Numero 02113/2016 e data
14/10/2016
REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Adunanza della Commissione speciale del 14 settembre 2016
NUMERO AFFARE 01648/2016
OGGETTO:
Ministero
della funzione pubblica ufficio legislativo.
LA COMMISSIONE SPECIALE
Vista la
relazione n. 306/16 UL/P del 16 agosto 2016, con la quale il Ministro per la
semplificazione e la pubblica amministrazione ha chiesto il parere del
Consiglio di Stato sull’affare consultivo in oggetto;
Visto il
decreto n. 122 del 5 settembre 2016, con cui il Presidente del Consiglio di
Stato ha istituito una Commissione speciale per l’esame dello schema e
l’espressione del parere;
Visti:
il
contributo scritto fatto pervenire da:
Associazione
professionale Segretari Comunali e Provinciali G.B. Vighenzi – Brescia; Unione
Nazionale Avvocati enti pubblici; Sindacato Direttori penitenziari, Sindacato
Fedir Sanità;
tenuto
conto dell’audizione dei rappresentanti delle Amministrazioni proponenti, nelle
persone del Capo dell’Ufficio legislativo del Ministro per la semplificazione e
la pubblica amministrazione e del rappresentante dell’ARAN avvenuta, ai sensi
dell’art. 21 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, in data 15 marzo 2016;
considerato
che nell’adunanza del 14 settembre 2016, presenti anche i Presidenti aggiunti
Luigi Carbone e Carlo Saltelli, la Commissione speciale ha esaminato gli atti e
udito il relatore Vincenzo Lopilato.
Premesso e
Considerato.
Sommario.
Parte I.
Considerazioni generali.
1.
Premessa. 2. Il quadro costituzionale. 3. Il quadro legislativo. 4. Il quadro
della riforma. 5. Le condizioni indefettibili per la riforma.
Parte II.
Analisi delle singole disposizioni.
Capo I.
Disposizioni generali. 1. Oggetto e ambito di applicazione (art. 1 dello schema
di decreto). 2. Rapporto di lavoro e qualifica dirigenziale (art. 13). 3.
Sistema della dirigenza pubblica (art. 13-bis).
Capo II.
Reclutamento e formazione. 4. Accesso alla dirigenza (art. 28). 5.
Corso-concorso per l’accesso alla dirigenza (art. 28-bis) 6. Concorso
per l’accesso alla dirigenza (art. 28-ter). 7. Scuola nazionale
dell’amministrazione (art. 28-quinquies). 8. Regolamento di attuazione
(art. 28-sexies).
Capo III –
Incarichi dirigenziali e responsabilità. 9. Premessa. Sistema di valutazione
dei dirigenti. 10. Commissioni per la dirigenza pubblica (art. 19). 11.
Incarichi dirigenziali (art. 19-bis). 12. Procedura per il conferimento
degli incarichi (art. 19-ter). 13. La competenza (art. 19-quater).
14. Durata degli incarichi dirigenziali (art. 19-quinquies). 15.
Responsabilità dirigenziale (art. 21). 16. Regime transitorio (art. 6 schema di
decreto). 17. La unitarietà della disciplina degli incarichi dirigenziali.
Capo IV.
Mobilità e dirigenti privi di incarico. 18. Dirigenti privi di incarico (art.
23-bis).
Capo V.
19.Trattamento economico dei dirigenti (art. 24).
Capo VI.
Disposizioni speciali. 20. Dirigenza degli enti locali (art. 20). 21. I
segretari comunali e provinciali. 22. Modifiche al decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165. 23. Le Autorità amministrative indipendenti (art. 27-ter).
24. Riparto di giurisdizione e forme di tutela. 25. Conclusioni.
Parte I.
Considerazioni generali.
1. Premessa.
1.1. La Presidenza del Consiglio dei Ministri chiede, ai sensi
dell’art. 16, comma 4, della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in
materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) il parere del
Consiglio di Stato sullo schema di decreto legislativo recante «DisciplinadelladirigenzadellaRepubblica»,
adottato sulla base dell’articolo 11 della predetta legge.
1.2. La disciplina della dirigenza pubblica costituisce, da circa 25
anni, una materia su cui molteplici tentativi di riforma si sono esercitati con
l’obiettivo di assicurare una progressiva modernizzazione e trasparenza, nonché
un più forte orientamento al merito piuttosto che all’“affiliazione politica”
del relativo personale.
Dalle
riforme coraggiose e innovative – anche per il contesto politico-istituzionale
del tempo – degli anni novanta sino ai giorni nostri, le istituzioni politiche
e di governo pro-tempore hanno mirato a disegnare e ri-disegnare la dirigenza pubblica in
modo da renderla tendenzialmente adeguata alla rapida evoluzione dei sistemi
pubblici basati su regole ed esigenze di rapidità e competitività, sul
confronto con interlocutori produttivi e sociali, su norme sovranazionali
anzitutto europee.
Non vi è
dubbio che molti passi avanti sono stati compiuti, e che sempre più vi sia
percezione della centralità del ruolo dei dirigenti pubblici per consolidare
modelli di amministrazioni capaci di prestare il loro servizio istituzionale al
cittadino, cliente e utente, e di costituire, come avviene in tutti i
principali Paesi, un sostegno e non un ostacolo alla creazione di sviluppo e
occupazione in Italia.
È
altrettanto innegabile, tuttavia, che molto resti da fare.
Il
miglioramento della normativa, e soprattutto la piena attuazione delle norme,
rimane obiettivo fortemente sentito dai principali attori pubblici come
privati, e certamente il legislatore, su impulso del Governo, a ciò è sembrato
indirizzarsi con la legge delega n. 124 del 2015 cui il presente decreto
intende dare attuazione.
Molti sono
gli snodi cruciali della disciplina della dirigenza pubblica che i suddetti
provvedimenti intendono affrontare, così come negli scorsi anni era in più
occasioni avvenuto con le riforme – talora orientate in direzioni diverse tra
loro – della delicata materia.
Una
dirigenza pubblica fortemente qualificata e competente, con carriere ispirate
alla trasparente selezione, valutazione e progressione anziché a legami di
solidarietà politica, garantisce i cittadini ed i governi di ogni colore
politico, rappresentando l’ossatura di amministrazioni pubbliche dove si
perseguono interessi di tutti e non di una o poche parti.
Ecco perché
il Consiglio di Stato, nell’apprezzare gli obiettivi della legge delega,
intende contribuire, con le osservazioni ed i rilievi che seguono, a rendere il
decreto delegato pienamente coerente con i principi costituzionali e della
legge, riflettendo sulle disposizioni non solo sotto il profilo della
legittimità ma anche per ciò che concerne la possibilità di una loro completa e
rapida attuazione.
1.3. Prima di procedere nell’analisi del sistema della dirigenza
pubblica è opportuno rilevare, pur nella consapevolezza della diversità delle
disposizioni che si sono succedute nel tempo, che la peculiarità del lavoro
dirigenziale, rispetto a quello degli altri dipendenti pubblici, risiede nel
fatto che è necessario distinguere ilrapporto di servizio e il rapporto di
ufficio.
Il primo
sorge in virtù di un contratto di lavoro che è stato oggetto dei processi di
privatizzazione degli anni novanta ed è governato, salvo deroghe, dalle norme
di legge e dagli atti di autonomia negoziale individuale e collettiva.
Il secondo
sorge in virtù di un procedimento di nomina, di rilevanza organizzativa, che
consente il funzionamento del sistema di imputazione giuridica dell’attività
del dirigente all’amministrazione pubblica di riferimento.
2. Il
quadro costituzionale.
2.1. La
legge Cavour del 23 marzo 1853, n. 1483 aveva adottato un modello organizzativo
dell’amministrazione centrale dello Stato di tipo gerarchico-piramidale. Si
trattava di un modello che rappresentava il risultato della combinazione del
principio, di matrice inglese, della responsabilità ministeriale con il
principio, di stampo francese, dell’accentramento tipico delle strutture
militari.
Il Ministro
era contestualmente membro del Governo e capo dell’Amministrazione di
riferimento: l’alta burocrazia era priva di qualunque autonomo potere
gestionale essendo legata da un rapporto gerarchico con l’organo di direzione
politica che le consentiva di agire soltanto su delega o per conto di
quest’ultimo.
La
Costituzione ha profondamente ridisegnato i rapporti tra politica e
amministrazione.
Nel corso
dei lavori dell’Assemblea costituente Mortati aveva messo in rilievo la
necessità di «assicurare ai funzionari alcune garanzie per sottrarli alle
influenze dei partiti politici». In quest’ottica, «lo sforzo di una
Costituzione democratica, oggi che al potere si alternano i partiti, deve
tendere a garantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato, per avere
un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei
partiti». Per tali ragioni Mortati aveva proposto di inserire nel testo
costituzionale una norma secondo cui nell’ambito delle direttive del singolo
Ministro, che «dirige l’amministrazione ad esso affidata», i «funzionari
dirigenti dei vari servizi assumono la diretta responsabilità degli atti
inerenti ai medesimi».
La
formulazione finale del testo costituzionale delinea un modello complesso dei
rapporti tra funzioni politiche e amministrative che si muove lungo versanti,
apparentemente, opposti.
Sul primo
versante, gli artt. 97 e 98 della Costituzione prevedono la regola della piena
autonomia gestionale dell’attività dirigenziale.
In
particolare, l’art. 97 Cost. dispone, da un lato, che i pubblici uffici sono
organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità
dell’amministrazione (primo comma), dall’altro, che agli impieghi nelle
pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti
dalla legge (quarto comma).
Il
principio di imparzialità dell’azione amministrativa vuole che il funzionario
non operi a favore di una determinata maggioranza politica ma, come è stato
sostenuto, stia «al di sopra dei partiti, cioè (…) ad di fuori della lotta
per acquisire una potenza propria».
Il
principio di buon andamento, di cui quello di continuità dell’azione
amministrativa rappresenta una specifica declinazione, impone di costruire un
rapporto di lavoro che consenta ai dirigenti di esercitare le proprie funzioni
in modo efficiente ed efficace.
E’
innegabile, inoltre, che le due regole di azione di rilevanza costituzionale
siano strettamente correlate: l’imparzialità è lo strumento del buon andamento,
in quanto garanzia che siano adottate scelte ottimali secondo criteri
oggettivi.
Il
principio del concorso pubblico assicura una selezione obiettiva scevra da
condizionamenti personali.
In questo
ambito si inseriscono anche l’art. 51, primo comma, Cost., secondo cui tutti i
cittadini possono accedere agli uffici pubblici «in condizione di
eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge», e l’art. 98 Cost.,
il quale dispone che «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della
Nazione».
Sul
versante opposto, l’art. 95, secondo comma, Cost. prevede la regola della
responsabilità ministeriale: «i Ministri sono responsabili collegialmente
degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti del loro
dicastero». La previsione di un sistema di responsabilità, per la stretta
correlazione con la titolarità di un potere, potrebbe implicare la spettanza di
funzioni di gestione da parte dell’organo politico.
L’analisi
isolata delle disposizioni costituzionali sopra riportate potrebbe indurre a
formulare due regole opposte: nella prospettiva degli artt. 97 e 98 Cost.,
l’amministrazione è completamente separata dalla politica; nella prospettiva dell’art. 95 Cost., la politica
si sovrappone, in
funzione di controllo, all’amministrazione.
