Dirigenti pubblici a
chiamata
Lo schema di riforma
prevede il licenziamento senza giusta causa.
Una precarizzazione
che col “merito” ha pochissimo a che vedere
Luigi Oliveri
Il decreto legislativo di
riforma della dirigenza pubblica sortisce un evidentissimo risultato: la
precarizzazione totale dei dirigenti pubblici, assoggettati completamente
all’arbitrio della politica.
La riforma, così come impostata,
presenta un passo verso la precarizzazione del lavoro ancora più forte e deciso
di quanto non si sia verificato col Job’s
Act.
Vengono, infatti, sovvertiti
tutti gli ordinari schemi contrattuali e normativi. Il rapporto di lavoro dei
dirigenti viene qualificato a tempo indeterminato, ma, in realtà, i dirigenti
non avranno un unico datore. La riforma, infatti, prevede che l’attività
lavorativa sia regolata dall’iscrizione e permanenza in un albo, nel quale
giacere con lo stipendio base, per un limitato periodo di tempo, senza,
tuttavia, prestare attività lavorativa alle dipendenze di nessuno. Solo se e quando
un’amministrazione pubblica, a seguito di complesse e barocche procedure utili
solo per travestire di selettività una scelta completamente arbitraria della
politica, incaricherà un dirigente, emergerà un contratto di lavoro, che però
potrà avere ordinariamente una durata, un segmento di 4 anni. Al decorso di
questi, il contratto di lavoro, pur “indeterminato” in realtà perde i suoi
effetti: l’amministrazione, infatti, deve risolvere il rapporto di servizio
oltre che quello organico, dovendo necessariamente riattivare il sistema
barocco della procedura “comparativa”, per assegnare l’incarico. Il dirigente
precedentemente incaricato, quindi, si ritrova nuovamente a languire nell’albo,
in attesa di un nuovo incarico. Se questo avverrà nel precedente ente, riprenderà
efficacia il contratto di lavoro; se, invece, l’incarico gli sarà conferito da
un altro ente, il contratto di lavoro quiescente contratto col precedente
datore, sarà ceduto al nuovo datore.
Un sistema, come si nota,
complicato e bizantino, che nella sostanza trasforma dipendenti che si
vorrebbero “della Repubblica”, come molte volte propagandato dal Governo, in free lancer.
L’effetto della riforma è,
dunque, sostanzialmente creare un bacino di personale con qualifica
dirigenziale, lasciando alla politica la possibilità di scegliere se, come,
quando e chi incaricare, senza nemmeno l’obbligo di attingere necessariamente a
quel bacino, in quanto resteranno ampi margini di possibilità di rivolgersi ai
“dirigenti a contratto”.
Il contratto, anche se qualificato
a tempo indeterminato, è sostanzialmente un contratto intermittente, meglio
noto come contratto “a chiamata”. Si tratta del contratto oggi disciplinato
dall’articolo 13, comma 1, del d.lgs 81/2015, ai sensi del quale “il contratto di lavoro intermittente è il
contratto, anche a tempo determinato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro
che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o
intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi […]”.
Come si nota, le assonanze vi sono tutte. Poiché, però, questo tipo di
contratto era stato considerato una tra le forme più evidenti di precariato, il
d.lgs 81/2015 ne ha limitato l’impiego (articolo 13, comma 2), ai soli “soggetti con meno di 24 anni di età, purché
le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più
di 55 anni”.
La riforma della dirigenza,
nella sostanza, estende questo meccanismo a tutti i dirigenti pubblici, che,
appunto, nell’ambito dei ruoli unici restano “a disposizione” dei datori di
lavoro pubblici. Il trattamento economico fondamentale, privo quindi di
retribuzione di posizione e risultato (a seconda dei comparti, dunque,
inferiore tra il 40% e il 70% alla retribuzione del dirigente con incarico),
finisce per essere assimilato all’indennità di disponibilità, regolata
dall’articolo 16 del d.lgs 81/2015 per il contratto intermittente.
Insomma, la riforma crea,
quindi, la categoria dei dirigenti squillo a chiamata. Pronti, dunque, a
rispondere alla chiamata in particolare del politico di turno al quale
vincolarsi, per avere l’incarico che consentirà loro di proseguire l’attività
lavorativa, evitare il licenziamento ed avere anche un trattamento economico
non falcidiato.
Un sistema raffinato, ma
scoperto, di precarizzazione assoluta della dirigenza, che si vuol soggiogare
completamente alla politica, spingendola necessariamente ad abbracciare in modo
esplicito idee, acquisendo tessere ma, soprattutto, benemerenze. Come? Ma è
chiaro: non interferendo, coprendo le responsabilità, interpretando le norme
per gli amici ed applicandole ai nemici, svolgendo funzioni attiviste.
