Lo slogan vincente per far apprezzare al popolo la riforma della dirigenza è: “i dirigenti saranno licenziabili”.
In un Paese in crisi, nel quale il reddito di tutti perde potere e moltissimi hanno perso il lavoro o lo hanno visto regredire verso forme meno stabili e remunerate, il messaggio con cui si comunica la riforma della dirigenza è certamente succulento e catalizzatore di consensi. Specie se, poi, viene condito da un ulteriore claim: i dirigenti “che non riusciranno ad ottenere un incarico” resteranno a languire nel ruolo unico, perdendo fino al 50% del trattamento economico e giungendo o al licenziamento dopo 6 anni di permanenza nel ruolo senza incarico, o sottoponendosi al demansionamento a funzionario.
Che si tratti di un format comunicazionale molto ben studiato lo comprova la circostanza che il punto sulla licenziabilità e sulla commisurazione dell’abilità dei dirigenti alla loro capacità di riuscire ad ottenere l’incarico, è tenuto con concetti praticamente identici da due quotidiani molto vicini a Palazzo Chigi: Il Sole 24 Ore e il Messaggero. Lo vediamo nella tabella seguente:
Articolo de Il Sole 24 Ore di domenica 7 agosto 2016, titolo “Tagli e pagelle per i dirigenti Pa” | Articolo de Il Messaggero di lunedì 9 agosto 2016, titolo “Dirigenti Pa, niente incarico a chi è a rischio corruzione” |
“ Nel disegno della riforma, infatti, chi non riesce a ottenere l'incarico rimane "parcheggiato" e perde tutta la parte accessoria della retribuzione, quella legata alle responsabilità e ai risultati della sua attività, che da sola vale fra il 45 e il 60% della busta paga nei ministeri e arriva a pesare per oltre il 70% ai vertici degli enti pubblici come Inps, Aci e così via. Non solo, per ogni anno di parcheggio il dirigente si vede tagliare del 10% la retribuzione fissa, cioè quella che gli rimane, e rischia di essere espulso dal sistema ”. | “ Molte altre novità riguardano la retribuzione. Il dirigente che non riuscirà ad ottenere un incarico rimarrà "congelato" e perderà una fetta consistente della parte accessoria dello stipendio, quella legata ai risultati del lavoro che svolge. Non solo, per ogni anno senza incarico sarà ridotta anche la retribuzione fissa, il 10 per cento ogni dodici mesi. Il dirigente, poi, sarà licenziabile. Dopo sei anni senza una collocazione e dopo una valutazione negativa potrà anche essere mandato a casa ”. |
Impossibile non vedere dietro gli articoli un’abilissima guida (per non dire “velina”) degli addetti alla comunicazione governativa, che sono riusciti ad ottenere dai giornali “vicini” un’acritica divulgazione di un messaggio semplificatore della riforma, tale da suscitare consenso nel popolo e, soprattutto, sull’elettorato, vellicato dalla lincenziabilità e dalla possibilità di ridurre fortemente lo stipendio. Chi ha subito, a causa della recessione, simili esperienze, pur non augurandole ad altri, non può che apprezzare riforme capaci di estenderle ad altri, specie se considerati come “politicizzati” e “ipergarantiti”, quali i dipendenti pubblici, specie se dirigenti.
Ovviamente, si tratta di una semplificazione basica, necessaria per far passare un messaggio semplice, percepibile e condivisibile, che, tuttavia, non evidenzia per nulla i reali contenuti tecnici della riforma.
Tuttavia, la divulgazione mediatica dei contenuti della riforma della dirigenza è assai interessante, perché svela, indirettamente, quale sia la reale concezione di “capacità” e “merito” dei dirigenti sottesa alla riforma.
Chi vuol evidenziare gli effetti positivi della riforma, afferma che essa ha lo scopo di rifondare la pubblica amministrazione a partire dalla disciplina dei vertici, in modo da garantire una loro selezione basata sulla competenza, che assicuri la rotazione e la valutazione dei curriculum: quindi, la loro capacità operativa ed i risultati ottenuti.