La
combinazione delle due regole conduce, invece, a costruire un modello composito
di regolazione dei rapporti tra politica e amministrazione: i dirigenti
esercitano le proprie funzioni amministrative in modo imparziale per il
perseguimento efficace ed efficiente degli obiettivi che i politici,
nell’esercizio dell’attività di indirizzo, pongono in attuazione degli scopi di
interesse pubblico definiti dal legislatore.
Ne consegue
che la Costituzione delinea una relazione tra organi politici e dirigenziali
che si struttura secondo la logica non della separazione o sovrapposizione
delle funzioni ma secondo quella della complementarietà edifferenziazionefunzionale dei
compiti. I politici e i dirigenti esercitano un’attività diversa ma coordinata
verso risultati comuni.
Si
sottraggono a questo modello le Autorità amministrative indipendenti.
Esse sono
state costituite, anche su impulso del diritto europeo, per lo svolgimento di
un’attività amministrativa di vigilanza e regolazione neutrale dei mercati e
dunque sottratta al potere di indirizzo degli organi politici. Si tratta di un
modello che, pur non contemplato dalla Costituzione, deve ritenersi con essa
compatibile.
2.2. La Corte
costituzionale ha avuto più volte modo di occuparsi del rapporto di lavoro
dirigenziale, con particolare riferimento alla conformità al quadro
costituzionale del cosiddetto spoilssystem e cioè del sistema che determina la cessazione degli incarichi
dirigenziali in corso di svolgimento in concomitanza con il succedersi di una
nuova compagine governativa.
Limitando
l’analisi all’enunciazione dei principi generali senza riferimenti alle
specifiche discipline, la Corte costituzionale ha più volte avuto modo di
affermare che gli articoli 97 e 98 Cost. sono corollari dell’imparzialità ed
esprimono la distinzione «tra l’azione di governo – normalmente legata agli
interessi di una parte politica espressione delle forze di maggioranza – e
l’azione dell’amministrazione che nell’attuazione dell’indirizzo politico della
maggioranza, è vincolata, invece, ad agire senza distinzione di parti
politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate
nell’ordinamento» (Corte cost. n. 453 del 1990; si v. anche Corte cost. n.
104 del 2007).
La
proiezione di questi principi costituzionali nella regolazione del rapporto di
lavoro dirigenziale impone, ha sottolineato la Corte, che lo stesso sia
regolato, sul piano strutturale, in modo da assicurare «la tendenziale
continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i
compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione» (Corte
cost. n. 103 del 2007, cit. e n. 161 del 2008). Esso, pertanto, deve essere «circondato
da garanzie», in quanto, come è stato icasticamente rilevato, «la
dipendenza funzionale del dirigente non può diventare dipendenza politica»
(Corte cost. n. 104 del 2007).
Alla luce
di questi principi la Corte Costituzionale ha affermato che le norme di legge
le quali prevedono, a regime o unatantum,
l’interruzione del rapporto di ufficio dei dirigenti per il sopravvenuto
insediamento di un nuovo Governo devono ritenersi contrarie al riportato quadro
costituzionale. Non è, infatti, consentita la sostituzione dei dirigenti che
stanno esercitando le loro funzioni con altri dirigenti “graditi” ai nuovi
organi politici.
In
particolare, la Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittime le forme
automatiche di interruzione legale dei rapporti dirigenziali per l’assenza «di
un momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti, nell’ambito del
quale, da un lato, l’amministrazione esterni le ragioni – connesse alle
pregresse modalità di svolgimento del rapporto anche in relazione agli
obiettivi programmati dalla nuova compagine governativa – per le quali ritenga
di non consentirne la prosecuzione sino alla scadenza contrattualmente
prevista; dall’altro, al dirigente sia assicurata la possibilità di far valere
il diritto di difesa, prospettando i risultati delle proprie prestazioni e
delle competenze organizzative esercitate per il raggiungimento degli obiettivi
posti dall’organo politico e individuati, appunto, nel contratto a suo tempo
stipulato» (Corte cost. n. 103 del 2007, in relazione a forme transitorie
dispoilssystem; si veda anche Corte cost. numeri 124 e 246 del 2011, in
relazione a forme di spoilssystem a regime, applicato ai dirigenti esterni).
L’esistenza
di una preventiva fase valutativa – ha puntualizzato la Corte con le suindicate
sentenze – risulta essenziale anche per assicurare «il rispetto dei principi
del giusto procedimento, all’esito del quale dovrà essere adottato un atto
motivato che, a prescindere dalla sua natura giuridica, di diritto pubblico o
di diritto privato, consenta comunque un controllo giurisdizionale»
(sentenza n. 103 del 2007, cit.).
Questi
principi sono stati ritenuti applicabili a qualunque tipologia di incarico
dirigenziale, con esclusione dei soli incarichi di vertice, che possono essere
individuati intuitupersonae in modo da «rafforzare la coesione tra l’organo politico» e
«gli organi di vertice dell’apparato burocratico» per «consentire il
buon andamento dell’attività di direzione dell’ente» (Corte cost. n. 233
del 2006).
2.3. La
Costituzione detta anche le regole di riparto delle funzioni legislative tra
Stato e Regioni nella disciplina del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici
(art. 117 Cost.). La giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che,
ai fini della individuazione del pertinente ambito materiale, occorre avere
riguardo «all’oggetto o alla disciplina» dettata dalla singola
disposizione «sulla base della sua ratio, senza tenere conto degli aspetti marginali e riflessi» (Corte
cost. n. 229 del 2013). Ne consegue che occorre avere riguardo alla natura del
rapporto dirigenziale, distinguendo profili di rilevanza negoziale,
organizzativa e di formazione.
Il primo
profilo di rilevanza negoziale attiene alla regolazione del rapporto di
servizio che, a seguito dei processi di privatizzazione del rapporto di lavoro
dei dipendenti della pubblica amministrazione, è retto da norme privatistiche e
dall’autonomia contrattuale individuale e collettiva.
La Corte
costituzionale, muovendo da queste premesse, con orientamento costante, ritiene
che, per assicurare uniformità di trattamento, la competenza legislativa a
disciplinare il rapporto di lavoro, incluso quello alle dipendenze di Regioni
ed enti locali, rientra, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., nella materia dell’«ordinamento civile» di
spettanza esclusiva dello Stato.
Il secondo profilo
di rilevanza organizzativa attiene alla disciplina del rapporto di ufficio che,
per le ragioni già esposte, si inserisce nella fase dell’organizzazione
pubblica dell’amministrazione.
A tale
proposito, è necessario distinguere il rapporto dei dirigenti statali,
regionali e locali.
La
regolazione del rapporto di ufficio dei dirigenti statali, rientrando nella
materia della «organizzazione amministrativa dello Stato», compete a
quest’ultimo (art. 117, secondo comma, lettera g, Cost.).
La
regolazione del rapporto di ufficio dei dirigenti regionali rientra nella
materia residuale dell’«organizzazione amministrativa delle Regioni» e,
pertanto, la relativa disciplina spetta ad esse (art. 117, quarto comma, Cost.;
Corte cost. numeri 95 del 2007; 233 del 2006; 2 del 2004).
La
regolazione del rapporto di ufficio dei dirigenti locali assume connotati di
maggiore complessità, in quanto, astrattamente, i livelli di governo coinvolti
unitamente alle rispettive fonti normative possono essere: i) lo Stato, nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva
in materia di disciplina degli «organidi governo» e delle «funzioni
fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane» (art. 117, secondo
comma, lettera p, Cost.); ii) le Regioni, nell’esercizio della competenza legislativa
esclusiva in materia di «organizzazione amministrativa degli enti locali»; iii) le autonomie locali, nell’esercizio del potere statutario e
regolamentare che la Costituzione ad esse riserva in materia di organizzazione
degli enti stessi (artt. 114 e 117, sesto comma, Cost.). In questo contesto, la
ricostruzione complessiva del sistema delle fonti di regolazione della
dirigenza locale deve avere riguardo alla singola disposizione che viene in
rilievo e al conseguente intervento dei diversi livelli di governo secondo una
gradazione di disciplina di sempre maggiore specificità.
Esula
dall’ambito dell’organizzazione e rientra nella materia dell’ordinamento
civile, pur afferendo agli incarichi, la disciplina dei conferimenti di funzioni
dirigenziali a soggetti esterni alla pubblica amministrazione. La
giurisprudenza costituzionale ha, infatti, rilevato che essa attiene «ai
requisiti soggettivi che debbono essere posseduti dal contraente privato, alla
durata massima del rapporto, ad alcuni aspetti del regime economico e giuridico
ed è pertanto riconducibile alla regolamentazione del particolare contratto che
l’amministrazione stipula con il soggetto ad essa esterno cui conferisce
l’incarico dirigenziale» (Corte cost. n. 324 del 2010).
Nell’ambito
dell’organizzazione pubblica, la giurisprudenza costituzionale fa rientrare,
invece, anche la regolamentazione dell’accesso ai pubblici impieghi mediante
concorso, con la conseguenza che le amministrazioni statali o regionali sono
legittimate a disciplinare, rispettivamente, le procedure concorsuali afferenti
al personale statale ovvero regionale o locale (Corte cost. n. 380 del 2004).
Infine, il
terzo profilo afferente alla «formazioneprofessionale» rientra
nell’ambito di una materia che il terzo comma dell’art. 117 Cost. assegna alla
competenza concorrente, con la conseguenza che lo Stato può fissare solo i
principi fondamentali e le Regioni le norme di dettaglio (cfr. Corte
cost. n. 3 del 2004).
Si segnala,
inoltre, che è attribuita alla competenza legislativa esclusiva statale la
materia del coordinamento informatico dei dati dell’amministrazione statale,
regionale e locale (art. 117, secondo comma, lettera r, Cost.), che, come si esporrà oltre, rileva ai fini della
gestione tecnica della banca dati (II, 3.4.).
Quanto
esposto non esclude che lo Stato possa, per esigenze unitarie e di uniformità
di trattamento, dettare una disciplina che, pur garantendo le altre autonomie
territoriali, ricomprenda anche i profili organizzativi e di formazione della
dirigenza regionale e locale.
Le tecniche
legislative utilizzabili sono due.
La prima è
quella della cosiddetta “sussidiarietà legislativa”.
Lo Stato,
qualora ravvisi l’esistenza di esigenze unitarie, può, pur in presenza di
materie esclusive o concorrenti regionali, “chiamare in sussidiarietà” funzioni
regionali o degli enti locali e, in ossequio al principio di legalità, dettare
la relativa disciplina. In questo caso, la giurisprudenza costituzionale ha
delineato un preciso procedimento che deve essere seguito ai fini del giudizio
di conformità a Costituzione, stabilendo che: i) devono
sussistere effettive esigenze unitarie, alla luce dei principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza; ii) la legge
deve contenere una disciplina proporzionata all’obiettivo perseguito e
pertanto, pertinente, idonea alla regolazione delle funzioni e limitata a
quanto strettamente indispensabile a tale fine; iii) occorre
assicurare la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso
strumenti di leale collaborazione, con la conseguenza che la legislazione
statale «può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale
solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il
dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale,
ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà»
(sentenza n. 303 del 2003). A tale ultimo proposito, la successiva
giurisprudenza ha chiarito che devono essere «intese forti» non
superabili con una determinazione unilaterale dello Stato se non nella «ipotesi
estrema, che si verifica allorché l’esperimento di ulteriori procedure
bilaterali si sia rivelato inefficace» (Corte cost. numeri 7 del 2016; 179
del 2012; 165 del 2011; 121 del 2010; 6 del 2004).
