Sui giornali del 29 settembre
campeggia la notizia secondo la quale il ragioniere generale del comune di Roma
avrebbe “rimesso il mandato” al sindaco Raggi, perché da tempo, a causa dell’assenza
dell’assessore al bilancio, non riceve indirizzi politici.
Ecco come l’Ansa riporta la
notizia: “ANSA) - ROMA, 29 SET - "Ho
evidenziato delle criticità mettendo a disposizione della sindaca l'incarico, le persone serie fanno
così". Questo ha detto il ragioniere generale del Campidoglio Stefano
Fermante sentito dal capogruppo della Lista Marchini Alessandro ONorato.
"Fermante è una persona seria. In Campidoglio manca da tempo un assessore
al bilancio e tutte le responsabilità ricadono su di lui. Il ragioniere
generale ha segnalato alla sindaca dei problemi, se non saranno risolti si dimetterà", ha aggiunto Onorato”.
Ecco, invece, cosa si legge sul
sito de La Repubblica: “Il Campidoglio
perde un altro pezzo. Il ragioniere generale Stefano Fermante ha rimesso il mandato nelle mani della
sindaca. Allegando una relazione di 20 pagine che restituisce la foto di una
città sull'orlo del default”.
Ora, “rimettere il mandato” e “mettere
a disposizione l’incarico” non sono frasi aventi identico significati, ma
espressioni completamente diverse: la prima del tutto priva di fondamento tecnico-giuridico,
la seconda no. Vediamo il perché.
Rimette il mandato chi abbia
ricevuto un mandato. E’ proprio di chi riceva un incarico, generalmente
politico o, comunque, di governo o amministrazione (i raffinati innamorati
degli inglesismi direbbero governance)di
enti e persone giuridiche, che non implicano la costituzione di un rapporto di
lavoro. Infatti, il lavoro subordinato non è un contratto di mandato. Il “mandato”
in termini generali può andare bene invece per designare poteri di
rappresentanza, appunto, di un organo di governo (sindaco, consigliere
regionale, parlamentare), o di un vertice di un ente o società (presidente,
consigliere di amministrazione, amministratore delegato, eccetera).
Se i media descrivono l’azione
del ragioniere generale del comune di Roma come una rimessione “del mandato” al
sindaco, fanno un pessimo servizio di informazione, travisando totalmente la realtà
fattuale e giuridica.
I dirigenti pubblici non sono
titolari di un rapporto di mandato, perché sono lavoratori subordinati dell’amministrazione,
titolari, quindi, di un rapporto di lavoro.
I giornali da tempo, ormai,
profondono a piene mani negli inconsapevoli lettori, la gran parte dei quali
non conosce diritto amministrativo ed organizzazione pubblica, la convinzione
che i dirigenti siano in sostanza essenzialmente persone “di fiducia” della
politica, anzi un tutt’uno con la politica, cooptati dalla politica in
relazione alla tessera che possiedono nel portafoglio e connessi alla politica
da un vincolo di mandato (appunto), tale che la durata del loro incarico
coincida con il mandato elettorale.
Insomma, la stampa tende a
generalizzare il fenomeno dello spoil system e della politicizzazione della
dirigenza, come sistema organizzativo generale, sì da giungere a considerare
possibile che un dirigente comunale possa, appunto, “rimettere il mandato”.
Le cose non stanno affatto così.
Per quanto lo spoil system stia progressivamente dilagando, nella realtà la
dirigenza politicizzata o, comunque, “fiduciaria” costituisce ancora (forse non
per molto, visti i contenuti della riforma Madia) parte minoritaria dei
dirigenti pubblici, i quali in gran parte sono dipendenti di ruolo assunti per
concorso pubblico e non designati per volontà politica.
La percentuale è di poco più del
30% in regioni ed enti locali (in realtà, la legge prevede un limite proprio
del 30%); nello Stato, i dirigenti generali non di ruolo non dovrebbero
superare l’8% (su circa 400 dirigenti attualmente di prima fascia); per gli
altri dirigenti, la percentuale di esterni è del 10%.
