Le sentenze della Coerte di
Giustizia Europea o della Cassazione in tema di tutela dei lavoratori pubblici
assunti a tempo determinato sono costantemente fonti di allarmismo. Non poteva
sfuggire a questa consuetudine la sentenza delle Sezioni Riunite 15 marzo 2016,
n. 5072.
Tale decisione ha stabilito in
modo da ritenere, ormai, definito, due elementi fondamentali nella complessa
questione.
In primo luogo, è assolutamente legittimo che l’ordinamento interno
non consenta la “tutela reale” consistente nell’assunzione a tempo
indeterminato come sanzione per l’illecita apposizione del termine o l’illecita
sequenza di contratti. L’articolo 97 della Costituzione, come del resto ha
affermato la giurisprudenza della Cge, impedisce la trasformazione
sanzionatoria; altrimenti, il principio del concorso risulterebbe violato. In
secondo luogo, la Cassazione ha definito in cosa consista la tutela riservata
dall’ordinamento ai lavoratori flessibili della PA, che abbiano subito la “precarizzazione”:
si tratta del risarcimento del danno previsto dall’articolo 32, comma 5, della legge
183/2010, ai sensi del quale, nel caso di illegittima apposizione del termine
al contratto a tempo determinato nel settore privato “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore
stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di
2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto,
avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966,
n. 604”.
Dunque, non si tratta di
risarcire il danno derivante da illegittimo licenziamento, perché – spiega la
Cassazione, rivelando un’ovvietà che però alla giurisprudenza di merito non era
evidentemente chiara – “il richiamo alla
disciplina del licenziamento illegittimo, sia quella dell'art. 8 della legge n.
604/66 che dell'alt 18 della legge n. 300/1970, che altresì, in ipotesi, quella
del regime indennitario in caso di contratto di lavoro a tutele crescenti (art.
3 d.lgs. n. 23 del 2015), è incongruo perché per il dipendente pubblico a
termine non c'è la perdita di un posto di lavoro. Può invece farsi riferimento
all'art. 32, comma 5, cit. che appunto riguarda il risarcimento del danno in
caso di illegittima apposizione del termine”.
In terzo luogo, la Cassazione
ritiene necessario applicare la normativa citata, la quale esonera il
lavoratore dalla prova, sostanzialmente impossibile, di dimostrare il danno
conseguente all’abuso nell’utilizzo delle forme flessibili di lavoro da parte
della PA.
Da qui, il principio enunciato
dalla sentenza: “Nel regime del lavoro
pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro
a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che
abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha
diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da
tempo determinato a tempo indeterminato posto dall'art. 36, comma 5, d.lgs. 30
marzo 2001 n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima
disposizione con esonero dall'onere probatorio nella misura e nei limiti di cui
all'art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n. 183, e quindi nella misura pari
ad un'indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12
mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri
indicati nell'art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604”.
E’ certamente un trattamento di
tutela molto diverso da quello spettante ai lavoratori del settore privato,
che, tuttavia, non vìola le regole dell’ordinamento. Le Sezioni Unite, infatti,
spiegano: “In sostanza il lavoratore
pubblico - e non già il lavoratore privato - ha diritto a tutto il risarcimento
del danno e, per essere agevolato nella prova (perché ciò richiede
l'interpretazione comunitariamente orientata), ha intanto diritto, senza
necessità di prova alcuna per essere egli, in questa misura, sollevato
dall'onere probatorio, all'indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5. Ma non gli è precluso di provare che le
chances di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati contratti a
termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più
elevato. Invece il lavoratore privato non ha questa possibilità e questa
restrizione è stata ritenuta costituzionalmente non illegittima (Corte cost. n.
303 del 2011, cit.) considerandosi che egli ha comunque diritto alla
conversione del rapporto”.
Questo è il quadro normativo
fissato in modo finalmente chiaro dal fondamentale arresto giurisprudenziale
della Cassazione.
