A Il Sole 24 Ore tutte le “riforme
che si attendono da 30 anni” presentate dal Governo piacciono sempre molto,
come imperativo categorico. Salvo, poi, dover talvolta prendere atto, a malincuore, a
seguito di pareri del Consiglio di stato, sentenze della Cassazione, pareri
della Corte dei conti, evidenze della vita e dell’economia, che esse sono
scritte in modo pessimo, non producono i risultati promessi, si rivelano dannose.
Ma, non c’è mai, comunque, un ripensamento critico alle posizioni inizialmente
assunte. Le “riforme si attendono da 30 anni”, dunque occorre farle, si fa bene
ad approvarle, anche se i risultati sono troppo spesso estremamente deficitari.
Non sfugge, ovviamente, al
plauso preventivo e a prescindere la riforma della dirigenza pubblica,
delineata dall’articolo 11 della legge 124/2015.
Tuttavia, nell’edizione del 25
aprile, il quotidiano di Confindustria, con l’articolo di G. Trovati “Un rapporto da ricostruire tra politica e
dirigenti” sembra quasi voler evidenziare una scusante preventiva alla
certa scarsa qualità del testo attuativo, che sicuramente sarà oggetto degli
strali del Consiglio di stato e della dottrina, visti anche i precedenti di tutti
gli altri decreti legislativi attuativi della legge 124/2015.
La domanda di fondo, non posta
nell’articolo, è: di chi è la responsabilità della pessima formulazione delle
disposizioni normative? Della politica? Oppure, della dirigenza?
Sappiamo bene che i testi delle
norme non sono formulati e scritti in prima persona dai politici, bensì dalle
strutture amministrative e, ovviamente, col contributo fondamentale dei
dirigenti di queste.
Trovati esamina gli eventi
recenti, con specifico riferimento al decreto “trasparenza”, il quale, a causa
dell’onerosità delle richieste di documenti e, soprattutto, del
silenzio-diniego immotivato opposto alle istanze di accesso civico, ovviamente
di trasparente non ha un bel nulla, come non ha potuto fare a meno di osservare
il Consiglio di stato (per altro, buon ultimo dopo molti approfondimenti
dottrinari dello stesso tenore). Dunque, il Trovati osserva: “Dopo che il Parlamento incarica il governo
di scrivere una riforma, i decreti attuativi fanno un lungo giro tra Consiglio
di Stato, commissioni parlamentari e confronti con le regioni e gli enti
locali, per poi tornare a Palazzo Chigi dove sono approvati in via definitiva.
In questo giro dei pareri l'elemento nuovo è dato dalla scelta del Consiglio di
Stato, che sta passando al setaccio i testi dei decreti inforcando le lenti
dell'applicazione concreta più che dei soli formalismi giuridici. Rendere la
pubblica amministrazione più semplice e trasparente, hanno detto in pratica in
ogni parere i giudici amministrativi, è urgente davvero, ma se le norme non
funzionano si rischia di ottenere l'effetto contrario ingabbiando le procedure
in una rete di contenziosi e incertezze. In qualche caso, poi, i giudici sono
andati dritti nel merito delle contraddizioni logiche, com'è accaduto al
decreto sulla trasparenza: come si fa a trasformare la Pa in una «casa di
vetro» e poi riesumare un arcaico silenzio-rifiuto che permette agli uffici di
tacere le informazioni senza nemmeno preoccuparsi di spiegare il perché? Obiezioni come queste servono a riportare
il cammino della riforma sulla strada originaria data dalle indicazioni
politiche, come dimostra il fatto che la stessa ministra Madia ha chiarito
subito di essere favorevole ai correttivi. Il percorso, insomma, sembra
virtuoso, perché in modo fedele alla vecchia massima pubblicitaria che
suggerisce di prevenire invece di curare permette di risolvere problemi
importanti prima che si manifestino nell'attuazione delle nuove regole. Resta da riflettere, però, sui problemi
della catena di trasmissione che dalle parole d'ordine della politica porta
agli articoli e ai commi del decreto”.
