A seguito della paradossale
vicenda delle sigle sindacali che attaccano il direttore della reggia di
Caserta perché lavora troppo, i sindacati confederali non hanno mancato l’occasione
di affermare che per risolvere tutti i mali del lavoro pubblico occorre
rilanciare la contrattazione, ferma dal 2009.
I sindacati, ovviamente, fanno
il loro mestiere e puntano sul rilancio appunto della contrattazione, istituto
che è alle fondamenta della loro stessa sacrosanta ragione di esistere. Del
resto, lo ha stabilito una volta e per sempre la Corte costituzionale con la
sentenza 178/2015 che esiste un diritto alla contrattazione non suscettibile di
essere conculcato.
Per la verità, da quella
sentenza è trascorso quasi un anno e di riavvio della contrattazione nazionale
collettiva ci si limita solo a parlare, prendendo tempo, in attesa che entri in
vigore il decreto legislativo attuativo della legge 124/2015. Per cui, i
sindacati possono mettersi il cuore in pace: per l’avvio della contrattazione
occorre attendere l’autunno del 2016 e, comunque, se resteranno sul piatto
della bilancia i 300 milioni per il comparto statale, cui probabilmente si
aggiungeranno somme non troppo dissimili per i comparti sanità, regioni ed enti
locali, da contrattare, sul piano economico, vi sarà ben poco.
Certo, la contrattazione
collettiva potrebbe essere comunque uno stimolo per il rilancio della pubblica
amministrazione. In particolare dovrebbe essere la contrattazione decentrata a
fissare di comune accordo tra parti datoriali e sindacali le strade migliori
per perseguire efficienza ed efficacia, compensando la ricerca di benefici
evidenti per la popolazione con incentivi per il risultato.
Tuttavia, questo risultato, come
non si è riusciti a perseguirlo in oltre 15 anni di contrattualizzazione piena
del rapporto di lavoro, si continuerà a non raggiungerlo se non si modificano
radicalmente le regole finanziarie che contribuiscono alla formazione e
gestione dei fondi delle risorse decentrate.
Il sistema di costituzione dei
fondi è a dir poco farraginoso, oggetto di continui correttivi e revisioni,
complicatissimo. Nessuna azienda seria si sognerebbe mai di impostare la
costituzione di risorse da destinare alla produttività dei propri dipendenti
con le regole di per sé folli degli articoli 15 e 17 del Ccnl 1.4.1999.
Il fatto è che la normativa, sia
legislativa, sia contrattuale, è pensata non per consentire al datore di lavoro
pubblico di esplicare l’autonomia organizzativa e contrattuale di cui, pure, disporrebbe
per legge, bensì allo scopo opposto di imbrigliarla, senza, per altro, che vi
siano controlli preventivi.
L’estrema complicazione delle
regole, le dinamiche non sempre virtuose dei rapporti tra politica e sindacati,
i continui mutamenti della disciplina, hanno comportato che mentre la
produttività della PA non è certo aumentata, (come del resto non aumenta la
produttività nemmeno nel lavoro privato: si veda L. Ricolfi, “Il rebus
produttività e il ventennio perduto” ne Il Sole 24 Ore del 6 marzo 2016), le
risorse contrattuali quasi in nessun ente sono state costituite e destinate in
maniera corretta. Ma, la correttezza non è stata misurata solo confrontando
regole decentrate con norme di legge e contrattuali, bensì prendendo anche a
riferimento indicazioni non aventi valore normativo alcuno, come i pareri dell’Aran
o i rilievi delle ispezioni del Mef, caratterizzati da un notevole tasso di
creatività del diritto. L’esempio più conosciuto è dato dai rilievi mossi
praticamente a tutti gli enti, accusati di aver abusato dell’autonomia
consentita dall’articolo 15, comma 5, del Ccnl 1.4.1999 di incrementare le
risorse variabili in relazione a progetti specifici, perché gli obiettivi sono
sempre regolarmente ritenuti “non sfidanti”, senza che nessuna norma di legge o
di contratto preveda ciò e, soprattutto, senza che mai nessuno sia stato capace
di spiegare in cosa consisterebbero gli obiettivi “sfidanti”.
Il bel risultato è che questo
sistema generale ha comportato solo un immane contenzioso tra amministrazioni
(comuni in particolari) servizi ispettivi e Corte dei conti, senza che la contrattazione
decentrata abbia indotto nemmeno un minimo di produttività in più o migliorie
nell’organizzazione.
E’ corretto, allora, proseguire
su questa strada? Quando ci si ostina in meccanismi che non funzionano, la
saggezza che dovrebbe derivare dall’esperienza consiglia di cambiare strada.
Purtroppo, segnali di modifica
radicale delle regole finanziari sulla contrattazione non si vedono. Il “salva-Roma”
poteva essere l’occasione per farlo: una sanatoria, finalizzata a cambiare per
sempre le regole.
Il cambiamento sarebbe
estremamente semplice: consentire alle amministrazioni pubbliche di costituire
e gestire i fondi non più prendendo a riferimento basi di calcolo assurde ed
obsolete, come il “monte salari” di decine di anni addietro, ma in modo molto
più semplice e realistico. Per esempio, utilizzando i dati del Conto annuale e
del Siope. Ogni anno sarebbe possibile stabilire quale sia la spesa per retribuzioni
ed il suo rapporto con la spesa corrente complessiva, così da permettere a
ciascuna amministrazione di costituire i fondi in una somma non superiore al
rapporto nazionale, limitandosi a definire con precisione quali siano le
destinazioni “stabili”, rispetto a quelle “variabili” (ma non occorrerebbe un
genio).
Così la contrattazione e la
gestione risulterebbe sollevata da astrusi sistemi di conteggio e si
eliminerebbero tutti i problemi legati alla “costituzione del fondo”, un’operazione
che dovrebbe risultare banale e automatica, compiuta da un robot e che, invece,
è divenuta un arcano, un atto sacrale e fideistico.
Nello stesso tempo, occorrerebbe
una norma che chiarisca che laddove la contrattazione decentrata utilizzi le
risorse così semplicemente determinate, non scatti alcuna responsabilità
erariale ed amministrativa se si utilizzi un’indennità invece di un’altra, così
da limitare l’eccessiva discrezionalità della magistratura contabile, secondo
la cui giurisprudenza il danno, nella contrattazione, si verifica non solo
quando si utilizzino più risorse del consentito, ma anche se, pur nel rispetto
dei tetti di spesa, le destinazioni non siano perfettamente rispondenti alle
cervellotiche regole fin qui disposte.
Per riformare davvero la
pubblica amministrazione, a guardar bene, non servono affatto testi unici,
leggi delega, decine e decine di decreti delegati “epocali”, ma solo pochissime
regole di efficienza. Quelle che, regolarmente, non si vedono mai.
Parole molto opportune che purtroppo risuoneranno come grida nel deserto!
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