La riforma, in realtà, non mira a nulla di tutto questo. Ci sarà, è vero, un sistema pubblico per la pubblicazione di avvisi di copertura di incarichi disponibili, ai quali potranno partecipare i dirigenti iscritti nei ruoli unici (per la dirigenza statale, regionale e locale), nell’ambito del quale apposite Commissioni “indipendenti” (ma di nomina politica) esamineranno i curriculum, per “pesare” appunto le capacità dei dirigenti. Ma, la scelta finale del soggetto da incaricare non sarà frutto di una selezione basata su confronto delle capacità in base a prove specifiche e fondata su una graduatoria per punteggi, realizzata da un soggetto autonomo e indipendente dalla politica: le Commissioni si fermeranno alla predisposizione di “rose” di candidati e la scelta finale sarà appannaggio ad esclusivo arbitrio della politica. La quale, a quel punto, essendo le “rose” formate in astratto da dirigenti tutti di equivalente capacità e merito, potrà scegliere ad libitum, ovviamente sulla base di criteri che col “merito” nulla avranno a che vedere, mentre molta influenza avranno “relazioni”, “vicinanze”, “appartenenze”, “l’essere in quota” e le “tessere”.
Indirettamente, gli articoli di stampa citati prima manifestano in modo concreto quale sarà la “capacità” in base alla quale sarà valutata la “nuova” dirigenza: non quelle legata ai risultati ottenuti, non quella connessa al curriculum, non quella legata all’abusato “sapere, saper essere, saper fare”, la capacità di “riuscire ad ottenere l’incarico”.
Ora, la riforma prevede la formazione di un ruolo unico, diviso in tre, dei circa 30.000 dirigenti pubblici, i quali operano in un sistema complessivo nel quale la dotazione organica dei dirigenti risulta caratterizzata ancora da un fabbisogno maggiore dei dirigenti in servizio. Se, dunque, 30.000 saranno inseriti nel ruolo, verosimilmente gli incarichi da assegnare saranno ragionevolmente di più, anche tenendo conto del forte turn-over legato all’elevata età media dei dipendenti pubblici e dei dirigenti in particolare.
La logica, prima ancora che regole di buona organizzazione e corretta gestione delle risorse pubbliche, vorrebbe che in un quadro simile l’ipotesi di dirigenti inseriti in ruoli nei quali i componenti sono in numero inferiore a quelli necessari al fabbisogno, la sacrosanta “licenziabilità”, anche oggi perfettamente esistente e possibile, fosse connessa all’insorgere del giustificato motivo oggettivo o soggettivo, con particolare profondità per il motivo soggettivo, dovendosi dare rilievo ed enfasi particolare alla capacità di conseguire gli obiettivi fissati.
Non è chi non veda l’assoluta irrazionalità di una riforma che disconnette totalmente l’incarico proprio dalla capacità di conseguire gli obiettivi. Infatti, nell’impostazione data dalla legge 124/2016, un dirigente potrà permanere nell’incarico 4 anni, con la possibilità di un rinnovo (che poi è una proroga) per altri 2 anni, laddove abbia ottenuto una valutazione positiva del suo operato. Ma, a partire dal sesto anno, quel dirigente, prorogato proprio perché valutato come “capace”, non potrà proseguire nell’incarico, se non passando mediante il sistema degli avvisi pubblici. Chiunque comprende l’assenza di senso di questo sistema. L’ente presso il quale per sei anni il dirigente ha ben operato non avrebbe alcun interesse – in astratto – a disfarsi di chi ha dimostrato capacità ed acquisito conoscenza “storica” delle specifiche particolarità dell’ente stesso.
In teoria, un dirigente che abbia ben operato, a condizione che superi le verifiche delle “commissioni indipendenti” dovrebbe essere solo riconfermato per altri possibili 4 anni più due.
Sicchè, se le cose andassero così, in un modo che si rivelerebbe razionale e virtuoso, in effetti le procedure pubbliche non servirebbero a nulla, se non a complicare costosamente il sistema, avviando ogni sei anni una procedura complessa di riconferma del dirigente capace.
E’ ovvio, allora, che il sistema dei 4 anni più due ha un solo scopo: consentire sempre e comunque di slegare logica e razionalità da scelte di appartenenza, a vantaggio di uno spoil system totalmente legato ad interessi particolari partitici.
Per quale motivo, infatti, un ente dovrebbe disfarsi dopo quattro anni più due (ricordiamo: il secondo biennio è condizionato ad una valutazione positiva) di un dirigente, per esempio non scegliendolo tra la rosa dei candidati nella quale il “vecchio” dirigente sia stato inserito? Nessuna ragione organizzativa, razionale, logica e tecnica potrebbe supportare un cambio della guardia. Solo ragioni di natura politica.
Dal lato dei dirigenti, il modo con cui è congegnato il sistema di attribuzione degli incarichi, con la preventiva formazione delle rose da parte delle commissioni “indipendenti” e la scelta finale tra le rose lasciata all’assoluto arbitrio, sposta necessariamente il baricentro verso la capacità di “riuscire ad ottenere un incarico”. Un’abilità che, come dimostrato sopra, non sarà legata ai risultati ottenuti, perché se così fosse la riconferma sarebbe un risultato scontato e quasi obbligato.
