di interessi non consiste esclusivamente in un vantaggio diretto ed immediato di natura finanziaria o patrimoniale. Soprattutto per chi è inserito in posti di potere ed intende gestirlo per rafforzarlo e perpetuarlo, il conflitto di interessi è costituito essenzialmente da intrecci di relazioni, grazie ai quali sopire se non eliminare ogni possibile anche solo potenziale contrasto al potere o pericolo di rispondere dell’esercizio dello stesso, nonché creare una “rete” di favori reciproci, utili per controllare i controllori e spianare la strada verso un futuro nel quale si continui ad appartenere alla corte.
Allora, se si ritiene che il conflitto di interessi della Minsitra Boschi consista nella sua partecipazione azionaria alla banca, si sbaglia di grosso. Non è il semplice fatto di possedere azioni che implichi l’avverarsi della fattispecie. Generalmente l’azionista si avvantaggia solo di informazioni riservate, utilizzate per comprare o vendere a discapito di non sia al corrente dei dati segreti. Ma, questo è un reato: insider trading. Il conflitto di interesse è tutt’altro.
Vediamo, ora, i fatti. Nel 2011 il padre della Ministra entra a far parte del consiglio di amministrazione di una banca sostanzialmente decotta. Non riesce a fare nulla, insieme ovviamente agli altri componenti dell’organo di amministrazione, per risanarla ed anzi subisce una sanzione durissima dalla Banca d’Italia.
Nel momento in cui è conclamato che gli amministratori della banca la conducono in malo modo e che la banca è destinata al crack, ecco che si determina un primo conflitto: la salvaguardia della posizione degli amministratori, potenzialmente messa in pericolo da altre sanzioni di organi di vigilanza, e da azioni di risarcimento danni.
Sta di fatto che gli organi di vigilanza, come la Consob, vigilano comunque ben poco. E i vertici di questi organi di vigilanza, che dovrebbero essere terzi e indipendenti, sono di nomina governativa, politica e partitica. Perché in Italia si ha la convinzione che possa esservi indipendenza in un organo perchè qualificato come “autorità indipendente”, sebbene i suoi vertici siano totalmente di espressione e provenienza partitica.
Dunque, per anni, gli organi di controllo sopiscono. I vari governi che tra il 2011 e il 2015 si susseguono non hanno la minima intenzione di accedere agli aiuti europei per salvaguardare la condizione delle banche. E qui si evidenzia un secondo conflitto. Le operazioni di consolidamento delle banche non dovrebbero avere come beneficiari le banche stesse e soprattutto i loro amministratori, bensì correntisti, azionisti, obbligazionisti e clienti, per fare in modo che il sistema economico non sia travolto dalla crisi di liquidità conseguente.
Sta di fatto che mentre nessun Governo fa nulla per consolidare con aiuti della Ue le banche (e dunque clientela ed economia), il padre della Ministra, a due mesi dalla nomina della stessa nell’Esecutivo, assurge alla carica di Vice Presidente della banca.
Nel frattempo, la Procura di Arezzo, sulla scorta delle notizie che comunque circolano, apre un fascicolo di indagine nei confronti degli amministratori della banca. Sta di fatto che il titolare dell’indagine è un magistrato che opera come consulente per il Governo. Nominato dal premier Letta, ma confermato dal premier Renzi. Nonostante nel Governo che lo ha confermato sia presente la figlia di un amministratore di rilievo della banca che origina una sua indagine giudiziaria, il procuratore non si sogna né di rinunciare all’incarico di consulenza alla Presidenza del consiglio che lo porta spesso a lavorare fianco a fianco con la Ministra, né a rinunciare alla titolarità dell’indagine. Sin qui non risulta che detta indagine abbia coinvolto il padre della Ministra. Bene, ciò vuol dire che egli non è indicato come responsabile di illeciti penali. Tuttavia, l’inopportunità della doppia veste del magistrato è evidentissima: nonostante il padre della Ministra sicuramente risulti scevro dall’aver commesso qualsiasi reato, nulla può vietare a chi pensa male che il magistrato si sia fatto scrupolo di indagarlo, proprio per i rapporti col Governo e con la Ministra.
Ecco, allora, che si manifesta una forma molto evidente di conflitto di interessi anche solo potenziale: una relazione professionale stretta tra un Ministro ed un magistrato titolare di un’indagine sui possibili reati connessi al crack di una banca della quale è amministratore il padre del Ministro.
Come si nota, l’interesse qui non è per nulla finanziario, ma di “relazioni”: pur dando assolutamente per scontato che il magistrato abbia agito in totale indipendenza e senza aver ricevuto pressione di alcun genere dalla Ministra, la relazione intrecciata è un fatto innegabile. Nella realtà non vi è stato, c’è da giurarlo, nessun illecito. Ma, potenzialmente potrebbe esservi. Il conflitto di interessi, purtroppo, è solo potenziale.