L’analisi non trae le
conclusioni, che restano sullo sfondo. Non è colpa della politica (nel caso di
specie, del Ministro Madia) se il contenuto delle norme (in questo caso il
decreto sulla trasparenza) è talvolta perfino contrario agli intenti enunciati
dalla politica; qualcosa, lungo la catena di trasmissione, si inceppa e,
quindi, vengono fuori testi che poi sono duramente colpiti dal Consiglio di
stato. Con un sillogismo aristotelico nemmeno troppo complicato, il
ragionamento non può che concludersi nel senso che, allora, la responsabilità dei
testi normativi così di scarsa qualità è dei dirigenti e non della politica.
Allora, ecco perché servirebbe,
secondo il quotidiano confindustriale “un rapporto da ricostruire tra politica
e dirigenti”. Questi, di fatto, mostrano di voler mettere i bastoni tra le
ruote alla politica. Il rapporto da ricostruire è ridare vigore e forza alla “catena
di trasmissione”, sicchè i dirigenti siano realmente e lealmente apparato
servente e non felloni che si oppongono in modo strisciante alle indicazioni
della politica.
Dunque, sarebbe da concludere –
l’altro messaggio implicito dell’analisi del Trovati – che è opportuna la
riforma Madia, dal momento che potenzia a dismisura lo spoil system e rende il
rapporto di lavoro dei dirigenti totalmente dipendente dalla politica. Questo è
certo un modo ottimale di rafforzare la catena di trasmissione, anzi di creare
quelle catene che trasformino la dirigenza da apparato servente ad apparato
servile.
Tutto funziona e tutto è
coerente. Salvo le seguenti piccole osservazioni. Il Trovati sa benissimo che,
con specifico riferimento alle leggi e ai decreti legislativi, non è una
dirigenza qualunque chiamata a scrivere i testi che poi subiscono le ire del
Consiglio di stato. Non è ma la dirigenza operativa, quella cosiddetta di line, ma la dirigenza più vicina alla
politica, quelle poche decine di dirigenti che la stessa Corte costituzionale
ammette possano essere soggetti allo spoil system: i direttori generali, i capi
dipartimento, i capi di gabinetto, i capi degli uffici legislativi, i segretari
generali. Tutti facenti parte dei cosiddetti “uffici di diretta collaborazione”
degli organi di governo, selezionati in base a chiamate sostanzialmente
fiduciarie e soggetti al simul stabunt,
simul cadent in quanto, secondo la Consulta, è ben possibile che il loro
incarico decada con la fine del mandato politico dell’organo di governo che li
ha cooptati. E il Trovati, ancora, sa benissimo che, in particolare quando si
tratta di scrivere decreti attuativi di leggi-delega molto complesse, come nel
caso della legge 124/2015, la definizione dei testi è demandata, a supporto dei
dirigenti della tipologia vista prima, a consulenti esterni (docenti
universitari, esperti, magistrati) chiamati direttamente dai ministri.
Poiché le cose stanno in questo
modo, sarebbe il caso di chiedere al Trovati: di cosa sta parlando? Quale
dirigenza dovrebbe ricostruire il rapporto con la politica? Se la politica non
può fidarsi della dirigenza fiduciaria reclutata apposta proprio per scrivere
le leggi, la responsabilità di chi è? Di tutta la dirigenza, o di questa
specifica parte della dirigenza “di fiducia”, O, anche, eventualmente, di una
politica evidentemente non in grado di selezionare efficacemente i dirigenti di
propria fiducia, né, probabilmente, in condizione di leggere ed approfondire i
testi, in modo da emendarli delle incongruenze ed errori (anche di linea
politica e non solo tecnici), prima e non dopo che vengano sottoposti all’esame
della magistratura?
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