La seconda
tecnica è quella di consentire l’adozione di una disciplina esclusiva statale
in presenza di unaconcorrenzadicompetenze appartenenti
a diversi livelli istituzionali di governo in applicazione della “regola della
prevalenza”, nel caso in cui il nucleo essenziale della disciplina sia statale
ovvero, nel caso in cui non sia possibile assorbire le funzioni legislative
regionali, della “regola della leale cooperazione” che può ritenersi
congruamente attuata «mediante la previsione dell’intesa» (Corte cost.
numeri 21 e 1 del 2016; si v. anche sentenze numeri 250 e 140 del 2015 e numeri
44 e 126 del 2014).
Il progetto
di riforma costituzionale intende modificare il sistema del riparto delle
funzioni legislative e amministrative. Senza entrare nel dettaglio della
riforma e delle possibili interpretazioni dei suoi enunciati, è sufficiente
rilevare che viene attribuita alla competenza legislativa esclusiva statale la
materia della «disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche tese ad assicurare l’uniformità sul territorio
nazionale» (comma 2, lettera g). E’
prevista, inoltre, la cosiddetta clausola di supremazia speciale: «su proposta
del Governo la legge dello Stato può intervenire in materie o funzioni non
riservate alla legislazione esclusiva quando lo richiede la tutela dell’unità
giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse
nazionale» (comma 5).
3. Il
quadro legislativo.
Nel diritto
privato la regolazione del lavoro dirigenziale si fonda su un legame fiduciario
tra datore di lavoro e dirigente che fa sì che il relativo rapporto non sia
assistito da garanzie di stabilità.
Nel diritto
pubblico tale regolazione ha avuto una complessa e lunga evoluzione, il cui
approdo finale è stata la costruzione di un modello diverso da quello
privatistico al fine di assicurare il rispetto degli esposti principi
costituzionali che presiedono alla differenziazione funzionale tra attività
gestionali e politiche.
3.1. Il
modello costituzionale non è stato subito attuato a livello legislativo.
Nei primi
decenni dopo l’entrata in vigore della Costituzione è prevalsa la concezione
che non attribuiva alla dirigenza poteri decisionali: il sistema era
interamente incentrato sul principio della responsabilità ministeriale.
Negli anni
successivi l’evoluzione della normativa è stata scandita, tra gli altri, dai
seguenti provvedimenti legislativi:
- decreto
del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle
disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), che ha
assegnato ai dirigenti la competenza ad emanare soltanto atti amministrativi
privi di discrezionalità, anche soltanto di natura tecnica (art. 155);
- decreto
del Presidente della Repubblica 30 giugno 1972, n. 748 (Disciplina delle
funzioni dirigenziali nelle Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento
autonomo), che ha attribuito ai dirigenti funzioni gestionali limitate e tassative;
- decreto
legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle
amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico
impiego, a norma dell’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), che ha provveduto
alla cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego, con esclusione dei
dirigenti generali; tale decreto ha introdotto, a livello legislativo, il
principio costituzionale di differenziazione tra politica e amministrazione,
stabilendo che ai dirigenti spettasse «la gestione finanziaria, tecnica e
amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti che impegnano
l’amministrazione verso l’esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di
organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo», con la
precisazione della loro responsabilità per la gestione e per i relativi
risultati (art. 3, comma 2);
- decreto
legislativo 18 novembre 1993, n. 470 (Disposizioni correttive del decreto
legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, recante razionalizzazione dell'organizzazione
delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di
pubblico impiego), il quale ha, tra l’altro, previsto che le amministrazioni
pubbliche i cui organi di vertice non siano direttamente o indirettamente
espressione di rappresentanza politica, adeguano i loro ordinamenti al
principio della distinzione tra indirizzo e gestione (art. 2);
- decreti
legislativi 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di
organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di
giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa,
emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59)
e 29 ottobre 1998, n. 387 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del
d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del d.lgs. 31
marzo 1998, n. 80), che, completando il processo di contrattualizzazione del
rapporto di impiego dei dirigenti con estensione di esso anche ai dirigenti
generali, hanno, da un lato, creato, per i dirigenti delle amministrazioni
statali, il «ruolo unico» istituito presso la Presidenza del Consiglio dei
ministri, distinto in due fasce; dall’altro, assegnato valenza generale al
principio di differenziazione tra politica e amministrazione, specificando che
lo stesso è preminente rispetto alla disciplina speciale di settore;
- decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), in cui è confluita, in modo
sistematico, la normativa rilevante sin qui indicata;
- decreto
legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n.
150, in materia di ottimizzazione del lavoro pubblico e di efficienza e
trasparenza delle pubbliche amministrazioni), che ha assegnato maggiore
rilevanza alla legge nei rapporti con l’autonomia negoziale (art. 2, comma 2,
del d.lgs. n. 165 del 2001) e ha introdotto un particolare sistema di
valutazione della dirigenza (II, 9).
3.2. Il Consiglio di Stato ritiene opportuno, per una valutazione
dell’incidenza della riforma sul sistema attuale, riportare, in sintesi, i
profili di maggiore rilevanza della disciplina vigente, contenuta nel d.lgs. n.
165 del 2001, definita all’esito della indicata complessa evoluzione
legislativa.
Per quanto
attiene agli organi di governo, l’art 4 del predetto decreto prevede che essi «esercitano
le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi e i
programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento
di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività
amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti» (art. 4). A tale
fine l’organo politico, dispone l’art. 14, adotta «le conseguenti direttive
generali per l’attività amministrativa e per la gestione» (art. 14).
Per quanto
attiene alla dirigenza, l’art. 13 del medesima decreto dispone che le norme del
relativo capo si applicano soltanto «alle amministrazioni dello Stato, anche
ad ordinamento autonomo».
Come
esposto in premessa, la disciplina si articola nella fase di costituzione del
rapporto di servizio con la stipulazione del relativo contratto e in quella di
costituzione del rapporto di ufficio con il conferimento del relativo incarico
(I 1.3.).
In
relazione al primo aspetto, si prevede che l’accesso alla dirigenza avviene a
seguito del superamento di un concorso indetto dalle singole amministrazioni
ovvero di un corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola
superiore della pubblica amministrazione, nel rispetto delle percentuali e
modalità definite da un regolamento governativo di esecuzione (art 28, commi 1
e 5). Il superamento dei predetti concorsi comporta l’iscrizione in un apposito
ruolo, istituito «in ogni amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento
autonomo», il quale «si articola nella prima e nella seconda fascia, nel
cui ambito sono definite apposite sezioni in modo da garantire la eventuale
specificità tecnica» (art. 23, primo comma).
In
relazione al secondo aspetto, l’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 disciplina
l’intero procedimento di conferimento degli incarichi.
A) I
criteri di conferimento impongono all’amministrazione di tenere conto «in
relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati ed alla
complessità della struttura interessata, delle attitudini e delle capacità
professionali del singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza
nell'amministrazione di appartenenza e della relativa valutazione, delle
specifiche competenze organizzative possedute, nonché delle esperienze di
direzione eventualmente maturate all'estero, presso il settore privato o presso
altre amministrazioni pubbliche, purché attinenti al conferimento dell’incarico»
(art. 19, comma 1).
B) La
durata di tutti gli incarichi dirigenziali, ad eccezione di quelli esterni, non
può essere inferiore a tre anni né eccedere i cinque anni (art. 19, comma 2).
C) La
tipologia di incarichi e la competenza ad assegnarli viene così disciplinata: i) gli incarichi di direzione degli uffici di livello dirigenziale
sono «conferiti, dal dirigente dell’ufficio di livello dirigenziale
generale, ai dirigenti assegnati al suo ufficio» (art. 19, comma 5); ii) gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale «sono
conferiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta
del Ministro competente, a dirigenti della prima fascia dei ruoli (…) in misura
non superiore al 70 per cento della relativa dotazione, agli altri dirigenti
appartenenti ai medesimi ruoli ovvero, con contratto a tempo determinato, a
persone in possesso delle specifiche qualità professionali»; iii) gli incarichi apicali (di Segretario generale di ministeri, di
direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali
e quelli di livello equivalente), «sono conferiti con decreto del Presidente
della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta
del Ministro competente, a dirigenti della prima fascia dei ruoli (…) o, con
contratto a tempo determinato, a persone in possesso delle specifiche qualità
professionali e nelle percentuali previste dal comma 6» dello stesso art.
19.
D) I
destinatari dei predetti incarichi possono essere: i) i dirigenti iscritti ai ruoli di ciascuna amministrazione; ii) i dirigenti non appartenenti ai predetti ruoli purché dipendenti
di “altre” amministrazioni ovvero di organi costituzionali, «previo
collocamento fuori ruolo, aspettativa non retribuita, comando o analogo
provvedimento secondo i rispettivi ordinamenti»; iii) i soggetti esterni all’amministrazione, che abbiamo determinati
requisiti, purché si tratti di professionalità non rinvenibili nei ruoli
dell’Amministrazione e si rispetti «il limite del 10 per cento della
dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli (…) e
dell’8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda
fascia»; in questo caso la durata degli incarichi non può eccedere, per gli
incarichi di funzione dirigenziale generale e apicale, il termine di tre anni,
e, per gli altri incarichi di funzione dirigenziale, il termine di cinque anni.
E) La
cessazione del rapporto di ufficio in corso di svolgimento può essere
conseguenza soltanto di una accertata responsabilità dirigenziale. La
disciplina vigente, per adeguarsi alle pronunce della Corte costituzionale,
sopra riportate (I 2.2.) ha
espunto dal sistema di regolazione della dirigenza tutte le fattispecie di spoilssystem, con la sola eccezione, ammessa sul piano
costituzionale, degli incarichi di vertice i quali «cessano decorsi novanta
giorni dal voto sulla fiducia al Governo» (art. 19, comma 8).
F) Gli
incarichi dirigenziali sono rinnovabili (art. 19, comma 2). L’art. 9, comma 32,
del decreto-legge n. 78 del 2010 ha previsto, però, che le amministrazione
pubbliche le quali, alla scadenza di un incarico dirigenziale, «anche in
dipendenza dei processi di riorganizzazione, non intendono, anche in assenza di
una valutazione negativa, confermare l'incarico conferito al dirigente,
conferiscono al medesimo dirigente un altro incarico, anche di valore economico
inferiore».
3.2. La
disciplina della dirigenza regionale deve adeguarsi alle regole di riparto
delle funzioni legislative delineato dall’art. 117 Cost. Sino ad oggi, tale
adeguamento si è svolto in modo da lasciare ampio spazio alle competenze
regionali.
L’art. 27
del d.lgs. n. 165 del 2001 si è limitato a disporre che «le Regioni a
statuto ordinario, nell’esercizio della propria potestà statutaria, legislativa
e regolamentare», adeguano ai principi posti dall'articolo 4 e dalla
disciplina della dirigenza posta dallo stesso decreto «i propri ordinamenti,
tenendo conto delle relative peculiarità».
