venerdì 18 dicembre 2015

Fondo decentrato: i pareri non retroattivi non esistono

L’Aran  ritiene valido solo per il futuro il suo avviso relativo all’applicazione dell’articolo 15, comma 5, ma non persuade






 

Secondo l’Aran non hanno applicazione retroattiva le indicazioni sugli incrementi delle risorse decentrate fornite di recente, col parere 18 giugno 2015, n. 19932.

E’ la stessa Aran che con l’orientamento applicativo Ral_1806 del 2015, su richiesta di un comune circa l’estensione degli effetti del parere ai fondi antecedenti al 2015, ritiene di escludere che le indicazioni suggerite nel giugno 2015 possano avere “efficacia retroattiva” sulle modalità di finanziamento della contrattazione integrativa, così da incidere su comportamenti già posti in essere su contratti integrativi ormai chiusi.

L’Agenzia così motiva il suo intervento: “poiché le nuove indicazioni fornite dall’ARAN con il parere n.19932 del 18.6.2015, si incentrano in via prioritaria proprio sulla fase procedurale degli adempimenti necessari per la corretta applicazione del citato art.15, comma 5, del CCNL dell’1.4.1999, si ritiene che le stesse possano trovare applicazione solo con riferimento alle procedure negoziali avviate per l’anno 2015, in coerenza temporale con il nuovo orientamento applicativo. Si esclude, pertanto, che le nuove indicazioni possano intervenire con efficacia retroattiva sulle modalità di finanziamento della contrattazione integrativa, incidendo cioè sui comportamenti attuativi già posti in essere in precedenti contratti integrativi”.

Di conseguenza le nuove indicazioni varrebbero solo per il futuro. Ricordiamo sinteticamente che il parere 19932 dell’Aran ha dato una lettura molto più flessibile dell’articolo 15, comma 5, del Ccnl 1.4.1999, ammettendo che le risorse variabili destinate alla contrattazione decentrata possano essere incrementate anche nel caso di progetti di produttività “di mantenimento”, cioè ripetuti nel tempo, risolvendo un problema aperto da anni nel sistema e modificando radicalmente avvisi di diverso tenore. Avvisi fatti propri, per altro, dalle ispezioni degli uffici della Ragioneria generale dello Stato, tanto da essere il presupposto per richieste di revisione dei fondi e l’attivazione di azioni di responsabilità.

Nonostante l’Aran stessa ritenga che il proprio mutato parere sul tema abbia effetto solo sulle contrattazioni a valere dal 2015 in poi, l’assunto, tuttavia, non appare per nulla condivisibile.

La configurazione degli “orientamenti applicativi” quali indicazioni sull’interpretazione delle regole contrattuali aventi una certa decorrenza nel tempo potrebbe considerarsi corretta solo laddove detti orientamenti applicativi avessero ruolo di fonte dell’ordinamento, cioè di norma.

Nella realtà, gli orientamenti applicativi dell’Aran nemmeno poggiano su una disciplina di legge che li regoli: si tratta di una pura e semplice prassi, adottata dall’Agenzia per fornire in termini generalizzati l’assistenza alla contrattazione integrativa che, ai sensi dell’articolo 46, comma 2, del d.lgs 165/2001 dovrebbe assicurare in ben altro modo, con una consulenza attiva e dedicata a ciascuna amministrazione.

Le posizioni interpretative dell’Aran, per quanto autorevoli, altro non sono se non appunto orientamenti, ma non possono avere alcun risvolto normativo, né possono considerarsi alla stregua di interpretazioni autentiche e vincolanti: primo, perché provengono da una sola delle parti che stipulano i contratti, cioè quella datoriale; secondo perché la procedura dell’interpretazione autentica si svolge, come è giusto che sia, davanti al giudice del lavoro.

Nei fatti gli orientamenti di mera prassi, nemmeno fondati su poteri di regolazione tipici delle authority perché l’Aran è un’agenzia per la contrattazione, hanno ricevuto in particolare dalla Corte dei conti e dagli uffici ispettivi un riconoscimento di fatto, ma del tutto improprio, di “fonte”, quando invece si tratta di pura e semplice dottrina.

Poiché le cose stanno così, è evidente che la lettura di una norma, specie se adottata in chiave di ripensamento di un’interpretazione data in precedenza, debba necessariamente riguardare la norma, senza alcun riferimento al tempo e all’efficacia.

L’interpretazione non è una legge, non si applicano i principi della successione nel tempo, ma è una chiave di lettura. La nuova chiave di lettura dell’Aran sull’applicazione dell’articolo 15, comma 5, del Ccnl 1.4.1999 semplicemente soppianta la precedente e deve necessariamente privare di fondamento tutte le ispezioni e le azioni che abbiano evidenziato vizi nella gestione dei fondi, basate proprio su una mera interpretazione Aran, smentita nel giugno 2015.