Il tutto, ovviamente, in
contrasto assoluto e totale con l’articolo 98, comma 1, della Costituzione, ai
sensi del quale i dipendenti pubblici dovrebbero essere a servizio esclusivo
della Nazione e non della forza o dell’esponente politico di volta in volta in
sella.
L’ingegnosa opera di
asservimento della dirigenza alla politica viene completata da un altro
puntello: l’assoluta inutilità della valutazione ai fini della riconferma degli
incarichi.
Da che mondo e mondo, il primo
incentivo del lavoratore consiste nel far bene agli occhi del datore, in modo,
così, da ottenere non solo gli eventuali premi connessi, ma soprattutto la riconferma
nella fiducia tecnica al lavoro prestato, necessaria ai fini della prosecuzione
dell’attività lavorativa.
Invece, la riforma introduce il
licenziamento senza causa; all’opposto del licenziamento per scarso rendimento,
si disciplina come fosse una cosa del tutto normale e razionale il
licenziamento (o, comunque, la scadenza dell’incarico, che comunque spinge nel
limbo della messa “a disposizione” dei ruoli a stipendio falcidiato) per
“ottimo rendimento”. Infatti, anche laddove il dirigente nel corso del
quadriennio ordinario del suo incarico abbia ottenuto valutazioni positive, in
ogni caso il suo incarico deve scadere. Il datore di lavoro può avvalersi,
certo, della facoltà (si ribadisce: facoltà) di rinnovare (rectius prorogare) di 2 anni l’incarico precedente, dopo di che,
comunque, nulla da fare: “squadra che vince, si deve cambiare”, a prescindere
dall’esito della valutazione positiva, come del resto suggerisce il Piano
Nazionale Anticorruzione recentemente aggiornato dall’Anac, a conferma di una
progressiva radicalizzazione del concetto di rotazione degli incarichi e delle
parole spese a vuoto su “merito” e “valutazione”. Che, come si dimostra, non
servono a nulla.
Pardon. Il tutto, invece, serve.
Nel sistema attuale, la valutazione positiva del dirigente non consente al
politico di turno di modificare o revocare l’incarico, meno che meno di
licenziarlo. Allo scopo, occorrerebbe una profondissima motivazione e
l’attuazione seria di un sistema di verifica e controllo dell’operato della
dirigenza.
E’ noto, per carità, che in
moltissime pubbliche amministrazioni, specie ministeri, regioni ed enti locali
di grandi dimensioni, i sistemi di fissazione degli obiettivi e di misurazione
dei risultati siano un colossale bluff: tante tabelle, “analisi di contesto”,
parole, aggettivi, ma pochissimi obiettivi chiari e misurabili. Domani, con la
riforma, vi sarà molta minore necessità di far evolvere i sistemi di
valutazione verso qualcosa di realmente serio. Oggi, se detti sistemi fossero
davvero utili ed efficaci, potrebbero consentire di evidenziare le motivazioni
per la mancata conferma o il licenziamento dei dirigenti incapaci. Ma, come è
noto, casi di questo genere sono come la mosca bianca. Perché tutti i dirigenti
sono bravissimi, come irride spesso la stampa generalista nelle inchieste da
bar dello sport, quelle nelle quali si afferma sempre che “l’è tutto sbagliato,
l’è tutto da rifare”, per avere audicence,
applausi e far scaturire un altro “giro”? No. Perché alla politica, ed ad essa
anche all’apparato di capi di gabinetto, segretari generali, direttori
generali, consulenti vari addetti appunto alla formazione e presidio delle
direttive, dà moltissima noia verificare davvero il raggiungimento degli
obiettivi e misurare, quindi, con dati concreti il proprio operato.
La politica si sublima nella
“nomina” e nella “revoca”, basate sulla “fiducia”, come massimo atto di potere.
E non vuole limiti, controlli, strumenti oggettivi.
La riforma mette su un piatto
d’argento la realizzazione di questa vocazione. Gli incarichi ai dirigenti
apparentemente saranno frutto di una “selezione” prodotta da Commissioni
immancabilmente “indipendenti”, ma poi sempre nominate dalla politica, mentre,
in realtà, a scegliere il dirigente, senza nemmeno dover motivare, sarà il
ministro, sindaco o presidente della regione tra una rosa di candidati
suggerita dalla Commissione, nella quale, se ne può essere certi, non sarà mai
assente il dirigente “amico” che si voleva proprio incaricare.