La
genericità del rinvio ha comportato che molte Regioni si sono dotate di una
propria disciplina della dirigenza regionale con una definizione di competenze,
in alcuni casi “corretta” dalla Corte costituzionale, che si fonda sulla già
indicata distinzione dei profili di rilevanza negoziale, afferente alla materia
dell’ordinamento civile di competenza statale, e i profili di rilevanza
organizzativa, afferente alla materia dell’organizzazione di competenza regionale.
3.3. La disciplina della dirigenza locale è, allo stato, contenuta in
due fonti legislative statali: il decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267
(Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), che regola, in
particolare, oltre i segretari comunali e provinciali (artt. 97-106), la fase
di conferimento degli incarichi dirigenziali (artt. 107-111), nonché il d.lgs.
n. 165 del 2001, per quanto attiene all’ordinamento degli uffici e del
personale (art. 88). Il d.lgs. n. 267 del 2000, per taluni profili
organizzativi, rinvia alla disciplina dettata da statuti e regolamenti degli
Enti locali, che devono adeguarsi ai principi posti dallo stesso testo unico e
dal d.lgs. n. 165 del 2001 (art. 111).
4. Il
quadro della riforma.
La riforma
oggetto del presente parere incide profondamente sulla vigente regolamentazione
della dirigenza.
Rinviando
all’analisi delle singole disposizioni i rilievi di maggiore dettaglio, in
questa parte preliminare è sufficiente riportare i tratti qualificanti della
nuova disciplina che si intende introdurre con lo schema di decreto in esame e
i pilastri per la costruzione di un modello di dirigenza efficiente.
4.1. Le
principali novità della fase di disciplina dell’accesso alla dirigenza sono la
creazione di «ruoli unificati e coordinati» e l’eliminazione della
distinzione in due fasce separate che, nelle intenzioni del legislatore,
dovrebbero assicurare, rispettivamente, una maggiore mobilità verticale e
orizzontale.
In
relazione al primo aspetto, è previsto che il sistema della dirigenza pubblica
è costituito: i) dal ruolo
dei dirigenti statali, escluso il personale in regime di diritto pubblico; ii) dal ruolo dei dirigenti regionali, inclusa la dirigenza delle
camere di commercio e la dirigenza del Servizio sanitario nazionale, ad
eccezione della dirigenza medica, veterinaria e sanitaria; iii) dal ruolo dei dirigenti locali, in cui confluiscono anche gli
attuali segretari comunali e provinciali, la cui figura (e il relativo albo)
sono contestualmente aboliti.
Tale distinzione,
che rileva con riferimento a diversi aspetti che verranno esaminati nel
presente parere, mantiene ferma l’unicità del ruolo ai fini del conferimento
degli incarichi dirigenziali. Nel previgente sistema, l’esistenza di un ruolo
separato per ciascuna amministrazione delimitava, per gli incarichi “interni”,
la scelta dei dirigenti a quelli inseriti in quella determinata struttura
organizzativa. La finalità perseguita dalla riforma è stata quella, invece, di
superare il perimetro della singola amministrazione e creare un più ampio
“mercato della dirigenza” coincidente con il territorio nazionale, nell’ambito
del quale selezionare il dirigente cui si intende attribuire l’incarico.
In
relazione al secondo aspetto, l’eliminazione della distinzione in due fasce
consente che qualunque tipologia di incarico possa essere assegnato a chiunque
abbia la qualifica dirigenziale, senza differenziazioni connesse
all’inquadramento nella prima o nella seconda fascia. Rimandando anche in
questo caso all’analisi delle singole disposizioni, considerazioni di maggiore
dettaglio, l’innovazione principale è costituita dalla creazione di apposite
Commissioni per la dirigenza statale, regionale e locale composte da sette
membri, di cui cinque di diritto indicati nella legge e due selezionati, nonché
dalla predeterminazione della durata di quattro anni per tutti gli incarichi
con la possibilità di avere un solo rinnovo in presenza di una valutazione
positiva.
Questa
nuova disciplina si inserisce in modo coerente nel complessivo sistema delle
riforme amministrative che il Governo sta attuando, che si caratterizza per un
approccio globale che considera non tanto le singole amministrazioni quanto
l’amministrazione nel suo complesso (cfr. Cons. Stato, comm. Spec.,
parere 24 febbraio 2016, n. 515, ha messo in rilievo la condivisibilità della
scelta di affrontare la riforma dell’amministrazione pubblica come un “tema
unitario”).
5. Le
condizioni indefettibili per la riforma.
5.1. Il
Consiglio di Stato, rinviando la prospettazione di osservazioni più puntuali
nell’analisi delle singole disposizioni dello schema di decreto, ritiene
necessario, in questa parte introduttiva, svolgere alcune considerazioni di
ordine generale, che rappresentano condizioni indefettibili per il
funzionamento effettivo, la cosiddetta fattibilità, della
riforma.
Non si
tratta, è bene precisare, di rilevi extragiuridici, in quanto l’oggettiva
impossibilità di funzionamento di taluni meccanismi che presiedono alla nuova
disciplina potrebbe, in via circolare, ripercuotersi negativamente sulla stessa
legittimità delle previsioni normative. Se, infatti, queste ultime, nella
regolazione del rapporto di lavoro dirigenziale, devono essere conformi ai
principi costituzionali, la loro possibile inattuazione si potrebbe risolvere
in una violazione delle stesse disposizioni costituzionali, oltre che dei
principi e dei criteri della legge delega.
In alcuni
casi i rilievi sulla fattibilità sono ascrivibili direttamente alla
formulazione della stessa legge delega: il Consiglio di Stato ritiene comunque
necessario segnalarli in questa sede, pur nella consapevolezza che essi esulano
dall’articolato in esame, per rimettere alla valutazione del Governo
l’eventualità di effettuare interventi correttivi anche sulla fonte delegante,
allo scopo di costruire una riforma efficace ed effettivamente rispondente agli
obiettivi che lo stesso Governo si è posto.
5.2. La prima e più rilevante condizione, che fa da sfondo a molte
altre, è rappresentata dalla questionefinanziaria.
Il
legislatore delegante e conseguentemente il Governo intendono approvare una
riforma così radicale con il principio della invarianzadispesa. Si deve
segnalare come tale principio sia uno di quelli in cui più si riscontrano le
difficoltà connesse alla fattibilità concreta della riforma.
Non è
sufficiente prevedere nuove regole di disciplina se poi non si prende in
adeguata considerazione la fase di attuazione della riforma stessa e l’impiego
di risorse finanziarie e umane che essa può richiedere: si pensi, tra l’altro,
ai costi di gestione della banca dati ovvero alla necessità che alcune funzioni
previste, quali quelle della Commissione (II, 10), non
possano essere svolte in aggiunta agli attuali impegni di lavoro, ma richiedano
una piena dedizione.
Senza una
riconsiderazione di questo principio di invarianza di spesa, appare quindi poco
realistico assicurare il funzionamento concreto di molti meccanismi previsti
dalla riforma.
5.3. Le
ulteriori condizioni riguardano la complessiva costruzione del regime giuridico
della dirigenza.
La Corte
costituzione ha, infatti, rilevato come sia importante il pianostrutturale di
definizione delle regole di disciplina del lavoro dirigenziale per assicurare
il pianofunzionale che postula una chiara distinzione «tra i compiti di indirizzo
politico-amministrativo e quelli di gestione» (Corte cost. n. 103 del 2007,
cit. e n. 161 del 2008). L’affermazione della differenziazione tra politica e
amministrazione, contenuta nei testi legislativi vigenti e ribadita dallo
schema di decreto, sarebbe, infatti, mera declamazione di principio se poi il
rapporto di lavoro dirigenziale non venisse costruito in modo da assicurarne
una concreta attuazione.
Le
difficoltà che ogni riforma incontra derivano proprio dalla natura composita
del modello costituzionale che impone la previsione di un modello legislativo
di attuazione in grado di effettuare un equilibrato dosaggio e bilanciamento
dei diversi valori costituzionali in campo.
Il
Consiglio di Stato ritiene che i principi costituzionali di imparzialità, buon
andamento e responsabilità politica devono essere garantiti – in un mercato
caratterizzato da maggiore flessibilità conseguente alla creazione di un ambito
nazionale di concorrenza tra dirigenti – mediante regole precise che
assicurino:
a)
procedure e ai criteri di scelta del dirigente oggettivi, trasparenti e in
grado di valorizzare la specifica professionalità maturata nell’ambito dei
molteplici settori in cui le pubbliche amministrazioni operano con competenze
tecniche;
b) la
durata ragionevole dell’incarico che, evitando una eccessiva precarizzazione
del rapporto di lavoro, consenta al dirigente di perseguire, con continuità,
gli obiettivi posti;
c) modalità
di cessazione degli incarichi tali da fare sì che le funzioni dirigenziali
vengano meno solo per la scadenza del termine di durata degli incarichi stessi
ovvero per il rigoroso accertamento della responsabilità dirigenziale;
d) la
presenza di un organismo di garanzia chiamato a sovraintendere a queste fasi e
che sia, anche per la sua composizione, posto nelle condizioni di potere
operare in concreto;
e) un
sistema efficace di valutazione dei dirigenti (su cui si v. successivo punto 5.4).
La
Commissione speciale ritiene necessario evidenziare come – sempre nell’ottica
della concreta fattibilità della riforma come condizione della sua legittimità – non
risulti sufficiente che le suddette previsioni vengano inserite nelle
disposizioni contenute nello schema di decreto, ma occorre assicurarne
l’effettivo funzionamento.
L’esistenza
di tali condizioni e gli sviluppi applicativi di tipo finanziario e operativo
rappresentano quindi, ad avviso di questo Consiglio di Stato, presupposti
essenziali per la riforma.
La loro
trattazione specifica è contenuta nella Parte II del presente parere (punto 12,
per le procedure e i criteri di conferimento; punto 14 per la durata delle
funzioni; punto 15 per la cessazione dell’incarico; punto 10, per la
Commissione; punto 9, per valutazione della dirigenza).
5.4. Un’ulteriore considerazione preliminare va effettuata in relazione
alla tempistica dell’entrata in vigore della nuova normativa, con particolare
riguardo al necessario raccordo con la messa in atto di un compiuto sistema di
valutazione.
Occorre,
difatti, rilevare come lo schema di decreto legislativo in esame sia privo di
regole relative a tale sistema, che pure ne dovrebbe costituire parte
essenziale.
Ad avviso
del Consiglio di Stato, la disciplina della valutazione, come già sottolineato,
rappresenta una delle condizioni indefettibili per una riforma organica: la sua
omissione rischia di comprometterne l’attuazione e, quindi, il raggiungimento
delle stesse finalità prefissate dallo stesso legislatore.
Non si
tratta, è evidente, di una criticità dell’articolato in oggetto, ma di una
decisione assunta dal legislatore delegante, che ha rimandato la riforma di
questo ambito al testo unico di riordino generale della disciplina del
personale pubblico (art. 17, comma 1, lettera r, della l. n. 124 del 2015).
Nondimeno,
il Consiglio di Stato, nel prendere atto di tale decisione politica, non può
non evidenziare, su un piano generale, che la riforma della dirigenza rischia
di non poter essere compiuta senza che vi sia un preventivo – o quantomeno
contestuale – intervento sulla valutazione.
Si rimette
anche in questo caso alla valutazione del Governo l’eventualità di
riconsiderare la tempistica dell’entrata in vigore di queste due riforme, per
evitare sfasamenti temporali che si risolverebbero anche in lacune attuative.