Sarebbe stato possibile
concepire una remissione del mandato, se il ragioniere generale del comune di
Roma fosse stato un dirigente non di ruolo. Ma, invece, risulta essere un
dirigente a tempo indeterminato, dunque di ruolo, dunque un dipendente che non
ha alcun mandato da rimettere.
La versione data dall’Ansa,
allora, appare più corretta. Il ragioniere generale ha messo a disposizione del
sindaco non il mandato, bensì l’incarico dirigenziale, cioè l’atto che
materialmente ha stabilito quale struttura amministrativa del comune dovesse
dirigere.
Mettere a disposizione del
sindaco l’incarico (che risulta essere stato prorogato dalla Raggi con
ordinanza sindacale 55/2016 e poi confermato con ordinanza sindacale 74/2016),
significa semplicemente che il dirigente interessato ha informato il sindaco di
ritenere, nonostante la conferma, l’incarico ricevuto passibile di revisione e
modifica, in relazione all’assenza dell’assessore di riferimento.
La cosa è estremamente diversa,
dunque. Ma, ormai, la salsa in Madia della concezione della dirigenza pubblica
spinge a dare per scontato che la dirigenza pubblica agisca spinta da esigenze
politiche e in funzione di obiettivi e ragioni politiche.
Il tutto è condizionato
probabilmente dalla circostanza che è la stessa chiave di lettura fornita dalla
politica a lasciar apparire la dirigenza null’altro se non, appunto, il braccio
destro del politico di volta in volta al potere e non, invece, come dovrebbe
essere se si applicasse l’articolo 98 della Costituzione, colui che ha il
dovere di applicare gli strumenti tecnici per assicurare l’attuazione dell’indirizzo
politico, ma assicurando che l’attività svolta sia al servizio della Nazione,
cioè dell’interesse generale e non di convenienze particolari di partito o di
parte.
La riforma Madia precarizza
tutti i dirigenti, anche quelli di ruolo e fa dipendere il loro incarico dalla
volontà del politico di turno di assegnarlo o meno. E potrebbe, domani, non
solo creare una dirigenza non intenta a perseguire l’interesse generale, bensì
quello particolare di pochi (adottando atti e decisioni utili a ricevere un
altro incarico, anche se dannosi per la collettività), ma anche volta a fare da
azione di disturbo. Un incarico dirigenziale conferito a scavalco tra un
mandato politico e l’altro, potrebbe assicurare al politico uscente un uomo “di
fiducia” per una parte del mandato politico nuovo, con azioni di boicottaggio o
insider trading.
Non è un caso che, una volta
data dai giornali in modo probabilmente scorretto la notizia dell’iniziativa
del ragioniere generale, si siano avanzate moltissime ipotesi, tra le quali
quella proprio di un’iniziativa pseudo politica, finalizzata a dare un colpo
appunto di carattere politico alla già instabile situazione della giunta Raggi.
In fondo, si tratta
probabilmente di una “non notizia” o del travisamento di un’iniziativa
istituzionale corretta, travisata, invece, come atto politico: un’anticipazione
di quello che diverrebbe la dirigenza davvero politicizzata in salsa Madia.
Tanto dovrebbe bastare per lasciar capire i danni potenziali enormi della
riforma della dirigenza.
È strano che l'ANAC, così solerte ad intervenire dovunque e comunque, sia rimasta in silenzio di fronte ad una riforma che crea le premesse di un aumento della corruzione. E poi uno spunto per un approfondimento. I vertici dell'ANAC, possono ricevere incarichi retribuiti o anche non retribuiti per direzioni scientifiche, partecipazioni a convegni, prefazioni di libri, ecc? Si può ancora parlare di reale indipendenza in presenza di rapporti ravvicinati? Quel che vale per un normale dipendente, vale anche per i capi supremi? Sarebbe utile approfondire questi aspetti in generale per tutti i dipendenti, visto il clima di sospetto, diffidenza e presunta colpevolezza creato da altri dipendenti, sia pure di vertice massimo e legati a filo doppio alla politica.
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