domenica 10 gennaio 2016

Province, una riforma alla Checco Zalone

La reale domanda è non se è cambiato qualcosa, bensì a cosa realmente sia servito l’intervento di Delrio, quali benefici abbia dato ai cittadini






L’avesse scritta Luca Medici, in arte Checco Zalone, la riforma delle province forse avrebbe avuto la medesima scarsa qualità giuridica (anche se il Medici è laureato in giurisprudenza), ma almeno avrebbe fatto ridere quanto meno quella parte di spettatori che non si ergono ad esperti del grande cinema dei Bergman.

La cosa grave, invece, è che gli effetti comici, ma soprattutto tragici, si sono avuti lo stesso, anche se la riforma non è stata scritta da un comico.

Checco Zalone con il film “Quo vado” non ha certamente realizzato né un’analisi sociologica della riforma, né un suo approfondimento in chiave tecnico o divulgativo. Ha solo tratto spunto dalla circostanza che l’insieme delle leggi 56/2014 e 190/2014 hanno fatto per la prima volta da spinta su larga scala verso la modifica del “posto fisso”, portando alcune migliaia di dipendenti a cambiare lavoro, per costruire la farsesca trama.

Il dipendente provinciale, così, comincia a girovagare per ogni dove, inseguito da una dirigente ministeriale che tenta di convincerlo a dimettersi con incentivi economici (e non solo).

Alla fine, il dipendente provinciale “posto fisso” torna al suo vecchio adorato ufficio del servizio “caccia e pesca” della provincia. Anzi: non della provincia, bensì della città metropolitana, come Zalone precisa con protervia ad una signora che telefona chiedendo dell’ufficio “della provincia”. E quando la medesima signora gli chiede “ma allora, cosa è cambiato?”, Zalone risponde che non è cambiato nulla (oggettivamente, la risposta di Zalone non è stata proprio quella, ma è facile immaginarne il più colorito contenuto).

Il film in modo certo superficiale e grottesco rappresenta uno dei fallimenti della riforma Delrio, quello più facilmente percepito. In molti hanno la sensazione che poiché le province, nonostante i proclami, non sono state per nulla abolite, sono rimaste lì dov’erano e di loro è cambiato solo il nome: città metropolitane, per quegli enti che hanno ricevuto “l’onore” di assurgere a questo nuovo roboante status; oppure, più mestamente “ente di area vasta”, un giro di parole piuttosto cacofonico, al posto di una parola di quasi 3.000 anni di vita, come “provincia”.

Ovviamente, il comune sentire proposto in modo grottesco da Zalone non riesce a cogliere nel segno. Ma, tuttavia, non è nemmeno da disprezzare che un film, sebbene in modo superficiale ed incompleto faccia emergere che ai cittadini, in fondo, della riforma delle province non interessa assolutamente nulla e, comunque, non la considerano affatto una questione rilevante, a disdoro della campagna assordante che, ricordiamo, non è stata solo del Governo in carica, ma anche del Governo Letta, della maggioranza relativa, del Movimento 5 Stelle e di una consistente parte della stampa del filone di critica, ma senza analisi, alla pubblica amministrazione, capeggiata da Stella e Rizzo.

Nella realtà, non è vero che a seguito della riforma Delrio non sia cambiato niente.

La risposta semplificata a mo’ di battuta alla domanda “cosa è cambiato?” è, ovviamente, tranciante e fuorviante.

Il problema non è se qualcosa sia cambiato, bensì se la riforma sia davvero servita a qualcosa.

I cambiamenti ci sono stati e non solo sul piano nominalistico o formale. Ma, sono tutte modifiche peggiorative. Le ex province si sono viste ridurre di 2 miliardi (dopo altri riduzioni per circa 2,5 miliardi sofferti in precedenza) la capacità di spesa, passata da circa i 12 del 2011 agli attuali meno di 7. Il che ha portato a una serie di conseguenze nefaste: province che sono andate in dissesto, altre che non hanno pagato per mesi o ancora (Crotone) non stanno pagando gli stipendi dei propri dipendenti; azzeramento quasi totale degli investimenti, scuole rimaste senza manutenzione, senza arredi e private dei trasferimenti per il funzionamento dei loro uffici; strutture tecniche rimaste senza operatori con sforamento dei termini per le procedure di valutazione di impatto ambientale che mettono in ginocchio le imprese in attesa; strade rimaste con frane, buche e asfalto da rifare; servizi anti neve azzerati, anche se nessuno se n’è accorto grazie agli ultimi due inverni più che clementi sul piano meteorologico. E, poi, ancora, il caos organizzativo interno, i ritardi oceanici della procedura di ricollocazione, che secondo la circolare 1/2015 di Funzione Pubblica ed Affari Regionali si sarebbe dovuta concludere nell’aprile del 2015 e, invece, se dovesse andare bene forse chiuderà nel giugno del 2016, fermo restando che poco meno di 6000 dipendenti addetti ai servizi per il lavoro ancora non sanno neppure per quale ente presteranno servizio: provincia? Regione? Agenzia regionale? Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro?