Come rilevato all’inizio,
tuttavia, la sentenza è stata in parte travisata, sì da creare clamore e
allarmismo, al suono della necessità di risarcire gli 80.000 precari della PA, paventando
costi elevatissimi per miliardi, oppure brandendo l’arma della necessità,
comunque, di stabilizzare un precariato comunque necessario per il buon
andamento degli uffici.
Si tratta di un panico già
visto, già diffuso e già conosciuto, che in passato ha, in effetti, prodotto i
frutti non del tutto efficienti di stabilizzazioni, delle quali molte
amministrazioni – soprattutto le regioni – hanno fatto ampio abuso.
Simile atteggiamento, tuttavia,
è frutto di un travisamento evidente delle indicazioni della Cassazione,
interpretate e lette come certificazione che ogni rapporto di lavoro contratto
tra un dipendente pubblico ed una PA è di per sé illecito e, quindi, deve
essere risarcito secondo i canoni spiegati dalle Sezioni Unite.
Le cose, tuttavia, non stanno
affatto in questo modo. La sentenza, nel punto 13, ha contestualmente il pregio
di spiegare finalmente in cosa consiste il vero e proprio danno subito dal
lavoratore, ma anche il difetto di non essersi spinta troppo oltre e di non
aver scritto in modo esplicito quando tale danno non si determina; tuttavia, la
sentenza stessa fornisce indirettamente le categorie interpretative necessarie
per affermare che è il reclutamento mediante concorso ad impedire di per sé che
possa esservi “precarizzazione”, anche laddove complessivamente il rapporto di
lavoro tra PA e dipendente superi i 36 mesi. Vediamo di comprendere il perché,
partendo proprio dalla pregevole analisi della sentenza in commento. La
Cassazione afferma che non c'è “un danno
da mancata conversione del rapporto e quindi da perdita del posto di lavoro”.
Il danno consiste in altro: “Il
lavoratore, che abbia reso una prestazione lavorativa a termine in una
situazione di ipotizzata illegittimità
della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in
generale, di abuso del ricorso a tale
fattispecie contrattuale, essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o
ripetuta reiterazione contra
legem, subisce gli effetti
pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, possono variamente configurarsi.
Si può soprattutto ipotizzare una perdita
di chance nel senso che, se la pubblica amministrazione avesse operato
legittimamente emanando un bando di concorso per il posto, il lavoratore, che
si duole dell'illegittimo ricorso al contratto a termine, avrebbe potuto
parteciparvi e risultarne vincitore. Le energie lavorative del dipendente
sarebbero state liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un
impiego alternativo a tempo indeterminato. Il lavoratore che subisce l'illegittima apposizione del
termine o, più in particolare, l'abuso
della successione di contratti a termine rimane confinato in una situazione
di precarizzazione e perde la chance di conseguire,
con percorso alternativo, l'assunzione mediante concorso nel pubblico impiego o
la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo
indeterminato.
L'evenienza ordinaria è la perdita di chance risarcibile come danno
patrimoniale nella misura in cui l'illegittimo (soprattutto se prolungato)
impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro
stabile”.
Il danno subito dal lavoratore,
dunque, è la perdita di chance. Per comprendere a fondo quanto enunciato dalla
Cassazione occorre, però, soffermarsi sull’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul
lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno
1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all'accordo quadro CES,
UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) e in particolare la sua clausola
5, posta proprio a fissare nell’ordinamento un sistema di prevenzione e
sanzione degli abusi nell’impiego di forme di lavoro flessibili.
Come ricordano le Sezioni Unite,
“La clausola indica alternativamente le
misure idonee a prevenire gli abusi a) prescrizione di ragioni obiettive per il
rinnovo; b) durata massima dei contratti a termine; c) numero massimo dei
rinnovi”.