Soprattutto, però, consentirà al
nuovo ministro, sindaco, presidente di regione, di fare a meno del dirigente il
cui incarico andrà a scadenza, senza nemmeno doversi scomodare ad individuare
ragioni specifiche, senza, appunto, dover utilizzare la valutazione o
l’evidenziazione di un giustificato motivo soggettivo o di una giusta causa per
chiudere il rapporto. Basterà solo attendere la scadenza dell’incarico e anche
se il dirigente abbia ottenuto ottime valutazioni, lo potrà salutare: “mi spiace, il Suo incarico è scaduto. Sa, io
non La conosco bene, ho necessità di riporre fiducia in dirigenti capaci, che
però condividano apertamente il mio disegno politico. Quindi, anche se Lei ha
ben operato, non intendo proseguire il rapporto. Ma, comunque, bravo, eh? Sono
certo che lavorerà proficuamente con altri e che la sua carriera sarà luminosa”.
Dialogo surreale, di una riforma
che prevede, a ben vedere, effetti a sua volta totalmente surreali.
Questi sono, ovviamente, gli
elementi di maggior spicco, nello scenario di una riforma che con efficienza,
merito e valutazione non ha davvero nulla a che vedere. Ma, ve ne sono molti
altri.
Corso concorso. Il sistema di assunzione dei dirigenti pubblici
tramite corso-concorso appare davvero al di là del limite del razionale. Lo
schema di d.lgs dispone che superato il corso-concorso i vincitori “sono
immessi in servizio come funzionari,
per un periodo di tre anni, presso le amministrazioni per le quali sono stati
banditi i posti, tenuto conto dell'ordine di graduatoria: l'amministrazione
presso la quale il vincitore presta servizio può ridurre il suddetto periodo fino
a un anno, in relazione all'esperienza lavorativa maturata nel settore pubblico
o a esperienze all'estero, secondo, le previsioni del Regolamento di cui
all'articolo 28-sexies. Ai vincitori
sono attribuiti incarichi dirigenziali temporanei, per una durata non superiore
al suddetto periodo.
Dunque:
1. i
vincitori del corso-concorso per dirigenti, non sono assunti come dirigenti, ma
come funzionari;
2. sono
immessi in servizio presso l’ente che ha manifestato un fabbisogno di
dirigenti, appunto come funzionari;
3. il
periodo di assunzione è di tre anni, riducibile a uno;
4. comunque,
pur essendo assunti come funzionari, e non ancora iscritti nel ruolo unico
dirigenziale, possono ricevere un incarico dirigenziale.
La norma si commenta da sé.
Commissioni “indipendenti”. Il sistema degli incarichi, volto a
mascherare, come già detto, una scelta totalmente arbitraria della politica con
una procedura pubblica “selettiva”, si regge su commissioni nazionali, che
avranno il compito di fissare i criteri di valutazione ed applicarli per
definire le “rose” di tre dirigenti da “offrire” agli organi politici, in esito
all’apertura delle procedure per individuare i dirigenti da incaricare.
La legge 124/2015 afferma che
deve trattarsi di commissioni “indipendenti”. Chi scrive non ci ha mai creduto.
Lo schema di decreto legislativo conferma pienamente questo scetticismo.
Infatti, si prevede che la commissione per il ruolo unico nazionale dei
dirigenti statale sia compostao da sette membri, dei quali sono permanenti:
1. il
Presidente dell' Anac
2. il Ragioniere generale dello Stato,
3. il
Segretario generale del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale;
4. il
Capo Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero
dell'interno,
5. il
Presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane.
Si tratta, come è facile notare, di soggetti tutti direttamente incaricati dalla politica.
Si tratta, come è facile notare, di soggetti tutti direttamente incaricati dalla politica.
Gli altri due componenti saranno
scelti tra persone “di notoria indipendenza”, con particolare qualificazione
professionale ed esperienza in materia di organizzazione amministrativa, gestione
delle risorse umane e finanziarie, contabilità, economia aziendale e management
nel settore pubblico o privato, e nominati con decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri,
sentite le competenti Commissioni parlamentari.
Anche in questo caso, la nomina
sarà integralmente politica. E già i vari consulenti che hanno collaborato
negli anni alle varie riforme “epocali”, tutte inutili, della PA, si fregano le
mani, consapevoli di essere in pole
position per gli ambiti incarichi.
Le commissioni, infatti,
diverranno lo “snodo” per la negoziazione degli incarichi. Ciascun sindaco,
presidente di regione, ministro, per poter contare sulla possibilità di
incaricare il dirigente di propria fiducia, dovrà agire sulle commissioni per
far sì che selezionino nella “rosa” dei dirigenti da incaricare esattamente il
soggetto “di fiducia”. Si possono già immaginare i contatti, le trattative, gli
scambi, tra sindaco, referente del partito, referente del componente della
commissione, per l’indicazione del nominativo da inserire nella terna. Ottenuto
questo risultato, il gioco sarà fatto: il politico sceglierà liberamente nella
terna il soggetto che meglio gli piaccia, senza nemmeno doversi sobbarcarsi il
peso di spiegare perché.