Il tutto, condito da situazioni grottesche, degne senz’altro della comicità di Checco Zalone, come la “piattaforma” per la ricollocazione dei dipendenti, strombazzata come già pronta a gennaio del 2015 dalla già citata circolare 1/2015, messa in opera ad aprile, ma senza possibilità di implementarla, attivata a fine settembre, quando già era in gran parte inutile perché le regioni si erano finalmente mosse per riallocare le funzioni non fondamentali, ma non funzionante proprio tra novembre e dicembre, cioè quando le amministrazioni pubbliche avrebbero dovuto inserire i posti disponibili, finalizzati appunto alla ricollocazione dei dipendenti provinciali e dar loro risposta alla domanda “quo vado?”.

In questo frangente, in modo insensato la legge 190/2014 ha contraddetto alle indicazioni della legge Delrio. Questa aveva previsto una traslazione delle funzioni non fondamentali delle province da detti enti a quelli subentranti, mantenendo intatto l’apparato organizzativo e le risorse. La legge 190/2014, sconquassando un già deficitario impianto normativo ha, invece, slegato la ricollocazione dalle funzioni, sì da creare i presupposti non per una ricollocazione organizzata dei dipendenti provinciali, tale da mantenere la funzionalità dei servizi, bensì per porre in essere una vera e propria diaspora, una dispersione casuale di professionalità e risorse. Un caos totale ancora in atto, per giunta aggravato dal sostanziale blocco delle assunzioni, ma scritto così male che tra circolari della Funzione Pubblica e pareri della Corte dei conti tutti hanno avuto la possibilità di scrivere contemporaneamente in merito il bianco e il nero. L’assenza di qualsiasi strumenti di controllo ha consentito, per altro, a tantissimi enti di effettuare egualmente assunzioni contrastanti con i vincoli imposti dalla legge ed affetti da nullità.

Ancora, è cambiato che, pur restando, come si è visto, in vita le province, sia pure sotto nuove e caotiche spoglie, i cittadini sono stati privati della possibilità di eleggere le cariche.

Certo, c’è stato un risparmio sui “costi della politica”, magnificato dal Governo come clamoroso risultato, quantificato in 100 milioni. Cifra, in realtà, sovrastimata: il costo per indennità di funzione e gettoni di presenza degli amministratori provinciali era di 83 milioni, come ha spiegato (vanamente) la Sezione Autonomie della Corte dei conti nelle sue audizioni in Parlamento, e sarebbe sceso a 34 milioni per effetto della riduzione dei consiglieri ed assessori, decisa nel 2011. In ogni caso, 100 milioni sarebbero lo 0,01% del totale della spesa pubblica… Comunque, la riforma ha avuto il “pregio” di far sperimentare la verticalizzazione del potere, l’esproprio del diritto di voto e l’imposizione dall’alto di amministratori decisi dalle segreterie dei partiti, anticipando, sia pure in scala ridotta, gli effetti della riforma del Senato.

Dunque, di cose ne sono cambiate. Ma, si torna alla domanda, a cosa è servito? Andiamo per un attimo in Sicilia, regione che si è affannata ad approvare per prima la riforma delle province, sì da far meritare al presidente Rosario Crocetta per mesi gli onori delle cronache e la partecipazione fissa a tutti i talk show televisivi.

Una delle ragioni più “gettonate” a giustificazione della riforma delle province era il “risparmio” della spesa pubblica. Ebbene, la Sicilia dopo oltre 2 anni dall’avvio di quella riforma (che in realtà è andata incontro dopo un po’ all’inevitabile “controriforma”) si trova sull’orlo del collasso definitivo, appesa agli interventi a sostegno del Governo, per circa 1,5 miliardi. Benefici derivanti dalla riforma delle province, allora? Zero.

Lo stesso si può affermare per quanto avvenuto nel resto d’Italia. Gli sconquassi della riforma li abbiamo descritti sopra. Non è possibile, al contrario, reperire nemmeno uno straccio di concreta utilità.