Il dirigente sarà misurato sulla capacità di “riuscire ad ottenere un incarico”, capacità che non potrà non essere legata ad almeno due requisiti:
1. le “relazioni” intessute con la politica;
2. l’assenza, nel curriculum, di qualsiasi “macchia” da cui ricavare l’indizio che quel dirigente, pur bravo sul piano tecnico ed operativo o, proprio per questo, compia atti di per sé sgraditi alla politica: non a questa o quella maggioranza, ma alla politica in generale.
Per essere più chiari, rispetto al punto 1.: poiché una volta selezionati nelle rose la differenza non la faranno elementi tecnici di valutazione dei dirigenti, ma, appunto, logiche politiche, la riforma sostanzialmente spinge la dirigenza a politicizzarsi o, comunque, ad attivare rapporti negoziali con la politica, che vadano dal girovagare per tessere e correnti, ad accordi di non belligeranza o similari.
Per essere più chiari al punto 2: sarà molto difficile “riuscire ad ottenere l’incarico” per quel dirigente che, adempiendo alla legge, abbia resistito alla pressione indebita, abbia effettuato la denuncia alla Procura della Repubblica o alla Corte dei conti, non abbia modificato il bando di gara come richiesto dall’accolita, abbia gestito le proprie attività senza privilegi particolari per gli aderenti alla maggioranza di turno.
I dirigenti corrono il serio rischio della formazione di un comune “sentire” tra gli organi politici decisionali, volto ad escluderli costantemente dagli incarichi, se non incasellabili politicamente o se noti per una certa qual scrupolosità nella gestione.
Ecco, allora, il perché di un algoritmo impossibile: la previsione, cioè, che nonostante i dirigenti siano in numero inferiore al fabbisogno, qualcuno possa restare senza incarico.
L’intero sistema introduce un’ipotesi di licenziamento connessa, per assurdo, appunto alla capacità di “riuscire ad ottenere l’incarico”: chi non dovesse “riuscire” dovrà languire per anni nel ruolo, senza lavorare con lo stipendio falcidiato e, per altro, erogato per sei anni sostanzialmente senza scopo e titolo.
Ma, la riforma lega la possibilità per i dirigenti di lavorare e svolgere incarichi ad un elemento, il “riuscire ad ottenere l’incarico” totalmente disconnesso da requisiti tecnici e professionali e, comunque, dall’applicazione di principi generali di parità di trattamento ed imparzialità.
Visto l’arbitrio assoluto di cui disporranno gli organi politici nell’esercitare la scelta del dirigente da incaricare, non può individuarsi nessuna capacità valutabile dei dirigenti a “riuscire ad ottenere l’incarico”: non si può, in effetti, essere chiamati a “riuscire” a far qualcosa, se la “riuscita” dipende totalmente da terzi.
Il dirigente “è riusciuto” o “riuscirà” ad entrare nei ruoli, per aver vinto un concorso, nel quale è stato misurato a parità di condizioni con altri, si è confrontato con essi, ha ottenuto un punteggio ed una posizione migliore in una graduatoria; inoltre, potrà ottenere la proroga in virtù di un sistema di misurazione delle proprie capacità operative, sempre confrontandosi non con altri dirigenti, bensì con dati, numeri, obiettivi, strategie ed azioni.
Poiché gli incarichi sono un potere quasi di vita e di morte attribuito dalla riforma alla politica, non v’è alcuna capacità del dirigente di “riuscire ad ottenerli”: sarà tutto frutto di arbitrio, fortemente condizionato dai due fattori visti sopra, distorsivi di una dirigenza al servizio esclusivo della Nazione (come vuole la Costituzione).
Le caratteristiche vere, allora, della riforma non sono né la licenziabilità, né la capacità di riuscire ad ottenere l’incarico, bensì un enorme sistema di pressione politica sulla dirigenza e l’estensione dell’arbitrio dello spoil system, allo scopo di creare una dirigenza non al servizio della Nazione, ma “di partito”, al servizio della maggioranza, pena mancato incarico e distruzione della carriera; ma, anche, degli investimenti in formazione ed aggiornamento che la PA stessa ha compito per forgiare dirigenti, che la legge si dice disponibile a “lasciare a casa” (per utilizzare l’oggettivamente orrenda espressione giornalistica), per ragioni in nulla attinenti a “merito” e “capacità”. Non è questo, ovviamente, quello che serve al rilancio della PA, ai cittadini, alle famiglie, alle imprese ed all’economia. Ma, chi si contenta del claim ha trovato le sue belle soddisfazioni.
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