Si intuisce, quindi, quale peso
abbiano le commissioni e quale ruolo totalmente politico, di negoziazione e
scambio, possiedano, tale da escludere in radice, al di là della composizione,
che possano agire in modo “indipendente”.
Non di minore estrazioni
politiche saranno le commissioni addette ai ruoli dei dirigenti regionali e
locali.
Incarichi a contratto. Sebbene i ruoli siano quel “parcheggio di
disponibilità” per il lavoro intermittente dei dirigenti squillo di
ruolo, rimarrà la possibilità per la politica di continuare a cooptare
dirigenti “a contratto” di fiducia.
Lo schema di decreto legislativo
riproduce quasi integralmente l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001. Ma con
due importanti modifiche:
1) non
occorrerà più la preventiva ricognizione dell’assenza di professionalità;
2) non
sarà necessario motivare il ricorso a soggetti non inseriti nei ruoli della
dirigenza.
In particolare, la prima
modifica è fondamentale. Nei ruoli confluiranno tra i 36.000 ed i 40.000
dirigenti pubblici: difficile se non impossibile dimostrare che non esistano le
competenze necessarie. Dunque, la riforma apre totalmente all’arbitrio: i
politici potranno incaricare soggetti esterni senza alcuna motivazione, dovendo
solo assoggettarsi a limiti percentuali dell’8% per i dirigenti generali, 10%
per gli altri dirigenti, percentuale che sale fino all’assurdo 30% della
dirigenza locale. Ma si sa perfettamente che nessuno controllerà l’effettivo
rispetto di questi limiti, che, per altro, non è nemmeno sanzionato.
Un’arma di pressione ulteriore e
perfetta per assoggettare i dirigenti di ruolo, la cui vita lavorativa non solo
è messa a rischio dalla precarizzazione descritta prima, ma anche dalla
circostanza che una significativa percentuale degli incarichi teoricamente
disponibili sarà comunque loro sottratta, per essere ancor più facilmente
attribuita agli uomini “di fiducia” della politica.
Procedura per gli incarichi: la grande “ammuina”. Fare “ammuina”
significa far confusione, lasciar credere che si stia facendo un gran lavoro
produttivo, mentre, in realtà, ci si muove a casaccio, senza concludere nulla.
Il ruolo delle commissioni nell’assegnazione
degli incarichi dirigenziali altro non è se non questo: un grande polverone,
per destare l’impressione che gli incarichi saranno conferiti in base a chissà
quali raffinate attività di selezione e scelta, degli “indipendenti” e “qualificatissimi”
componenti.
La realtà sarà tutt’altra, molto
vicina a quella che abbiamo sintetizzato sopra: una “stanza di compensazione”
ove negoziare i componenti delle rose.
I cantori e magnificatori della “riforma
epocale” affermano che la nuova procedura di incarico consente di valorizzare
il merito e le capacità, addirittura rendendo i dirigenti maggiormente
autonomi. Su Il Messaggero del 27 agosto, nel pezzo di A. Bassi “Statali, il
10% riceverà un premio extra” si legge uno stralcio della relazione di
accompagnamento allo schema di decreto: “l’intento
delle nuove norme è anche quello di dotare il sistema della dirigenza pubblica
di maggiore trasparenza, per evitare i pericoli di prevaricazione politica
nelle procedure di conferimento degli incarichi dirigenziali, garantendo nel
contempo un’effettiva attuazione degli indirizzi politici”.
Poco freno all’ipocrisia, come
si nota. Anche se il testo dello schema di decreto, invece, appare molto più
sincero. Sebbene la stampa generalista, che fa da eco alle relazioni ed ai
commenti propagandistici del Governo, affermi che il nuovo sistema è
finalizzato a predisporre “procedure selettive”, il testo della norma è molto
diverso. Non parla per nulla di procedure “selettive”. Ed è logico: la “selezione”
i dirigenti l’hanno già fatta e superata al momento del concorso.
Per questo, in un anelito di schiettezza,
il testo qualifica il tutto come “procedure comparative”. Nelle quali, quindi,
non si seleziona proprio un bel nulla. Le commissioni saranno pienamente libere
di scegliere tra i candidati che risponderanno agli avvisi pubblici una terna
di dirigenti (nel caso di dirigenti generali) o una cinquina (il testo appare
confuso: pare che possano essere 5 i candidati nel caso di incarichi
dirigenziali non generali). Punto. Ma, non è un organo “indipendente” ad
assegnare l’incarico, come ci si sarebbe aspettati in un sistema nel quale in
attuazione del principio di separazione tra politica e gestione discendente
dagli articoli 97 e 98 della Costituzione, oltre 25 anni fa si decise di
estromettere politici e sindacalisti dalle commissioni di concorso. I politici
riacquistano tutto lo spazio, ed anche di più, perso e diventano arbitri
assoluti delle scelte: potranno “pescare” dalle rose formate dalle commissioni
chi vorranno, senza motivare.