Riduzione della spesa pubblica? Non c’è stata. La riduzione della spesa imposta alle province non si è tradotta, infatti, in “tagli” alla spesa, come purtroppo erroneamente per mesi i media hanno continuato a dire, disinformando. I 5,5 miliardi di riduzione della spesa imposti a regime (a partire dal 2017) alle province dalla legge 190/2014 non si traducono in una minore spesa, ma nell’assegnazione di tale somma allo Stato, che continuerà a spenderle per propri fini. Semplicemente, dunque, le province sono state trasformate in enti-gabellieri, che esigono le imposte provinciali per conto dello Stato, attribuendo a questo le entrate e lasciando quasi senza servizi i cittadini, per i quali non vi è più alcuna corrispondenza di scopo tra tasse versate ed ente destinatario.

Vi è stata, allora, una riduzione delle imposte locali? Nemmeno per sogno. Il gettito delle imposte provinciali non si è ridotto di un centesimo: i cittadini continuano a pagare le stesse tasse di prima.

C’è stata, allora, una riorganizzazione dei servizi, che ha reso più efficiente il sistema? Come visto sopra, no, nella maniera più assoluta. Le province sono state spinte verso il caos e, con loro, almeno per quel che riguarda la gestione del personale, tutti gli altri enti che hanno subito il blocco delle assunzioni.

Il quadro desolante è reso maggiormente tragicomico dalla circostanza che il Governo e il Parlamento, dopo aver ridotto la spesa delle province in modo insostenibile, hanno successivamente adottato in maniera estemporanea ed improvvisata, misure per rimediare, senza per altro coprire l’immenso ammanco. Così, si è consentito di approvare bilanci di previsione solo annuali, per non far vedere gli squilibri di bilancio nel triennio (operazione di cosmesi contabile che non si capisce come possa passare senza osservazioni della Corte dei conti); poi, è stata permessa la rinegoziazione dei mutui, del tutto inutile per le province virtuose che si erano autofinanziate; poi, ancora, sono state previste erogazioni di spiccioli per i lavori nelle scuole o la parzialissima copertura delle spese per assicurare ai disabili sensoriali l’assistenza allo studio. La più grottesca delle previsioni è stata la possibilità di cedere immobili provinciali all’Invimit: un’operazione che si concluderà tra mesi, ben oltre il 31.12.2016, termine ultimo per la conclusione della riforma, da cui deriverà, alla fine, un depauperamento gravissimo del patrimonio immobiliare pubblico, con difficoltà di rientro immense visto l’andamento del mercato immobiliare e, soprattutto, benefici sulla spesa delle province poco più che simbolici.

La domanda, dunque, riguardante a cosa sia servita la riforma delle province riceve questa desolante risposta. E tutto questo, perché Governo e Parlamento, prima di imbarcarsi in una riforma frettolosa, improvvisata, dettata dagli slogan della stampa e del moralismo politico, mal concepita, scritta in modo dilettantesco, non si sono posti i quesiti che qualsiasi riformatore dovrebbe porsi: che obiettivi ho? Quali benefici intendo ottenere? In quali tempi? Con quale organizzazione? Insomma, “quo vado”?

 

 

1 commento:

  1. Questa è l'Italia di oggi. L'Ente più utile poiché sul territorio viene dipinto come il vero problema...eppure non rappresentava nemmeno l'1% sul bilancio...soldi poi spesi per servizi e non per ingrassare la casta. Le migliaia di edifici scolastici superiori...gli oltre 100.000 chilometri di strade provinciali di cui migliaia di strade che rappresentano l'unica porta di accesso a innumerevoli centri abitati sperduti in ogni angolo d'Italia...gli efficienti corpi di polizia provinciale che da soli accertavano 1/3 di tutti i reati ambientali scoperti nell'entroterra italiano (meno di 2700 poliziotti - gli altri tutti insieme sono centinaia di migliaia) per non parlare della Gestione di servizi che sono ritornati alla regione che è un ente centrale lontano dai territori...cosa si è risolto? NULLA. Con l'aggravante che si è creato tanto caos e disservizi nella gente, nei poveri dipendenti vincitori di pubblico concorso e allontanando i servizi dal territorio. Nemmeno il dilettante più scarso avrebbe partorito questo pasticcio. Le province esistono dai tempi in cui la repubblica non era nemmeno nei più lontani sogni di qualche nostalgico del tempo...3.000 anni? Mi accontento dei 150 anni più recenti. BISOGNAVA TOGLIERE QUALCHE PROVINCIA PICCOLA COME DEL RESTO ACCORPARE REGIONI E PICCOLI COMUNI E NON RIFORMARE NEGATIVAMENTE SULLA PELLE DEI DIPENDENTI E DEI CITTADINI L'ENTE MIGLIORE...Ancora oggi mi chiedo il senso delle città metropolitane...davvero che Paese strano questo...per non parlare di chi governa senza essere eletto.

    RispondiElimina