Come si nota, la disciplina
europea non considera il primo contratto a termine come fonte di illegittimità
della costituzione del rapporto di lavoro, a meno che – ovviamente – non si
tratti di apposizione illegittima della clausola. Nell’ordinamento privato
sostanzialmente questa ipotesi è stata eliminata a regime dal d.lgs 81/2015,
che ha trasformato il contratto a termine in contratto acausale: pertanto, il
datore di lavoro non deve più esplicitare le ragioni giustificative dell’apposizione
del termine. Non così è, invece, nel lavoro pubblico, nel quale, invece, il
contratto a termine (ed ogni altra forma flessibile) è rimasto causale e va
giustificato dalla necessita di “rispondere
ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale”, come
prevede l’articolo 36, comma 2, del d.lgs 165/2001.
Allora, una prima ipotesi di
abuso consiste nel costituire un rapporto di lavoro a termine su fabbisogni
continuativi, apponendo il termine pur non essendovi esigenze di carattere né temporaneo,
né eccezionale.
In questa evenienza, la perdita
di chance del lavoratore è molto evidente. Infatti, è stato indotto a
partecipare ad una selezione pubblica per concludere un rapporto di lavoro a
termine, quando invece l’esigenza reale dell’amministrazione era continuativa.
Sicchè, il lavoratore è stato tratto in inganno ed ha profuso energie e spese,
per giungere a stipulare un contratto limitato nel tempo, quando invece avrebbe
dovuto essere a tempo indeterminato. Quindi, la chance vera era quella di
costituire un rapporto duraturo, ma quella offerta concretamente, abusando
della “causa” e simulando situazioni temporanee o eccezionali inesistenti, ha
portato ad un contratto a termine, che ha fatto perdere al lavoratore la
possibilità di ottenere con quel medesimo datore pubblico un contratto a tempo
indeterminato, invece che a tempo determinato. Su questo aspetto, il punto 13
della sentenza in commento appare chiaro ed incontrovertibile.
Ma, la clausola 5 dell’accordo
quadro concentra maggiormente la propria attenzione sull’altro mezzo di abuso
dei rapporti a termine: la successione illecita di contratti. E’ per questo
motivo che suggerisce di introdurre negli ordinamenti misure di prevenzione
volte a imporre ragioni obiettive alla base dei rinnovi, oppure a prevedere una
durata massima dei contratti a termine o, ancora, un numero massimo dei rinnovi.
Notiamo che l’accordo quadro
insiste molto sul tema dei rinnovi. Il perché è molto semplice: l’abuso della
successione illecita di contratti si perpetra appunto mediante ripetuti atti di
rinnovo del rapporto di lavoro da parte del datore. Dunque, in questa
circostanza, riprendendo quanto affermato dalla Cassazione “Il lavoratore che subisce l'illegittima apposizione del termine o, più in
particolare, l'abuso della successione
di contratti a termine rimane confinato in una situazione di
precarizzazione e perde la chance di conseguire,
con percorso alternativo, l'assunzione mediante concorso nel pubblico impiego o
la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo
indeterminato.
Insomma, la perdita di chance
legata alla successone illecita di contratti è diversa da quella connessa all’illecita
apposizione del termine. Con la successione di contratti, il lavoratore resta
legato, ma in modo instabile, ad un datore di lavoro; la disponibilità, sia
pure precaria, del lavoro scaturente dai rinnovi lo rende, sostanzialmente, “prigioniero”
del meccanismo, sì da non cercare lavori alternativi, né partecipando a
concorsi nel pubblico impiego, né mirando alla costituzione di rapporti di
lavoro stabili nel settore privato.
Per la formazione della
fattispecie dannosa nei riguardi del lavoratore, allora, è decisiva la volontà
unilaterale del datore di lavoro, che intenzionalmente o anche solo
colposamente reiteri il rapporto di lavoro, continuando a rinnovarlo all’indirizzo
sempre del medesimo lavoratore.
Come rivela con molta chiarezza
la clausola 5 dell’accordo quadro, allora è il rinnovo lo strumento fondamentale
della successione illecita di contratti. Torniamo di nuovo al punto 13 della
sentenza e rileggiamone un altro passaggio decisivo: il lavoratore subisce
effetti pregiudizievoli risarcibili nei casi di:
1) illegittimità
della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro
2)
o, più in
generale, di
a)
abuso
del ricorso a tale fattispecie contrattuale, essenzialmente in ipotesi di
i)
proroga,
ii) rinnovo
iii) o ripetuta reiterazione contra legem.