Per questo, come rilevato sopra,
tutta l’attenzione si sposterà solo su come far includere nelle rose le persone
di interesse. Il resto sarà, appunto, solo “ammuina”.
Mobilità e dirigenti senza incarico. Per chi voglia credere che
davvero la riforma abbia l’obiettivo e intenda cogliere il risultato di creare
un “mercato della dirigenza pubblica”, finalizzato ad agevolare la rotazione e
lo scambio di esperienze, deve sapere che questo è già possibile nell’attuale
ordinamento.
Infatti, l’articolo 23-bis,
comma 2, del d.lgs 165/2001 dispone: “è
assicurata la mobilità dei dirigenti, nei limiti dei posti disponibili, in base
all’articolo 30 del presente decreto. I contratti o accordi collettivi
nazionali disciplinano, secondo il criterio
della continuità dei rapporti e privilegiando la libera scelta del dirigente, gli effetti connessi ai
trasferimenti e alla mobilità in generale in ordine al mantenimento del
rapporto assicurativo con l'ente di previdenza, al trattamento di fine rapporto
e allo stato giuridico legato all'anzianità di servizio e al fondo di
previdenza complementare. La Presidenza del Consiglio dei ministri -
Dipartimento della funzione pubblica cura una banca dati informatica contenente
i dati relativi ai ruoli delle amministrazioni dello Stato”.
Dunque, il sistema già consente
la libera circolazione dei dirigenti. Ovviamente, la norma in questione viene
abolita, per essere sostituita dalla scriteriata riforma. C’è un perché e sta
nelle parole che abbiamo enfatizzato in grassetto:
a. la
continuità dell’azione amministrativa;
b. la
libera scelta dei dirigenti.
L’intero sistema previsto dalla
riforma si pone in assoluto ed insanabile contrasto col principio di continuità
dell’azione amministrativa, creando un immenso spoil system, in aperta sfida agli insegnamenti della Corte
costituzionale derivanti dalla giurisprudenza formatasi a partire dalle
sentenze 103 e 104 del 2007, che hanno evidenziato l’incostituzionalità dello spoil system e analoghi strumenti di
decadenza automatica degli incarichi, sia per l’effetto di precarizzare la
dirigenza privandola dell’autonomia necessitata dalla Costituzione, sia per la
negazione della necessaria ed utile continuità amministrativa.
Ovviamente, l’impostazione della
riforma così inconciliabile con i principi costituzionali non può che eliminare
qualsiasi scelta “libera” dei dirigenti. Se la scelta fosse libera, non vi
sarebbe lo stato di soggezione che, invece, viene prodotto dalla riforma.
E gli strumenti della mobilità e
della disciplina dell’assenza degli incarichi attestano in modo chiarissimo
come i dirigenti vengono assoggettati e privati di qualsiasi autonomia
operativa.
Come noto, gli incarichi durano
al massimo 4 anni, eventualmente solo prorogabili di 2. Dopo di che, i
dirigenti ricevono il benservito e debbono andare a disposizione del ruolo, con
lo stipendio più che dimezzato.
L’analisi della procedura degli
incarichi svolta prima evidenzia che i dirigenti nulla possono concretamente
fare per ricevere un nuovo incarico. I giornali parlano della loro “capacità di
ottenere” il nuovo incarico. Ma si “ottiene” qualcosa, solo in esito ad un’attività
svolta a tale fine. La procedura “comparativa” priva del tutto – a differenza
di un concorso o di un sistema selettivo – i dirigenti della possibilità di
agire attivamente per “ottenere” l’incarico. Sono, dunque, in totale balìa
delle commissioni e degli organi di governo che scelgono attingendo alle rose.
In caso di decadenza dall’incarico
e di privazione del lavoro, che può portare anche alla risoluzione addirittura
del rapporto di lavoro, legato semplicemente ad eventi automatici, la scadenza
del termine dell’incarico, e del tutto casuali: le decisioni delle commissioni
e degli organi politici. Dove stiano selettività e merito qualcuno dovrà
spiegarlo.
Dunque, scaduto l’incarico, il
dirigente resta iscritto nel relativo ruolo ritrovandosi però in disponibilità
fino al conferimento di un nuovo incarico dirigenziale.