5.5. Infine, sarebbe opportuno che nel testo del decreto venga
inserito, per ragioni sia di trasparenza che di effettività, un cronoprogramma
(su cui si potrebbe, se del caso, riferire anche alle Camere) delle attività
che il Governo ritiene necessarie per assicurare la piena attuazione della
riforma.
E’
necessario, inoltre, prevedere una fase sperimentale di verifica dei meccanismi
introdotti e un costante monitoraggio sull’attuazione della riforma per
valutare se le regole scritte si stiano effettivamente traducendo in concreti
meccanismi operativi.
5.6. Solo se
si realizzeranno queste condizioni indefettibili, sarà possibile attuare i
valori sottesi alla riforma, garantendo altresì l’equilibrio tra l’autonomia
della dirigenza, una chiara definizione degli obiettivi da parte dell’autorità
politica, ma anche la prevenzione dai rischi di “autoreferenzialità”.
Parte II.
Analisi delle singole disposizioni.
Capo I.
Disposizioni generali.
1. Oggetto
e ambito di applicazione (art. 1 dello schema di decreto).
L’art. 1
dello schema di decreto definisce l’oggetto e l’ambito di applicazione della
riforma, escludendo da tale ambito: i) i dirigenti delle amministrazioni in
regime di diritto pubblico; ii) i dirigenti scolastici, medici, veterinari e
sanitari del Servizio sanitario nazionale.
Nell’ambito
di questa disposizione è necessario aggiungere una norma che chiarisca la non
diretta applicazione della riforma al sistema delle autonomie regionali
speciali, le quali, se lo riterranno opportuno, potranno adeguare i propri
ordinamenti al nuovo sistema della Dirigenza della Repubblica.
Si
potrebbe, pertanto, aggiungere il seguente comma: «Restano ferme le
attribuzioni e le prerogative riconosciute alle Regioni a statuto speciale e
alle province autonome di Trento e Bolzano dagli statuti speciali di autonomia
e dalle relative norme di attuazione».
2. Rapporto
di lavoro e qualifica dirigenziale (art. 13).
2.1. L’art. 13, introdotto dall’art. 2 del decreto prevede, al primo
comma, che «la qualifica dirigenziale è unica». Non è più riprodotta la
disposizione dell’art. 23 del d.lgs. n. 165 del 2001 che distingueva, nella
fase di accesso alla dirigenza, due fasce distinte, con la conseguenza che «ogni
dirigente iscritto nei ruoli di cui all’art. 13-bis, e in possesso dei
requisiti previsti dalla legge, può ricoprire qualsiasi incarico dirigenziale».
Il secondo
comma dell’art. 13 dispone che: «le amministrazioni pubbliche, in relazione
alla complessità organizzativa e alla necessità di coordinare diversi uffici
dirigenziali, possono articolare gli uffici dirigenziali in diversi livelli di
responsabilità, anche introducendo la distinzione tra incarichi dirigenziali
generali e altri incarichi dirigenziali, assicurando comunque l’invarianza
della spesa complessiva per il personale dirigente».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
Il
legislatore, in ragione della incidenza della riforma sull’assetto
organizzativo delle singole amministrazioni, conferisce ad esse il potere di
adeguare detto assetto alla nuova regolazione.
Questa
previsione deve essere interpretata in modo conforme alla legge delega e,
pertanto, essa non può costituire la base normativa per una reintroduzione,
nella fase di organizzazione degli uffici, di differenziazioni interne
all’unica qualifica.
La connessione
tra qualifiche dirigenziali e tipologie di incarichi assume rilevanza nella
disciplina vigente in ragione della possibilità di assegnare determinati
incarichi soltanto ai dirigenti inseriti nella prima fascia. La soppressione
della distinzione in fasce rende non necessario il richiamo alla tipologia di
incarichi, anche in ragione del fatto che il Capo III dello schema di decreto
disciplina in modo organico la tipologia di incarichi che possono essere
attribuiti. Per questi motivi si propone di eliminare l’inciso «anche
introducendo la distinzione tra incarichi dirigenziali generali e altri
incarichi dirigenziali»
2.2. Il comma
3 dell’art. 13 dispone che: «il rapporto di lavoro di ciascun dirigente è
costituito con contratto di lavoro a tempo indeterminato, stipulato con
l’amministrazione che lo assume, all’esito delle procedure di cui agli articoli
28, 28-bis e 28-ter, con
contestuale iscrizione nei ruoli di cui all’art. 13-bis». La norma prosegue
disponendo che: «il successivo conferimento di incarico dirigenziale, da
parte di altra amministrazione, comporta la cessione a quest’ultima del
contratto di lavoro a tempo indeterminato, ferma restando l’iscrizione nel
ruolo». Si prevede, infine, che: «lo scioglimento del rapporto di lavoro
comporta la decadenza dai ruoli dirigenziali».
La
Commissione si limita a rilevare, sul piano formale, come la disciplina della
incidenza del conferimento di un successivo incarico sul contratto di lavoro
sia già contenuta, con disposizione sostanzialmente analoga, nell’art. 4
dedicato agli incarichi dirigenziali (II, 11.3).
2.3. Infine,
sempre sul piano formale, sarebbe opportuno invertire l’ordine di collocazione
dei tre commi in coerenza con lo sviluppo temporale del procedimento. La
disposizione potrebbe essere riformulata nei seguenti termini.
«1. Il
rapporto di lavoro del dirigente è costituito con contratto di lavoro a tempo
indeterminato, stipulato con l’amministrazione che lo assume, all’esito delle
procedure di cui agli articoli 28, 28-bis e 28-ter, con
contestuale iscrizione nei ruoli di cui all’art. 13-bis. Lo scioglimento
del rapporto di lavoro comporta la decadenza dai ruoli dirigenziali.
2. La
stipulazione del contratto di lavoro comporta l’acquisizione della qualifica
dirigenziale. La qualifica è unica e consente a ogni dirigente iscritto nei
ruoli e in possesso dei requisiti dell’art. 19-bis di ottenere il conferimento di qualsiasi
tipologia di incarico.
3. Le
amministrazioni pubbliche, in relazione alla complessità organizzativa e alla
necessità di coordinare diversi uffici dirigenziali, possono articolare gli
uffici dirigenziali in diversi livelli di responsabilità, assicurando comunque
l’invarianza della spesa complessiva per il personale dirigente».
3. Sistema
della dirigenza pubblica (art. 13-bis).
L’art. 13-bis,
introdotto dall’art. 2 del decreto, prevede che il sistema della dirigenza è
costituito dal ruolo dei dirigenti statali, dal ruolo dei dirigenti regionali e
dal ruolo dei dirigenti locali.
3.1. Il comma
2 elenca le «amministrazioni» che possono procedere, all’atto
dell’assunzione, all’inserimento dei dirigenti nel ruolo dei dirigenti statali.
Nell’elencazione sono inclusi esclusivamente «gli uffici del Consiglio di
Stato» e «della Corte dei conti» e non anche i dirigenti degli “altri”
uffici giudiziari.
Per quanto
i dirigenti che operano negli uffici dell’autorità giudiziaria ordinaria siano
collocati, sul piano organizzativo, nell’ambito del Ministero della Giustizia,
sarebbe opportuna una loro espressa menzione in modo da assegnare, in coerenza
con il principio storico di sostanziale omogeneità dei sistemi di trattamento
tra i diversi ordini magistratuali, valenza unitaria a tale sistema e
consentire, valorizzando le specifiche competenze, un loro inserimento nelle
sezioni speciali del ruolo della dirigenza (v. successivo punto). In
alternativa, anche gli uffici espressamente indicati dovrebbero essere
sottratti dal perimetro della riforma stessa per ricomporre l’unitarietà del
sistema delle Magistrature.
3.2. Il comma 5 dispone che: «in ciascuno dei Ruoli della dirigenza
possono essere costituite sezioni speciali, per le categorie dirigenziali
professionali e tecniche individuate dal Regolamento di cui all’articolo 28-sexies».
La predetta
norma dà attuazione alla previsione della legge delega nella parte in cui
prevede che, nell’ambito del ruolo, devono essere previste «sezioni per le
professionalità speciali» (art. 11, comma 1, lettera a, n. 1).
La
Commissione speciale rileva come il contenuto di tale disposizione sia
apprezzabile, in quanto la sua attuazione potrebbe consentire, in coerenza con
i principi costituzionali che definiscono il modello di dirigenza pubblica, di
valorizzare le specifiche professionalità acquisiste nell’esercizio di
determinate funzioni dirigenziali. In questa ottica, è necessario che la norma
non contempli un potere discrezionale ma un obbligo, per la fonte
regolamentare, di provvedere all’articolazione del ruolo in sezioni speciali.
La dizione
«categorie dirigenziali», evocando una forma astratta di inquadramento,
non esprime un concetto del tutto corrispondente alle intenzioni del
legislatore delegante. Essendo, invece, necessario avere riguardo alle
effettive e concrete attività svolte nell’ambito di un determinato incarico
dirigenziale, si potrebbe sostituire l’espressione in esame con la seguente: «per
le funzioni dirigenziali che richiedono il possesso di professionalità speciali».
3.3. Il comma
6 dispone che: «il ruolo dei dirigenti regionali e il ruolo del dirigenti
locali sono istituiti previa intesa, rispettivamente, in sede di Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di
Trento e di Bolzano, e in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali».
La norma in
esame, nel prevedere un particolare meccanismo di istituzione dei ruoli dei
dirigenti regionali e locali, muove dall’implicito presupposto che viene in
rilievo la materia dell’organizzazione regionale e degli enti locali di
competenza residuale delle Regioni (I, 2.3.)
Lo schema
di decreto, pur in mancanza di una espressa enunciazione in tale senso, intende
introdurre una disciplina che rinviene il proprio fondamento giustificativo nel
principio di sussidiarietà legislativa.
E’
necessario, pertanto, accertare se siano state rispettate le condizioni che
presiedono al funzionamento della cosiddetta “chiamata in sussidiarietà” (I, 2.3): si espongono qui di seguito sia le ragioni per le quali tale
accertamento può avere esito positivo, sia i meccanismi che devono essere
attivati per il suo corretto funzionamento.
Questo
Collegio ritiene che le esigenze unitarie siano sussistenti. La previsione di
ruoli unici e coordinati è indispensabile per il funzionamento, sull’intero
territorio nazionale, delle nuove regole organizzative finalizzate ad
assicurare un trattamento eguale ai dirigenti che operano nel mercato.
La
disciplina appare limitata agli aspetti strettamente pertinenti e proporzionali
al perseguimento dell’obiettivo.
La leale
collaborazione è garantita dall’intesa in sede di Conferenza. Si tratta
dell’unico strumento cooperativo configurabile, non essendo possibile, in
ragione della specificità della regolazione, contemplare meccanismi di
coinvolgimento della singola Regione.