L’ipotesi di cui al punto 1) è
la perdita di chance dovuta alla circostanza che la PA abbia “offerto” un
lavoro a tempo determinato, in assenza delle esigenze temporanee o eccezionali.
Il punto 2 si riferisce alla
catena illecita di contratti, che si crea prevalentemente:
a) per
abuso del potere datoriale di tenere in vita il rapporto di lavoro;
b) per
violazione di legge nella reiterazione.
Partiamo dall’ipotesi dell’abuso
del potere datoriale. I precari che possano vantare un diritto al risarcimento
del danno secondo i canoni definiti dalle Sezioni Unite possono essere
esclusivamente coloro nei confronti dei quali l’amministrazione abbia adottato
gli atti unilaterali di proroga e rinnovo, che abbiano condotto a violare il
termine massimo di 36 mesi di durata del rapporto di lavoro (ovviamente, al
netto di possibili illegittimità nella causa tanto della proroga, quanto del
rinnovo).
E’ attraverso queste decisioni
datoriali che innesca il circolo vizioso dal quale il lavoratore non è più capace
di uscire, sì da perdere le chance di reperire un lavoro stabile altrimenti.
Allora, simmetricamente, quando
non si determina la perdita di chance da cui deriva il danno risarcibile?
Quando la PA non agisce in modo unilaterale sul rapporto di lavoro prolungandolo
o rinnovandolo oltre la durata massima consentita, ma soddisfi fabbisogni
realmente temporanei o eccezionali, per quanto reiterati, attraverso la forma
di reclutamento imposta dalla Costituzione e, cioè, mediante il concorso
pubblico.
Il concorso recide qualsiasi
legame diretto tra datore di lavoro pubblico e lavoratore, perché innesca una
procedura di reclutamento aperta, alla quale può partecipare chiunque e in
esito alla quale non dà corso né ad una proroga di un contratto già in essere
(non vi sarebbe alcun concorso, ovviamente, in questo caso), né ad un rinnovo
di un contratto scaduto. Il rinnovo, infatti, presuppone una negoziazione
diretta tra le parti del precedente contratto, ad esclusione di qualsiasi altro
soggetto. Il concorso, invece, apre a chiunque interessato la possibilità di
partecipare alla selezione e, quindi, consente appunto un “concorso”, una competizione
tra più soggetti. Il rapporto di lavoro che ne consegue non è una novazione del
precedente, ma un rapporto totalmente nuovo ed autonomo dal precedente.
Se, allora, il lavoratore
assunto in precedenza partecipa al concorso e lo vince, si tratta di rinnovo
illecito? Oppure di precarizzazione? Evidentemente no. Sia perché il rapporto
di lavoro, sul piano oggettivo, è sganciato dal precedente; sia perché sul
piano soggettivo non c’è stato un atto unilaterale datoriale volto a rinnovare
il contratto con quello specifico lavoratore, ma l’avvio di un procedimento
pubblico di selezione, ad esito evidentemente incerto, che non dà alcuna
garanzia al lavoratore del precedente rapporto di essere riassunto.
Si ha, dunque, in un caso simile
“perdita di chance”? La risposta è certamente negativa. Poiché non c’è l’atto
datoriale unilaterale di abuso nella reiterazione del rapporto oggettivo e
soggettivo, al contrario col concorso si offre al lavoratore precedentemente
assunto (così come ad ogni altro interessato) addirittura una chance nuova. E’
il lavoratore a decidere se coglierla o meno, presentandosi al concorso.
Questo conferma come il concorso
pubblico intervenga sul meccanismo dei 36 mesi e lo rompa.