Cosa accade ai dirigenti privi
di incarico? Una serie di conseguenze che accentuano la condizione di precarietà
creata dalla riforma:
1. la
falcidia al trattamento economico: viene erogato, a carico dell'ultima amministrazione
che ha conferito l'incarico, per il primo anno il trattamento economico
fondamentale. Nell’anno successivo, le parti fisse o i valori minimi di
retribuzione di posizione, eventualmente riconosciuti nell'ambito del
trattamento fondamentale, sono ridotti di un terzo del loro ammontare.
2. hanno
l'obbligo di partecipare, nel corso di ciascun anno di permanenza a nulla fare
nel ruolo, ad almeno cinque procedure comparative di avviso pubblico, per le
quali abbiano i requisiti. Ma nel caso dei dirigenti è evidente che non si
applica il criterio territoriale della mobilità nel limite dei 50 chilometri
dalla sede di lavoro. La norma è scritta in modo tale che il dirigente che
lavora in Calabria deve partecipare alle 5 procedure comparative, anche se
queste si svolgano in Piemonte;
3. in
ogni caso, stabilisce la norma, il dirigente privo di incarico è tenuto ad
assicurare “la presenza in servizio”. Ma, sarebbe bello sapere: dove? Presso l’ente
dove si è conclusa la durata dell’incarico? E a fare cosa? La norma precisa sul
punto, che rimane a disposizione dell'amministrazione (si immagina quella per
la quale ha lavorato e ove l’incarico è giunto a scadenza) per lo svolgimento
di mansioni di livello dirigenziale. Ma, in questo caso, allora, pur essendo “in
disponibilità” gli viene riconosciuto lo stipendio connesso alla posizione ed
ai risultati legati alle mansioni che gli sono richieste? Ma, non era più
razionale prevedere che le amministrazioni confermassero periodicamente gli
incarichi, avviando i dirigenti in disponibilità solo nel caso di giustificato
motivo soggettivo o oggettivo?
4. possono,
in qualsiasi momento, formulare istanza di ricollocazione in qualifiche non
dirigenziali, in deroga all’articolo 2103 del codice civile, nei ruoli delle
pubbliche amministrazioni. In questo caso, sono assegnati d’ufficio dalla
Funzione Pubblica alle amministrazioni secondo le previsioni dell’articolo 4,
comma 3quinquies, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito dalla
legge 30 ottobre 2013, n. 125. Ma, se esiste un sistema di ricollocazione d’ufficio
come dirigenti – come vedremo tra poco – a che serve prevedere l’umiliazione
del demansionamento, che, per altro, per i dirigenti sarà definitivo, a
differenza degli altri dipendenti, per i quali il d.lgs 165/2001 lo contempla
già, ma solo in via temporanea con possibilità di tornare alla categoria di iscrizione?
Il testo dello schema di decreto
in modo molto confuso cerca – opportunamente – di distinguere, comunque, la
posizione dei dirigenti rimasti privi di incarico per semplice scadenza, da
quella dei dirigenti cui sia stato revocato per mancato raggiungimento degli
obietitvi.
Si prevede, allora, che per i
soli dirigenti dello Stato in disponibilità privi di incarico decorso un anno
dal collocamento in disponibilità nel Ruolo, le amministrazioni statali possono
conferire direttamente incarichi dirigenziali per i quali essi abbiano i
requisiti, senza espletare la procedura comparativa di avviso pubblico, laddove
ricorrano le condizioni, stabilite in via generale dalla relativa Commissione
di cui all'articolo 19.
La stessa norma, pochi commi
dopo, afferma che decorsi due anni dal collocamento in disponibilità nel Ruolo
(si tratta dei ruoli della dirigenza regionale e locale? E perché la
discriminazione tra dirigenti statali e gli altri?), il Dipartimento della
Funzione pubblica provvede a collocare i dirigenti privi di incarico, ove ne
abbiano i requisiti, presso le amministrazioni dove vi siano posti disponibili.
Un salvataggio d’ufficio dalla sinecura. Le amministrazioni che si vedranno
paracadutati i dirigenti in disponibilità (con un meccanismo che i comuni hanno
conosciuto in relazione ai segretari comunali) conferiranno a detti dirigenti
un incarico dirigenziale, senza espletare la procedura comparativa di avviso
pubblico, secondo i criteri stabiliti in via generale dalla relativa Commissione.
In questo caso, però, laddove il
dirigente rifiuti l'attribuzione dell'incarico decade dal Ruolo. Ancora una
volta, si nota che manca qualsiasi limite territoriale alla ricollocazione d’ufficio
della Funzione Pubblica. Dunque, rimane sempre aperta la possibilità della
transumanza forzata del dirigente privo di incarico dalla Lombardia alla Puglia
e viceversa.