Non finisce qui. Il Governo a inizio 2015 si adopera per la trasformazione delle banche popolari in società per azioni. Non si è mai capito se la Ministra fosse presente alle sedute del Consiglio dei ministri. Ma non è questo che conta. La sola assenza al voto, lo capisce chiunque, non è indice di rispetto del conflitto di interessi. Da esso si rifugge solo se non si partecipa in alcuna fase e in alcun modo alla fase di esame, istruttoria e decisione del dossier. E questa garanzia, visto che il Consiglio dei ministri è un organo collegiale, proprio non può essere data. Né è dato sapere se nell’esame tecnico giuridico della questione il procuratore-consulente sia in qualche misura interpellato.
Della decisione del Governo di trasformare le banche popolari in Spa si avvantaggia certamente (anche se per breve tempo), tra le altre, la banca di cui il padre di un Ministro è amministratore. I suoi titoli rimbalzano, i correntisti, gli azionisti, gli obbligazionisti, mai informati dalla Consob del rischio di perdite altissimo, credono in un rafforzamento della loro banca. Ma, non sarà così.
Tra settembre e novembre, poi, si torna sulla questione. L’insostenibilità del crack finanziario è conclamata, tanto che su imposizione della Banca d’Italia le banche interessate vengono commissariate.
A questo punto, la contrapposizione degli interessi in gioco è evidente. Da un lato, ci sono gli interessi delle banche come imprenditori a non fallire, per garantire i posti di lavoro e soprattutto la continuità delle loro operazioni, che significa aria per gli imprenditori ed i clienti; dall’altro, gli interessi dei creditori della banca, i possessori di titoli di vario genere, a non subire perdite; terzo interesse in conflitto è quello degli ex amministratori, ovviamente preoccupati di essere coinvolti in azioni di responsabilità da parte sia della banca-impresa (cioè dei titolari di azioni e posizioni societari tali da poter vantare l’azione di responsabilità nei riguardi degli amministratori), sia dei creditori sociali, tutti coloro che abbiano stipulato contratti di varia natura con l’impresa, laddove la banca risulti insolvente, possano rivalersi contro gli amministratori.
E’ chiaro che gli interessi generali, anche fondati sulla semplice prevalenza quantitativa dei beneficiari, sono i primi due. Il terzo è un interesse del tutto particolare, specifico.
Un ordinamento pluralista e democratico non può che sacrificare gli interessi più particolari rispetto a quelli generali.
Ma, in una società nella quale conta il potere, la sua conservazione e le relazioni necessarie allo scopo, può avvenire l’opposto.
Così si adotta un provvedimento col quale si salvaguarda è vero la banca come impresa, con sacrificio della posizione degli azionisti. Ma, nel contempo, si agisce contro un’amplissima schiera sia di azionisti “forzati”, cioè correntisti ai quali la banca propone-impone l’acquisto di azioni ad esempio come condizione per avere prodotti a costi agevolati; sia di obbligazionisti secondari o comunque detentori di titoli ad alto rischio, venduti loro da una banca consapevole di stare per saltare.
Una manovra di salvataggio della banca dovrebbe scongiurare il pericolo di coinvolgere nel bail-in i clienti ordinari. Eppure, questo è quanto avviene. Allo scopo di alleggerire il carico delle altre banche chiamate a coprire gli oneri col fondo bancario? Non si sa.
Di certo, l’estensione massima dell’autofinanziamento della posizione bancaria alleggerisce il carico di responsabilità degli amministratori.
Sembra evidente, allora, che la decisione del Governo non è completamente rivolta all’interesse generale, ma molto attenta a quello particolare. Soprattutto laddove nell’applicazione delle regole comunitarie del bail-in introduce la norma inesistente nella disciplina europea, che non consente più ai creditori sociali di esperire azione di responsabilità contro gli amministratori della banca, riservandola, invece, al commissario. Che viene indicato dalla Banca d’Italia, ma nominato dal Ministero del tesoro, cioè da una componente del Governo, del quale fa parte il Ministro il cui padre è uno tra i beneficiari della sottrazione dell’azione di responsabilità ai creditori sociali. Nulla, ovviamente, può assicurare che quel Ministro non sia coinvolto nelle pratiche relative alla scelta di quel commissario, né convincere mai che quel commissario non sarà mai oggetto di sollecitazioni tese ad evitare di assumere le azioni di responsabilità sottratte ai creditori sociali.
E’ tutto sul piano potenziale, vero. Ma, lo si ribadisce, il conflitto di interessi è un istituto volto a prevenire il verificarsi di fatti che comprimano l’interesse dei molti a favore di quello di pochi e, dunque, vive della potenzialità. Il conflitto di interessi non è un reato, non c’è la commissione od omissione di un fatto connesso dal nesso di causalità al verificarsi dell’evento illecito. La disciplina del conflitto di interessi vuole evitare che l’evento si verifichi; il diritto penale, invece, prevede la sanzione legata al verificarsi di un evento considerato come illecito.
Confondere i due piani serve solo a creare caos e a fornire argomentazioni sofistiche per negare che il conflitto di interessi c’è, evidente e palpabile e, forse, si è anche concretizzato nella partecipazione attiva alla norma che impedisce ai creditori sociali di agire contro gli amministratori delle banche.
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