Nondimeno,
il Consiglio di Stato ritiene che la penetrante incidenza in ambiti legislativi
di spettanza regionali impone, alla luce della giurisprudenza costituzionale
sopra riportata, la previsione di modalità di cooperazione di maggiore
intensità. In questa prospettiva, è, pertanto, necessario chiarire che si deve
trattare di una «intesa forte». Si dovrebbe regolare anche la fase
eventuale del mancato raggiungimento dell’intesa che, evitando un indefinito
arresto procedimentale, assicuri l’assunzione finale di una decisione. Si
potrebbe, pertanto, prevedere lo svolgimento di reiterate trattative che
coinvolgono le autonomie regionali e locali e soltanto all’esito di esse
l’adozione da parte dello Stato di una decisione unilaterale. In particolare,
si potrebbe prevedere che nel caso in cui l’intesa non è raggiunta entro trenta
giorni dalla prima seduta della Conferenza in cui l’oggetto è posto all’ordine
del giorno, viene fissata una seconda seduta da tenersi entro i successivi
quindici giorni. In tale riunione lo Stato deve proporre un progetto di
decisione che prende in considerazione i rilievi che hanno impedito il
raggiungimento dell’accordo. Qualora non si pervenga ad una decisione finale,
la questione deve essere rimessa al Consiglio dei ministri e posta, di norma,
all’ordine del giorno della prima riunione del Consiglio dei ministri
successiva alla scadenza del termine per raggiungere l’intesa, assicurando la
partecipazione di organismi rappresentativi del sistema delle autonomie
regionali.
3.4. Il comma 7, primo inciso, prevede che: «Il Dipartimento della
funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, nell’ambito
delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione
vigente, provvede alla gestione dei ruoli della Dirigenza. A questo scopo, il
Dipartimento provvede alla tenuta e all’aggiornamento della banca dati del
Sistema della dirigenza pubblica, che contiene l’indicazione degli uffici
dirigenziali presso ciascuna delle amministrazioni statali, regionali e locali
e dei relativi titolari, nonché, per ciascun dirigente di ruolo, il curriculum
vitae, la collocazione nella graduatoria di merito adottata ai sensi degli
articoli 28-bis e 28-ter, il percorso professionale e gli esiti delle valutazioni. La banca
dati viene alimentata con i dati inseriti dalle amministrazioni e dai singoli
dirigenti. Le amministrazioni che non inseriscono i dati necessari alla
creazione e all’aggiornamento della banca dati non possono conferire incarichi
dirigenziali».
La
Commissione speciale rileva come tale disposizione, rientrante nella materia di
cui all’art. 117, secondo comma, lettera r, Cost.,
potrebbe presentare, in alcuni profili, questioni di compatibilità con la legge
delega.
La legge
delega prevede la «istituzione di una banca dati nella quale inserire il curriculum vitae, un profilo professionale e gli esiti delle
valutazioni» per ciascun
dirigente dei ruoli della Dirigenza, con «affidamento
al Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei
ministri della tenuta della banca dati e della gestione tecnica dei ruoli, alimentati
dai dati forniti dalle amministrazioni interessate» (art. 11,
comma 1, lettera a). La
stessa legge attribuisce la gestione del ruolo unico, per i dirigenti regionali
e locali, ad una apposita Commissione per la dirigenza regionale e locale (art.
11, comma 1, lettera b, n. 2).
In primo
luogo, la norma del decreto, nella parte in cui prevede che la gestione (senza
ulteriori qualificazioni) dei tre ruoli spetti al Dipartimento della funzione
pubblica, si potrebbe porre in contrasto con la legge delega, che, invece, come
appena sottolineato, da un lato, affida al predetto Dipartimento solo la «gestione
tecnica», dall’altro, attribuisce la gestione del ruolo unico, per i
dirigenti regionali e locali, ad una apposita Commissione per la dirigenza
regionale e locale.
L’armonia
dei testi normativi può essere agevolmente ricomposta mediante l’aggiunta, dopo
«gestione», dell’espressione «tecnica», idonea a chiarire che le
funzioni sono connesse, in particolare alla gestione della banca dati del
sistema della dirigenza pubblica.
In secondo
luogo, la previsione dell’impossibilità di conferire incarichi per le
amministrazioni che non adempiono all’obbligo di inserire i dati nella banca
dati non rinviene un espresso fondamento nella legge delega. Tale prescrizione si
risolve in una sostanziale sanzione nei confronti dei dirigenti per un
inadempimento posto in essere dalle amministrazioni. Il Consiglio di Stato è
consapevole dell’importanza di forme di deterrenza finalizzate ad evitare che
la mancata collaborazione di alcuni soggetti pubblici possa incidere sul
complessivo funzionamento della banca dati ostacolandone la concreta
attuazione. Si potrebbe, pertanto, prevedere che la sanzione per la mancata
cooperazione per le singole amministrazioni sia costituita dal divieto di
bandire concorsi finché dura l’inadempimento. Nella fonte regolamentare (II, 8) potrebbero poi essere disciplinati poteri sollecitatori del
Dipartimento della funzione pubblica, che ricomprendono assegnazione di termini
per l’adempimento e nomina di eventuali commissari ad acta.
Il Governo
dovrebbe, in coerenza con il principio di effettività, valutare anche
l’opportunità di prevedere un regime di sperimentazione e di progressiva
entrata in vigore del nuovo sistema di gestione tecnica della banca dati al
fine di essere certi del corretto funzionamento di questo meccanismo
fondamentale per l’attuazione della riforma.
Capo II.
Reclutamento e formazione.
4. Accesso
alla dirigenza (art. 28).
L’art. 28,
introdotto dall’art. 3 dello schema di decreto, disciplina le modalità di
accesso alla dirigenza.
4.1. Il
vigente art. 28 prevede, per la dirigenza statale, due modalità di accesso alla
qualifica di dirigenza di seconda fascia: concorso indetto dalle singole
amministrazioni ovvero corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla
Scuola superiore della pubblica amministrazione (comma 1). Tale normativa, a
seguito delle modifiche apportate dal d.P.R. 13 aprile 2013, n. 40, demanda ad
un regolamento governativo di esecuzione di definire «le percentuali, sul
complesso dei posti di dirigente disponibili, riservate al concorso per esami e
al corso-concorso» (comma 5).
Il vigente
art. 28-bis prevede,
invece, che l’accesso alla qualifica di dirigente di prima fascia avvenga
all’esito di un concorso pubblico per titoli ed esami cui possono essere
ammessi, tra gli altri, «i dirigenti di ruolo delle pubbliche
amministrazioni, che abbiano maturato almeno cinque anni di servizio nei ruoli
dirigenziali».
La legge
delega ha modificato le modalità di accesso prevedendo, a seguito del
superamento delle due fasce, un’unica procedura. In particolare, si dispone che
la qualifica dirigenziale può essere assunta per «corso-concorso» e per
«concorso»: il primo ha «cadenza annuale» per «ciascuno dei
tre ruoli» e per «un numero fisso di posti, definito in relazione al
fabbisogno minimo annuale del sistema amministrativo» (art. 11, comma 1,
lettera c, n. 1); il
secondo ha «cadenza annuale» per «ciascuno dei tre ruoli» e per «un
numero di posti variabile, per i posti disponibili nella dotazione organica e
non coperti del corso-concorso».
A regime,
lo schema di decreto dispone che: i) «il
corso-concorso è bandito ogni anno per il numero di posti definiti sulla base
della programmazione triennale delle assunzioni da parte delle amministrazioni,
e delle relative richieste»; ii) «al
reclutamento mediante concorso si procede esclusivamente per i posti di
qualifica dirigenziale autorizzati dal Dipartimento della funzione pubblica per
i quali si pongono esigenze non coperte dalla programmazione triennale».
In sede di
prima applicazione, lo schema di decreto prevede che: «il Dipartimento della
funzione pubblica effettua una ricognizione degli uffici coperti mediante
incarichi dirigenziali, anche tenuto conto della istituzione, negli enti locali
privi della dirigenza, della figura del dirigente apicale di cui all’art. 27-bis».
La stessa disposizione aggiunge che: «a decorrere dalla predetta
ricognizione, il Dipartimento della funzione pubblica di concerto con il
Dipartimento della ragioneria generale dello Stato autorizza annualmente
procedure concorsuali, assicurando una giusta proporzione tra personale
dirigenziale e personale non dirigenziale nelle diverse amministrazioni e
prevedendo, ove necessario, una graduale riduzione del numero complessivo dei
dirigenti e garantendo l’equilibrio complessivo dei saldi di finanza pubblica
in relazione alla spesa del personale dirigente in servizio nel triennio di
riferimento». Infine, si dispone che: «le amministrazioni interessate
adottano le conseguenti misure inerenti all’assetto organizzativo».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
Innanzitutto,
sarebbe opportuno chiarire quale sia il rapporto tra l’indizione del
corso-concorso e le procedure di selezione dei dirigenti (II, 12): lo schema di decreto sembra assegnare rilevanza alle «richieste»
delle amministrazioni ai fini dell’indizione del predetto concorso, senza,
però, specificare come debba essere orientata la scelta tra le due modalità di
reclutamento.
In secondo
luogo, si pone in rilievo la possibile non piena conformità della regolazione
del sistema a regime ai criteri della legge delega.
La scelta
del legislatore delegante è stata quella di valorizzare, anche nell’ottica di
favorire l’ingresso di un numero più elevato di giovani, il corso-concorso
rispetto al concorso. E’ stata, infatti, posta una regola di preferenza fondata
sulla previsione di «posti fissi» banditi annualmente per il
corso-concorso e «posti disponibili» non coperti dal primo e dunque
“variabili”, banditi anch’essi annualmente per il corso-concorso.
La
previsione del Governo è rispettosa del principio di valorizzazione del
corso-concorso ma fonda la regola di preferenza non sul dato oggettivo del
rapporto “posti fissi” e “posti disponibili” ma sul dato soggettivo costituito
dal giudizio del Dipartimento della funzione pubblica, basato sul presupposto,
peraltro di non chiaro significato, della sussistenza di «esigenze non
coperte dalla programmazione triennale».
Questa
parziale discrasia può essere superata mediante la formulazione di un testo
normativo che, in ragione dell’analiticità della previsione della legge delega,
ne recepisca, sostanzialmente, il contenuto (per i rilievi riferiti al regime
transitorio si v. oltre 4.4).
Si propone
la seguente formulazione:
«Il
corso-concorso è bandito ogni anno per il numero di posti definiti sulla base
della programmazione triennale delle assunzioni da parte delle amministrazioni
e delle relative richieste. Al reclutamento mediante concorso si procede per i
posti di qualifica dirigenziale disponibili nella dotazione organica e rimasti
non coperti dal corso-concorso».
4.2. Il comma 3 demanda al regolamento di disciplinare: a) i criteri
per la composizione e la nomina delle commissioni esaminatrici dei concorsi; b)
i criteri di selezione dei partecipanti; c) i criteri per la valutazione dei
titoli; d) la durata, l’articolazione del corso-concorso, le modalità di
verifica degli apprendimenti e di formazione della graduatoria finale; e) la
durata e l’articolazione del ciclo formativo; f) i contenuti principali del
corso concorso e del ciclo formativo; g) tali contenuti in relazione anche alle
sezioni speciali.
La fonte
primaria ha attribuito al regolamento la disciplina della fase della procedura
concorsuale, nonché quella della formazione professionale. Le questioni poste
da questa modalità attuativa, inserendosi essa nell’ambito dell’ampia
previsione dell’art. 28-sexies, saranno analizzate nel prosieguo.
4.3. Il comma
4 prevede che: «Restano ferme le vigenti disposizioni di accesso alle
qualifiche dirigenziali delle carriere diplomatica e prefettizia, delle Forze
di polizia, delle Forze armate e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco. Con
il consenso delle relative amministrazioni, con il corso-concorso e con il
concorso può tuttavia essere reclutato il personale della carriera diplomatica
e della carriera prefettizia, nonché quello della carriera dirigenziale
penitenziaria e delle autorità indipendenti, purché le relative amministrazioni
abbiamo preventivamente comunicato il relativo fabbisogno».