Revoca. Nel caso di dirigenti che finiscono in disponibilità non
per scadenza naturale dell’incarico, bensì per revoca, si prevede la
conseguenza della decadenza dal relativo Ruolo della dirigenza, con effetto di
licenziamento, decorso un anno senza che abbiano ottenuto un nuovo incarico.
Tale termine è sospeso in caso
di aspettativa per assumere incarichi in altre amministrazioni, ovvero in
società partecipate, o per svolgere attività lavorativa nel settore privato.
In questo modo, come si nota, il
testo del decreto intende operare quella differenziazione tra dirigenti che
scadono per mero fatto, da quelli revocati per responsabilità dirigenziale.
A tale proposito, la riforma
modifica in modo piuttosto pesante l’articolo 21 del d.lgs 165/2001,
introducendo le seguenti ulteriori cause di mancato raggiungimento degli
obiettivi, da cui possono discendere appunto provvedimenti di revoca: la
valutazione negativa della struttura di appartenenza, riscontrabile anche da
rilevazioni esterne; la reiterata omogeneità delle valutazioni del proprio
personale, a fronte di valutazione negativa o comunque non positiva della
performance organizzativa della struttura, e in particolare il mancato rispetto
della percentuale del personale prevista dalla legge, o della diversa
percentuale oggetto di negoziazione, cui attribuire indennità premiali, secondo
le indicazioni dei contratti collettivi di lavoro; il riscontrato mancato
controllo sulle presenze, e sul contributo qualitativo dell’attività lavorativa
di ciascun dipendente; la mancata rimozione di fattori causali di illecito; il
mancato rispetto delle norme sulla trasparenza, che abbiano determinato un
giudizio negativo dell'utenza sull'operato della pubblica amministrazione e
sull'accessibilità ai relativi servizi; il mancato rispetto dei tempi nella
programmazione e nella verifica dei risultati imputabile alla dirigenza.
Mandarini. Sergio Rizzo è uno tra i più sperticati fautori della
riforma, che, a suo dire, serve per dare finalmente una raddrizzata ai “mandarini”
di Stato, eliminando i loro privilegi. Sarà davvero così?
La risposta è, ovviamente, no.
Se da un lato la riforma elimina la distinzione (esistente, comunque, solo
nelle amministrazioni statali) tra dirigenti di prima e seconda fascia, e costringe
anche ai dirigenti di prima fascia a “mettersi sul mercato”, a ben vedere l’esito
finale è quello di incrementare il potere dei “mandarini” e di creare tanti
dirigenti “più uguali degli altri”. Vedere per credere:
1. l’eliminazione
della prima fascia sarà graduale. Fino al suo esaurimento, gli incarichi di
funzione dirigenziale di livello generale saranno conferiti almeno per il 30% (“almeno”,
non “fino al”…), del numero complessivo di posizioni dirigenziali di livello
generale previste nell’amministrazione che conferisce l’incarico, ai dirigenti
di prima fascia appartenenti ai ruoli della amministrazione alla data di
entrata in vigore del. Dunque, i dirigenti di prima fascia, tra i quali si
annidano gli odiati “mandarini” per almeno un 30% possono stare tranquilli.
Anzi, tra mandarini si creano due fasce: i privilegiati, i supermandarini che
restano al loro posto, e gli altri che dovranno “sudarlo”;
2. i
veri “mandarini”, i dirigenti di staff della politica, come i capi di
gabinetto, quelli che vengono da sempre incaricati in via fiduciaria e
spessissimo reperiti tra magistrati di ogni categoria che fanno a sportellate
per ottenere questi incarichi molto politici e poco tecnici, restano del tutto
fuori dal “mercato dei dirigenti”. La riforma, infatti, semplicemente esclude
dal suo campo di applicazione, nel caso delle amministrazioni statali, gli incarichi
di segretario generale dei ministri e dei ministeri, quelli di direzione di
strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali, quelli di
livello equivalente, e quelli conferiti presso gli uffici di diretta
collaborazione di cui all’articolo 14 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165. Cioè, il gotha dei mandarini non viene nemmeno sfiorato dalla riforma. Con
buona pace di Sergio Rizzo, che, comunque, continuerà certamente ad incensare
il decreto;
3. i
“dirigenti apicali”, che negli enti locali si sostituiranno ai segretari
comunali, consentendo – finalmente – ai sindaci di circondarsi di propri
accoliti sostenitori, cessano dall’incarico se non rinnovato entro novanta giorni
dalla data di insediamento degli organi esecutivi. Questo significa, quindi,
che a differenza degli altri dirigenti, per il “dirigente apicale” sarò
possibile non solo una durata dell’incarico superiore ai 4 anni, perché uguale
a quella del mandato elettorale, ma il rinnovo continuo, senza passare dall’ammuina
del processo comparativo.