Indirettamente, la sentenza
delle Sezioni Unite conferma ancora una volta la correttezza del parere del Dipartimento
della Funzione Pubblica 19.9.2012, n. 37562: “Relativamente al quesito da ultimo citato, occorre precisare che il
superamento di un nuovo concorso pubblico a tempo determinato da parte del
soggetto che ha già avuto un rapporto di lavoro a termine con l’amministrazione
consente di azzerare la durata del
contratto precedente ai fini del computo del limite massimo dei 36 mesi
previsto dal d.lgs. 368/2001, nonché la non applicabilità degli intervalli
temporali in caso di successione di contratti.
Conseguentemente, l’amministrazione può stipulare un contratto di
lavoro a tempo determinato con il soggetto utilmente collocato nella
graduatoria del concorso anche laddove l’interessato abbia già avuto contratti
a termine con la stessa amministrazione, ancorché di durata complessiva
corrispondente ai 36 mesi, e pure nel caso in cui tra i successivi contratti
non sia ancora trascorso l’intervallo temporale previsto dalla disciplina
normativa. Quanto detto, innanzitutto a
garanzia degli articoli 51 e 97 della Costituzione, rispettivamente sul libero
accesso ai pubblici impieghi e sul principio del concorso. In particolar modo,
dall’articolo 51 della Costituzione si desume il divieto di escludere un
candidato, in possesso dei requisiti indicati nel bando, dalla partecipazione
al concorso; maggiormente infondato sarebbe il diniego dell’assunzione del
vincitore utilmente collocato in graduatoria a seguito del superamento del
concorso.
Diverso sarebbe il caso in cui l’Ente intendesse stipulare un nuovo
contratto a termine con il medesimo lavoratore utilizzando la graduatoria già
impiegata per la sottoscrizione del primo contratto. Si tratta, cioè, del caso
in cui il successivo contratto a tempo determinato venisse stipulato sulla base
della medesima graduatoria di concorso.
In detta ipotesi, mancando il presupposto del superamento di un
nuovo concorso, la riassunzione dovrà necessariamente avvenire nel rispetto
degli intervalli di tempo a tal fine previsti dal d.lgs. 368/2001, così come
modificati dalla legge 92/2012”.
La perdita di chance
risarcibile, allora, resta confinata alle ipotesi:
1. di
improprio utilizzo di proroga e rinnovi;
2. di
una serie di concorsi per assunzioni a termine, “contra legem” come ha indicato
la Cassazione, perché non giustificati da esigenze temporanee o eccezionali. Si
deve, tuttavia, ricordare che le esigenze temporanee possono anche essere ricorrenti,
come per il lavoro stagionale o per la necessità di coprire supplenze in corsi
di istruzione o formazione.
L’attenta lettura, allora, delle
indicazioni della Cassazione esclude radicalmente che essa ponga un problema di
risarcimento di tutti gli 80.000 precari pubblici. Caso per caso, occorrerà
stabilire come i contratti siano stati stipulati ed il termine apposto e, in
particolare, quale sia la fonte dell’eventuale successione dei contratti.
Laddove si tratti di concorsi pubblici, la perdita di chance va radicalmente
esclusa, come va esclusa, di conseguenza, la conseguenza del risarcimento dei
danni.
Una bella e condivisibile analisi, quale conseguenza allora per un amministrazione che assuma per 36 mesi con una selezione a termine e successivamente indica nuova selezione a termine proseguendo a precarizzare?
RispondiEliminaCredo personalmente che se in parte la nuova selezione interrompe quella prosecuzione di contratti formalmente, nella sostanza consente il verificarsi di questi abusi di Stato.
Siamo di fronte all' elusione della Norma, sport in cui le amministrazioni sembrano eccellere.
Come giustamente lei evidenzia la causa del contratto che giustificherebbe il ricorso al contratto a termine dovrebbe essere giustificata ed ampiamente motivata ma nella realtà si assiste a semplice indicazioni di vaghe esigenze temporanee, organizzative e produttive che svuotano di contenuto lo stesso limite al ricorso di lavoro temporaneo