La
Commissione speciale pone in evidenza l’esigenza di integrare la prima parte
del precetto mediante l’inserimento anche della qualifica dirigenziale della «carriera
penitenziaria». E’ necessario, invece, eliminare nella seconda parte il
riferimento: i) alla «carriera
diplomatica» e alla «carriera prefettizia» che, per le loro
peculiari specialità, non possono essere oggetto, neanche con il consenso dei
rispettivi Ministeri, di “negoziazione” volta a creare sovrapposizioni non
conformi al principio di buona amministrazione e contrastanti con il carattere
che, per i diplomatici e per i prefetti, assuma la complessa e difficile prova
di concorso, che è il primo elemento distintivo della tipicità di quella
carriera; ii) alle «autorità
indipendenti», in ragione della loro peculiare collocazione organizzativa
che impone il riconoscimento di una piena autonomia e separazione anche in
relazione alla regolazione della fase concorsuale in esame.
4.4. Il comma
5 dispone che: «alla dirigenza regionale e alla dirigenza locale si accede
per corso-concorso o per concorso» nel rispetto delle modalità sopra indicate.
La norma aggiunge che «le intese di cui all’art. 13-bis, comma 6,
disciplinano la programmazione del reclutamento e i contenuti specifici delle
materie oggetto del corso-concorso e del concorso per i dirigenti regionali e
locali».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
La
disciplina delle modalità di accesso alla dirigenza rientra nelle materie
dell’organizzazione amministrativa e della formazione professionale con la
conseguente ripartizione delle competenze tra i livelli istituzioni di Governo,
statale e regionali, secondo le regole già indicate (I, 2.3.).
Ne consegue
che il coinvolgimento del sistema delle autonomie regionali e locali nella fase
attuativa non può essere limitato ai profili contenuti nella norma in esame ma
deve essere esteso a tutti gli ambiti di rilevanza organizzativa e formativa
che riguardano i dirigenti regionali e locali. In particolare, in relazione al
regime transitorio, l’intesa in sede di Conferenza deve necessariamente
ricomprendere l’attività di ricognizione dei posti dirigenziali disponibili e
la programmazione delle assunzioni.
Per quanto
attiene allo sviluppo applicativo della fonte primaria demandato al regolamento
governativo anche in questo ambito, per le ragioni indicate oltre (II, 8), dovranno essere assicurare modalità procedimentali di adozione
che assicurino il rispetto del principio di leale cooperazione.
Sul piano
formale, è opportuno non demandare alle intese la funzione di disciplinare i profili
sopra riportati, facendo così assurgere le stesse intese a fonte del diritto,
ma occorre prevedere che l’attività oggetto della previsione in esame venga
stabilita previa intesa con la Conferenza di cui all’art. 13-bis, comma
6.
5.
Corso-concorso per l’accesso alla dirigenza (art. 28-bis).
L’art. 28-bis,
introdotto dall’art. 3 dello schema di decreto, disciplina il corso-concorso
per l’accesso alla dirigenza.
5.1. Il comma
1 prevede che «al corso-concorso per l’accesso alla dirigenza si accede
mediante concorso per esami».
La norma in
esame deve essere completata mediante la previsione, oggi contenuta nel primo
comma dell’art. 28, che sancisca che il corso-concorso, per la dirigenza
statale, è «bandito dalla Scuola nazionale della pubblica amministrazione».
5.2. Il comma 2 dispone che «possono partecipare al
corso-concorso(…) i cittadini di uno degli Stati membri dell’Unione europea in
possesso di una laurea specialistica o magistrale o titoli equipollenti
conseguenti all’estero, oppure del diploma di laurea conseguito secondo gli
ordinamenti didattici previgenti al decreto ministeriale 3 novembre 1999, n.
509. Il regolamento di cui all’art. 28-sexies individua la soglia di partecipanti al di sopra
della quale possono essere previsti criteri di preselezione, ivi inclusi
precedenti esperienze professionali o titoli post-laurea».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
L’art. 28,
comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001 prevedeva che occorresse, ai fini della
partecipazione, anche un titolo post-laurea.
Il d.p.r.
16 aprile 2013, n. 70 ha modificato il sistema prevedendo che: «i candidati
non dipendenti pubblici devono essere in possesso almeno della laurea
specialistica o magistrale oppure del diploma di laurea conseguito secondo gli
ordinamenti didattici previgenti al decreto ministeriale 3 novembre 1999, n.
509; i candidati già dipendenti di amministrazioni pubbliche devono essere in
possesso almeno della laurea triennale con esperienza professionale almeno
triennale nell'ambito della pubblica amministrazione».
La legge
delega dispone che occorre essere in possesso di un titolo di studio non
inferiore alla laurea magistrale (art. 11, lettera c, n. 1).
Nella
relazione illustrativa allo schema di decreto si afferma che è necessario, ai
fini della partecipazione, essere in possesso di un titolo post -laurea.
A fronte
della rilevata discrasia tra testo dello schema di decreto e relazione
illustrativa e alla luce della discrezionalità che la legge delega, sul punto,
conferisce al Governo è opportuno che questo aspetto di disciplina venga
chiarito.
5.3. Il comma 5 dispone che: «i vincitori del corso-concorso sono
immessi in servizio come funzionari, per un periodo di tre anni, presso le
amministrazioni presso le quali sono stati banditi i posti, tenuto conto dell’ordine
di graduatoria». La stessa norma prevede che «l’amministrazione presso
la quale il vincitore presta servizio può ridurre il suddetto periodo fino ad
un anno in relazione all’esperienza lavorativa maturata nel settore pubblico o
a esperienze all’estero, secondo le previsione del Regolamento di cui all’art.
28-sexies», aggiungendo che «ai vincitori sono attribuiti incarichi
dirigenziali temporanei, per una durata non superiore al suddetto periodo».
Il comma 5
disciplina la fase successiva alla conclusione del periodo di prova, disponendo
che: «l’amministrazione presso la quale i vincitori del corso-concorso hanno
prestato servizio trasmette alla Commissione di cui all’art. 19» (II, 9) «una relazione contenente una valutazione di merito sul
servizio prestato. In caso di valutazione positiva, l’amministrazione presso la
quale il vincitore ha prestato servizio assume il dipendente come dirigente a
tempo indeterminato, e gli conferisce un incarico senza l’espletamento della
procedura concorsuale di cui all’art. 19-ter» (II, 11). «Il dirigente assunto a tempo indeterminato consegue
automaticamente l’iscrizione nel Ruolo della dirigenza statale. In caso di
valutazione negativa, l’interessato non consegue l’assunzione in servizio come
dirigente a tempo indeterminato e si applica quanto previsto dal comma 7».
Il comma 7
regola, oltre a quanto previsto da tale ultima prescrizione, la sorte dei
partecipanti al corso-concorso che, pur ottenendo una valutazione finale di
sufficienza, non risultino vincitori, disponendo che «sono assunti a tempo
indeterminato nel livello di inquadramento giuridico più elevato fra le
qualifiche non dirigenziali, salvo che già non rivestano tale qualifica, o
comunque optino per il mantenimento dell’inquadramento in essere».
La
Commissione speciale prospetta i seguenti rilievi in ordine di rilevanza
gradata.
In primo
luogo, potrebbe porsi un problema di compatibilità con quanto stabilito dalla
legge delega.
L’art. 11,
comma 1, lettera c), n. 1
dispone la «immissione in servizio dei vincitori del corso-concorso come
funzionari, con obblighi di formazione, per i primi tre anni, con possibile
riduzione del suddetto periodo in relazione all'esperienza lavorativa nel
settore pubblico o a esperienze all'estero e successiva immissione nel ruolo
unico della dirigenza da parte delle Commissioni di cui alla lettera b) sulla
base della valutazione da parte dell'amministrazione presso la quale è stato
attribuito l'incarico iniziale» (art. 11, comma 1 lettera, c).
La ragione
giustificativa della norma è quella di prevedere un periodo di formazione dei
vincitori di un concorso cui si può accedere, a differenza della seconda
modalità prevista, senza necessità di avere maturato un periodo di pregressa
esperienza lavorativa.
Nella legge
delega non è, però, contemplata la possibilità che a coloro che ottengono una
valutazione positiva sia attribuibile un incarico dirigenziale «senza
l’espletamento della procedura comparativa». Non potrebbe ritenersi questo
un necessario completamento attuativo del criterio direttivo, il quale, come già
esposto, ha già in sé una sua autonoma giustificazione.
In secondo
luogo, la norma potrebbe porre un’ulteriore questione di costituzionalità con
riferimento all’art. 97 della Costituzione.
Il modello
costituzionale di dirigenza presuppone, come già sottolineato, che il
legislatore preveda regole obiettive di garanzia nelle diverse fasi di
svolgimento del procedimento di conferimento dell’incarico in grado di evitare
forme di non consentita commistione tra funzioni politiche e gestionali. Nel
caso in esame dette regole non sono affidate, com’è previsto in generale, al
rispetto di criteri selettivi nell’ambito di una procedura comparativa ma ad
una «valutazione di merito sul servizio prestato». Tale valutazione
presenta profili di criticità sia per la mancanza di puntuali criteri che
devono presiedere al giudizio finale sia perché si attribuisce detto giudizio
alla stessa amministrazione con un ruolo di controllo della Commissione che,
per le ragioni che verranno esposte e per la stessa natura di una valutazione
che si sottrae ad una effettiva verifica estrinseca, non può rappresentare
garanzia di imparzialità.
In terzo
luogo, la normativa in esame, in una delle sue possibili evoluzioni
applicative, regola un momento organizzativo diverso da quello che riguarda la
dirigenza pubblica, incidendo sulla dotazione organica dei funzionari e
direttamente anche sulle autonome scelte organizzative delle Regioni e degli
Enti locali che hanno individuato sia le posizioni dirigenziali, che in tal
modo restano scoperte, sia quelle dei funzionari in senso stretto (cfr.
Corte cost. n. 37 del 2015, che, sia pure ad altro fine, sottolinea la
necessità di tenere separate, nella fase di accesso, funzioni dirigenziali e di
funzionario).
In
definitiva, il Consiglio di Stato, pur comprendendo le ragioni della
previsione, ritiene che essa, per come formulata, presenti plurimi dubbi di
compatibilità costituzionale, accentuati dalla genericità della previsione
stessa.
6. Concorso
per l’accesso alla dirigenza (art. 28-ter).
L’art. 28-ter,
introdotto dall’art. 3 dello schema di decreto, prevede che «il concorso per
l’accesso alla dirigenza è bandito dal Dipartimento della funzione pubblica
della Presidenza del Consiglio dei ministri».
Il comma 4
dispone che: «dopo i tre anni di servizio, come dirigenti con rapporto di
lavoro a tempo determinato, i vincitori sono soggetti a un esame di conferma,
volto a verificare la concreta attitudine e capacità manageriale, da parte di
una apposita commissione nominata dalla Commissione per la dirigenza statale».
Il
Consiglio di Stato rileva quanto segue.
La
previsione in esame rappresenta il completamento sistematico del quadro
relativo al giudizio di idoneità a svolgere funzioni manageriali da parte dei
soggetti vincitori del concorso.