Il fatto che l’Aran possa soltanto pensare che un’interpretazione abbia un’applicazione nel tempo, alla stregua di una legge, lascia di per sé capire come e quanto si sia andati, ormai, oltre ogni ragionevole confine nell’attività di applicazione operativa delle leggi.

Già da molto tempo chi scrive segnala che proprio Aran, insieme ad Anac, Garante della privacy, varie sezioni regionali di controllo della Corte dei conti nonché la Sezione Autonomi, la Ragioneria generale dello Stato e per molti versi l’Agenzia delle entrate, oltre ad alcuni altri soggetti come gli uffici della Funzone Pubblica, abbiano creato una blob giuridico inestricabile, spesso senza la legittimazione di norme che ne supportino il valore legale.

Si tratta di un insieme convulso di interpretazioni che si affastellano l’una sopra l’altra, senza alcun coordinamento, spessissimo in contraddizione insanabile tra esse.

L’ordinamento italiano già sconta una forse eccessiva indipendenza di valutazione da parte dei giudici, non vincolati né al precedente né alla nomofilachia del giudice superiore, se il fatto viene analizzato alla luce di valutazioni e soprattutto di norme nuove. Ciò crea una giurisprudenza molto variegata, nell’ambito della quale è difficile cogliere un orientamento consolidato.

Nonostante ciò crei incertezza, l’altra faccia della medaglia di un’indipendenza molto ampia di giudizio da parte della magistratura è la garanzia per le parti: ciascun giudice è libero di valutare in ogni processo le situazioni di fatto e di diritto e le prove senza vincoli che ne comprimano troppo l’orizzonte: il che può essere giovevole alle parti, messe comunque nelle condizioni di sovvertire un orientamento consolidato a tutela dei propri diritti.

Non è, tuttavia, accettabile che organi amministrativi, ma anche giurisdizionali chiamati a svolgere funzione sostanziale di amministrazione consultiva (come le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti) incrementino a dismisura situazioni di incertezza, mediante strumenti sempre più vari e diversi: dalla faq, alla direttiva, dalla delibera al comunicato stampa, dall’orientamento applicativo al parere, fino al recente “non luogo a deliberare”, col quale la Corte dei conti si esibisce nell’esprimere un parere nel quale non fornisce parere.

Se si arriva anche all’assurdo della pretesa di conferire al parere un’efficacia nel tempo, quando invece si tratta di una chiave di lettura di una norma che non può non accompagnare la norma per tutta la sua vigenza, la condizione di caos giuridico è conclamata e totale.

Di sicuro, nel caso specifico delle regole contrattuali sul lavoro pubblico contribuiscono in modo decisivo le norme sibilline, oscure e mal congegnate contenute nei contratti collettivi, delle quali l’articolo 15, comma 5, costituisce l’archetipo. Tanto che non v’è stata ispezione della Ragioneria generale dello Stato che non abbia espresso rilievi ai contratti collettivi esattamente su quel punto.

Ciò dovrebbe far riflettere. Sicuramente le amministrazioni non sono esenti da errori, talvolta dolosi, nell’applicazione delle regole contrattuali. Ma se regolarmente una norma assolutamente involuta, laconica, sibillina, che si esprime in poche righe, ma ha dato modo all’Aran di spargere fiumi di inchiostro per interpretarla ed applicarla, come si capisce spesso oltre i suoi significati, e detta norma è costante fonte di reprimende delle ispezioni è d’obbligo concludere almeno due cose. La prima: quella norma è scritta male. La seconda: le interpretazioni sono troppe, malcerte, restrittive e fonte principale di caos.

L’Aran ha una grave responsabilità, perché con i propri pareri unilaterali, autoproclamati a norma di legge, alimenta questo sistema, mentre potrebbe, invece, cercare definitiva e chiara interpretazione delle norme attraverso la procedura dell’interpretazione autentica giurisdizionale.

Ma, al di là di questo tecnicismo, una volta giunti al parere “non retroattivo” sarebbe proprio il caso di fermarsi e ridisegnare con serietà e fermezza l’intero sistema e riportare la barra al centro, definendo con pignola precisione i poteri normativi ed applicativi, sottraendo ai troppi, troppi soggetti che a diverso titolo oggi dicono la propria un potere di intervento che, come si nota, lungi dal chiarire ed illuminare l’attività amministrativa, è solo fonte di complicazione e di contenzioso.

 

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