lunedì 25 aprile 2016

Il rapporto tra politica e dirigenza che la riforma Madia vuol trasformare da servente a servile



A Il Sole 24 Ore tutte le “riforme che si attendono da 30 anni” presentate dal Governo piacciono sempre molto, come imperativo categorico. Salvo, poi, dover talvolta prendere atto, a malincuore, a seguito di pareri del Consiglio di stato, sentenze della Cassazione, pareri della Corte dei conti, evidenze della vita e dell’economia, che esse sono scritte in modo pessimo, non producono i risultati promessi, si rivelano dannose. Ma, non c’è mai, comunque, un ripensamento critico alle posizioni inizialmente assunte. Le “riforme si attendono da 30 anni”, dunque occorre farle, si fa bene ad approvarle, anche se i risultati sono troppo spesso estremamente deficitari.

Non sfugge, ovviamente, al plauso preventivo e a prescindere la riforma della dirigenza pubblica, delineata dall’articolo 11 della legge 124/2015.
Tuttavia, nell’edizione del 25 aprile, il quotidiano di Confindustria, con l’articolo di G. Trovati “Un rapporto da ricostruire tra politica e dirigenti” sembra quasi voler evidenziare una scusante preventiva alla certa scarsa qualità del testo attuativo, che sicuramente sarà oggetto degli strali del Consiglio di stato e della dottrina, visti anche i precedenti di tutti gli altri decreti legislativi attuativi della legge 124/2015.
La domanda di fondo, non posta nell’articolo, è: di chi è la responsabilità della pessima formulazione delle disposizioni normative? Della politica? Oppure, della dirigenza?
Sappiamo bene che i testi delle norme non sono formulati e scritti in prima persona dai politici, bensì dalle strutture amministrative e, ovviamente, col contributo fondamentale dei dirigenti di queste.
Trovati esamina gli eventi recenti, con specifico riferimento al decreto “trasparenza”, il quale, a causa dell’onerosità delle richieste di documenti e, soprattutto, del silenzio-diniego immotivato opposto alle istanze di accesso civico, ovviamente di trasparente non ha un bel nulla, come non ha potuto fare a meno di osservare il Consiglio di stato (per altro, buon ultimo dopo molti approfondimenti dottrinari dello stesso tenore). Dunque, il Trovati osserva: “Dopo che il Parlamento incarica il governo di scrivere una riforma, i decreti attuativi fanno un lungo giro tra Consiglio di Stato, commissioni parlamentari e confronti con le regioni e gli enti locali, per poi tornare a Palazzo Chigi dove sono approvati in via definitiva. In questo giro dei pareri l'elemento nuovo è dato dalla scelta del Consiglio di Stato, che sta passando al setaccio i testi dei decreti inforcando le lenti dell'applicazione concreta più che dei soli formalismi giuridici. Rendere la pubblica amministrazione più semplice e trasparente, hanno detto in pratica in ogni parere i giudici amministrativi, è urgente davvero, ma se le norme non funzionano si rischia di ottenere l'effetto contrario ingabbiando le procedure in una rete di contenziosi e incertezze. In qualche caso, poi, i giudici sono andati dritti nel merito delle contraddizioni logiche, com'è accaduto al decreto sulla trasparenza: come si fa a trasformare la Pa in una «casa di vetro» e poi riesumare un arcaico silenzio-rifiuto che permette agli uffici di tacere le informazioni senza nemmeno preoccuparsi di spiegare il perché? Obiezioni come queste servono a riportare il cammino della riforma sulla strada originaria data dalle indicazioni politiche, come dimostra il fatto che la stessa ministra Madia ha chiarito subito di essere favorevole ai correttivi. Il percorso, insomma, sembra virtuoso, perché in modo fedele alla vecchia massima pubblicitaria che suggerisce di prevenire invece di curare permette di risolvere problemi importanti prima che si manifestino nell'attuazione delle nuove regole. Resta da riflettere, però, sui problemi della catena di trasmissione che dalle parole d'ordine della politica porta agli articoli e ai commi del decreto”.
L’analisi non trae le conclusioni, che restano sullo sfondo. Non è colpa della politica (nel caso di specie, del Ministro Madia) se il contenuto delle norme (in questo caso il decreto sulla trasparenza) è talvolta perfino contrario agli intenti enunciati dalla politica; qualcosa, lungo la catena di trasmissione, si inceppa e, quindi, vengono fuori testi che poi sono duramente colpiti dal Consiglio di stato. Con un sillogismo aristotelico nemmeno troppo complicato, il ragionamento non può che concludersi nel senso che, allora, la responsabilità dei testi normativi così di scarsa qualità è dei dirigenti e non della politica.
Allora, ecco perché servirebbe, secondo il quotidiano confindustriale “un rapporto da ricostruire tra politica e dirigenti”. Questi, di fatto, mostrano di voler mettere i bastoni tra le ruote alla politica. Il rapporto da ricostruire è ridare vigore e forza alla “catena di trasmissione”, sicchè i dirigenti siano realmente e lealmente apparato servente e non felloni che si oppongono in modo strisciante alle indicazioni della politica.
Dunque, sarebbe da concludere – l’altro messaggio implicito dell’analisi del Trovati – che è opportuna la riforma Madia, dal momento che potenzia a dismisura lo spoil system e rende il rapporto di lavoro dei dirigenti totalmente dipendente dalla politica. Questo è certo un modo ottimale di rafforzare la catena di trasmissione, anzi di creare quelle catene che trasformino la dirigenza da apparato servente ad apparato servile.
Tutto funziona e tutto è coerente. Salvo le seguenti piccole osservazioni. Il Trovati sa benissimo che, con specifico riferimento alle leggi e ai decreti legislativi, non è una dirigenza qualunque chiamata a scrivere i testi che poi subiscono le ire del Consiglio di stato. Non è ma la dirigenza operativa, quella cosiddetta di line, ma la dirigenza più vicina alla politica, quelle poche decine di dirigenti che la stessa Corte costituzionale ammette possano essere soggetti allo spoil system: i direttori generali, i capi dipartimento, i capi di gabinetto, i capi degli uffici legislativi, i segretari generali. Tutti facenti parte dei cosiddetti “uffici di diretta collaborazione” degli organi di governo, selezionati in base a chiamate sostanzialmente fiduciarie e soggetti al simul stabunt, simul cadent in quanto, secondo la Consulta, è ben possibile che il loro incarico decada con la fine del mandato politico dell’organo di governo che li ha cooptati. E il Trovati, ancora, sa benissimo che, in particolare quando si tratta di scrivere decreti attuativi di leggi-delega molto complesse, come nel caso della legge 124/2015, la definizione dei testi è demandata, a supporto dei dirigenti della tipologia vista prima, a consulenti esterni (docenti universitari, esperti, magistrati) chiamati direttamente dai ministri.
Poiché le cose stanno in questo modo, sarebbe il caso di chiedere al Trovati: di cosa sta parlando? Quale dirigenza dovrebbe ricostruire il rapporto con la politica? Se la politica non può fidarsi della dirigenza fiduciaria reclutata apposta proprio per scrivere le leggi, la responsabilità di chi è? Di tutta la dirigenza, o di questa specifica parte della dirigenza “di fiducia”, O, anche, eventualmente, di una politica evidentemente non in grado di selezionare efficacemente i dirigenti di propria fiducia, né, probabilmente, in condizione di leggere ed approfondire i testi, in modo da emendarli delle incongruenze ed errori (anche di linea politica e non solo tecnici), prima e non dopo che vengano sottoposti all’esame della magistratura?


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