Insomma, come si nota, la
riforma non tocca nessun privilegio, ma al contrario aumenta la distanza tra la
dirigenza di estremo vertice, quella da sempre di fortissima estrazione
politica (nella quale albergano gli Odevaine e Incalza, per capirsi), dal resto
della dirigenza.
La bufala dello stipendio. Naturalmente, altro “strillo” per
incensare la riforma è affermare che il trattamento economico viene profondamente
modificato, perché almeno il 50% dovrà essere legato al merito.
A scrivere in modo tra lo
stupito ed il compiaciuto, sono quegli stessi giornali che da giorni scrivono
con grande soddisfazione che i dirigenti senza incarico, poiché si pagherà loro
solo lo stipendio tabellare, subiranno un taglio al trattamento economico tra
il 40% e il 70%. Non si rendono, dunque, conto, questi raffinati analisti che
la “riforma” del trattamento economico in realtà nella sostanza non cambia per
nulla le cose, che nella gran parte dei casi stanno già come la “riforma”
prevede che stiano.
Agenzia. Ah. Visto che c’erano gli estensori costituiscono l’ennesima
Agenzia, nella quale verrà trasformata la Scuola nazionale della pubblica
amministrazione. Perché ad un’autohority o a ad un’agenzia, dai, non si può
proprio rinunciare.
Si tenga anche conto che un dipendente politicizzato, usciere o archivista che sia, avrà nelle sue mani il destino del proprio dirigente. Senza voler esagerare, qui si tratta di manovra di regime perchè come ai tempi del fascio, senza tessera non si potrà lavorare. Ma per non essere ipocriti a questo punto meglio giurare fedeltà al Presidente del Consiglio o al Sindaco di turno, chiunque esso sia, Ciancimino o Craxi o Odevaine o Renzi o Berlusconi o Grillo o Gasparri o magari Cicciolina, che alla Repubblica o allo Stato.
RispondiEliminaOperazione spaventosa.
RispondiEliminaCOMUNICATO STAMPA ALLIEVISNA
RispondiEliminaRiforma PA: Dirigenza, un pasticcio che non premia i migliori
e aumenta la dipendenza dalla politica
Gli AllieviSNA aspettano un confronto con il Governo
per valutare le criticità del decreto
Roma, 30 agosto 2016 - Se l'obiettivo era avere una Pubblica Amministrazione più agile, efficiente e capace, il risultato del Decreto sembra andare nella direzione opposta: dirigenti sempre più in balia della politica, perché le valutazioni non assicurano il posto e non sono l'unico criterio di scelta (non basta essere bravi), commissioni di valutazione a esclusiva nomina governativa, con tanti saluti all'imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Costituzione), nuove “criptiche” e fantasiose definizioni di responsabilità e mancato raggiungimento degli obiettivi, che prescindono da ogni oggettività e misurabilità, una Scuola Nazionale dell’Amministrazione che rischia di vedere fortemente svilire il proprio ruolo a beneficio di soggetti esterni.
L'associazione AllieviSNA auspica a breve un confronto con il Governo e con le Commissioni parlamentari, per discutere le forti criticità emerse dal decreto sulla riforma della dirigenza pubblica.
Le premesse sembravano infatti ottime, con la reintroduzione del ruolo unico e la conseguente creazione di nuove possibilità di crescita e sviluppo professionale all’interno di un “mercato” nel quale mettere in gioco le proprie competenze (l’uomo giusto al posto giusto, senza steccati fra Amministrazioni e rendite di posizione); il potenziamento delle procedure di valutazione, l’omogeneizzazione delle retribuzioni, oggi ancora troppo diversificate tra le pubbliche amministrazioni e non giustificate da diversi contenuti delle prestazioni lavorative e professionali. Tutti elementi sui quali l’Associazione AllieviSNA si era già più volte espressa positivamente in passato.
“Qui non si tratta di fare una difesa corporativa di posizioni acquisite, visto che, tra l’altro, i dirigenti sono già licenziabili, non hanno scatti d'anzianità e i loro incarichi sono già a tempo – spiega Luca Cellesi, presidente di AllieviSNA -, ma di salvaguardare l'interesse pubblico indipendentemente da chi si trova al governo, di osservare la norma senza piegarla a interessi di parte, di premiare il merito e non il servilismo. Se le migliori teste in Italia pronte a servire lo Stato sono selezionate da enti privati, scelte da politici, valutate da commissioni politiche e confermate solo se conformi ai desiderata governativi, ditemi che guadagno in efficienza, trasparenza e indipendenza potremo mai averne”.
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