Nel caso
del corso-concorso, come già sottolineato, è previsto un vero e proprio periodo
di formazione. Nel caso del concorso è prevista una verifica sull’attività
svolta. La diversità di regime risulta conforme al principio di ragionevolezza,
in ragione della oggettiva diversità dei requisiti e dei presupposti che devono
sussistere ai fini dell’accesso diversificato alla dirigenza.
Anche in
questo caso sono presenti criticità connesse alla genericità della previsione.
La legge
delega (art. 11, lettera c, n. 2)
prevede che venga nominato un «organismo indipendente». Il legislatore
delegato si è limitato a disporre che detto organismo venga nominato dalla
Commissione per la dirigenza statale. Sarebbe, invece, opportuno che
l’attuazione del criterio direttivo avvenga mediante la puntuale declinazione
della composizione di questo organismo e dei criteri che ne devono guidare il
giudizio. Il Consiglio di Stato suggerisce di indicare queste modalità
operative nel regolamento di esecuzione, con il coinvolgimento del sistema
delle Conferenze in presenza di dirigenti regionali o locali (II, 8).
7. Scuola
nazionale dell’amministrazione (art. 28-quinquies).
L’art. 28-quinquies,
introdotto dall’art. 3 dello schema di decreto, detta una nuova disciplina
della Scuola nazionale dell’amministrazione, disponendo che essa «è
trasformata, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, in agenzia,
dotata di personalità giuridica di diritto pubblico e di autonomia
regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e
finanziaria, sottoposta alla vigilanza della Presidenza del Consiglio dei
ministri» (comma 1). La stessa disposizione prevede che «la Scuola
svolge funzioni di reclutamento e formazione del personale delle pubbliche
amministrazioni, anche avvalendosi di istituzioni nazionali e internazionali di
riconosciuto prestigio» (comma 2).
Nei commi
successivi viene dettata una disciplina articolata del nuovo organismo.
La
Commissione speciale rileva criticamente come l’impianto complessivo della
nuova regolazione sia rimasto fermo ad una visione incentrata su attività
didattiche tradizionali mediante la previsione di corsi assimilabili a quelli
universitari piuttosto che a forme nuove di formazione teorico-pratica in grado
di preparare al meglio i futuri dirigenti della Repubblica.
Inoltre,
gli obiettivi di formazione della Scuola devono essere specificamente calibrati
sulla figura del dirigente e non sull’intero personale delle pubbliche
amministrazioni.
Il settore
della formazione ha risentito delle esigenze di contrazione delle risorse che
hanno condotto alla costituzione di un «Sistema unico del reclutamento e
della formazione pubblica», il quale ha assorbito anche funzioni “storiche”
di formazione in settori peculiari (quali, ad esempio, Ministeri degli esteri e
dell’interno) con esiti negativi per la stessa qualità delle attività formative
(cfr. d.p.r. n. 70 del 2013). In contraddizione con tali esigenze è stato
poi ampliato l’organico stabile dei docenti dando spazio ad altri “Professori”
piuttosto che a veri e propri “Formatori”.
Si invita,
pertanto, il Governo a rivedere la struttura complessiva di questa parte del
testo, modificandola, con prescrizioni puntuali, in modo da assicurare
preminenza alla formazione operativa come linea guida fondante la nuova Scuola
prefigurata dalla riforma.
7.1. Il comma
3 dispone che: «Con decreto del Presidente della Repubblica, emanato ai
sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su
proposta del Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica
amministrazione di concerto con il Ministero dell’economica e delle finanze,
formulata previa interlocuzione con istituzioni nazionali ed internazionali di
riconosciuto prestigio, previa acquisizione del parere della Conferenza
unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281,
è adottato lo Statuto della Scuola».
Il
Consiglio di Stato pone in rilievo la genericità della prevista interlocuzione
con istituti nazionali ed internazionali di riconosciuto prestigio, che
dovrebbe essere regolata in modo più puntuale, mediante il rinvio, ad esempio,
ad un atto del Presidente del Consiglio dei ministri che individui puntualmente
detti istituti su proposta della Conferenza dei Rettori e/o di altri organismi,
anche stranieri, indipendenti.
Inoltre, il
richiamo al parere della Conferenza dovrebbe essere sostituito, per le sole
implicazioni sulla dirigenza regionale e locale, dalla previa intesa secondo il
modello generale più volte indicato (II, 3.3.).
7.2. Il comma
6 prevede che: «Il Direttore è vertice dell’istituzione, ne ha la
rappresentanza legale, e presiede il Comitato direttivo e il Comitato
scientifico di cui al comma 11. Il Comitato direttivo approva i programmi di
attività della Scuola, formula indirizzi relativi ai contenuti dei corsi e dei
cicli di formazione, stabilisce i criteri per la selezione dei docenti, approva
i bilanci e le relative variazioni, adotta gli altri provvedimenti previsti
dallo stato o dai regolamenti della Scuola».
Il comma 11
dispone che: «Lo statuto prevede la costituzione di un Comitato scientifico,
composto da non oltre dieci professori universitari o esperti, anche stranieri,
di comprovata qualificazione scientifica, nonché da rappresentati di
istituzioni di riconosciuta eccellenza nella sezione e formazione del
personale, che formula al Direttore il parere sui programmi di attività, e
svolge attività consultiva e istruttoria, su richiesta del Direttore».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
In primo
luogo, occorre meglio chiarire i rapporti tra il Comitato direttivo ed il
Comitato Scientifico che è previsto, sembra obbligatoriamente, dallo Statuto
con funzioni in parte analoghe o sovrapponibili al primo.
In secondo
luogo, va chiarita l’esatta composizione del Comitato scientifico e, in
particolare, se esso sia costituito da dieci soggetti scelti tra le categorie
indicate ovvero se dieci siano solo i professori universitari o esperti, cui si
aggiungono i rappresentanti di istituzioni di riconosciuta eccellenza nella
selezione e formazione del personale. Se si opta per questa seconda
interpretazione non risulta quale sia la massima dotazione dei suddetti
rappresentati e dunque la complessiva composizione del Comitato.
Infine,
appare generica e non adeguatamente giustificata la previsione del
conferimento, su richiesta del direttore, a tale Comitato scientifico di
funzioni consultive ed istruttorie non meglio specificate.
7.3 Il comma 17 prevede che: «il personale della Presidenza del
Consiglio dei ministri in servizio, alla data di entrata in vigore del presente
decreto, presso la Scuola nazionale dell’amministrazione–SNA è trasferito nei
ruoli della Scuola, fermo restando il diritto di opzione per gli uffici di
provenienza della Presidenza medesima».
La
Commissione speciale mette in rilievo la necessità di indicare il termine
decadenziale entro il quale la suddetta opzione deve essere esercitata. Tale
termine, in coerenza con quanto disposto dal precedente comma 16 della stessa
norma, potrebbe essere fissato in tre mesi.
8.
Regolamento di attuazione (art. 28-sexies).
8.1. L’art.
28-sexies, introdotto dall’art. 3 dello schema di decreto, dispone che:
«Con regolamento adottato ai sensi dell’art. 17, comma 1, della legge 23
agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministero delegato per la semplificazione
e la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell’economia e
delle finanze, sono definite le disposizioni di attuazione del presente Capo».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
Sul piano
del sistema delle fonti, è previsto un regolamento che, per gli aspetti
afferenti ai ruoli regionali e locali, incide su materie di competenza
regionale. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 303 del 2003, aveva
ritenuto che i cosiddetti “regolamenti sussidiari” non fossero ammissibili in
quanto in un sistema di riparto «rigidamente strutturato, alla fonte
secondaria statale è inibita in radice la possibilità di vincolare l'esercizio
della potestà legislativa regionale o di incidere su disposizioni regionali
preesistenti; e neppure i principî di sussidiarietà e adeguatezza possono
conferire ai regolamenti statali una capacità che è estranea al loro valore,
quella cioè di modificare gli ordinamenti regionali a livello primario».
La
successiva giurisprudenza costituzionale ha ammesso l’adozione di regolamenti
governativi anche in ambiti di competenza regionale attratti in sussidiarietà a
livello statale (Corte cost. n. 151 del 2005). La disciplina con legge statale
di una materia di competenza regionale si estende su tutto l’ambito materiale
rilevante, con la conseguenza che non sarebbe neanche astrattamente
prospettabile il rischio che una fonte statale secondaria possa condizionare
una non esercitata funzione legislativa regionale primaria. Ne consegue che lo
Stato potrà regolare la funzione amministrativa attratta in sussidiarietà con
atti normativi sia primari che secondari.
Chiarito
ciò, la Commissione speciale rileva, però, che lo schema di decreto demandi al
regolamento di stabilire regole attuative che incidono, per le parti relative
alla dirigenza regionale o locale, in ambiti di competenza delle Regioni. Le
modalità collaborative con il sistema delle autonomie che devono essere
assicurate nella fase di esercizio delle funzioni amministrative contemplate
nella fonte statale primaria devono, allo stesso modo, essere previste nella
fase di esercizio delle funzioni regolamentari in esame. Si potrebbe, pertanto,
estendere il meccanismo delle intese in sede di Conferenza anche ai fini
dell’adozione del regolamento in esame.
Capo III –
Incarichi dirigenziali e responsabilità.
9.
Premessa. Sistema di valutazione dei dirigenti.
Il Capo III
dello schema di decreto disciplina il rapporto di ufficio dei dirigenti e
dunque le modalità di conferimento degli incarichi e il sistema di
responsabilità dirigenziale.
Si è già
detto nella parte generale (I, 5.4) della
propedeuticità – o almeno della necessaria contestualità – della realizzazione
di un compiuto sistema di valutazione, complementare alla riforma della
dirigenza.
In questa
parte, si espongono, con maggiore dettaglio, le possibili conseguenze derivanti
dall’inserimento nell’ambito del nuovo disegno di riforma di norme e prassi
amministrative proprie del previgente sistema e non adeguate.
Il decreto
legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, prevede: i) un
complesso sistema di misurazione e valutazione dellaperformance che obbliga le singole amministrazioni a rispettare il cosiddetto
«ciclo di gestione della performance», articolato in diverse fasi
previste dall’art. 4 (definizione degli obiettivi e allocazione delle risorse;
monitoraggio in corso di esercizio; misurazione e valutazione della performance, organizzativa e individuale; utilizzo dei
sistemi premianti, secondo criteri di valorizzazione del merito;
rendicontazione dei risultati agli organi di indirizzo politico-amministrativo,
ai vertici delle amministrazioni, nonché ai competenti organi esterni, ai
cittadini, ai soggetti interessati, agli utenti e ai destinatari dei servizi; ii) una Commissione indipendente con il «compito di indirizzare,
coordinare e sovrintendere all'esercizio indipendente delle funzioni di
valutazione, di garantire la trasparenza dei sistemi di valutazione, di
assicurare la comparabilità e la visibilità degli indici di andamento
gestionale» (art. 13); nonché Organismi indipendenti di valutazione di cui
ogni amministrazione si deve dotare, con il compito, tra l’altro, di garantire
la correttezza dei processi di misurazione e valutazione, nonché di proporre
all’organo di indirizzo politico-amministrativo, la valutazione annuale dei
dirigenti di vertice (art. 14).
Tale
sistema presenta plurime criticità.
Innanzitutto,
manca un meccanismo che garantisca che gli organi di indirizzo politico
predetermino in modo idoneo e tempestivo gli obiettivi che i dirigenti devono
poi concretamente attuare nel rispetto dei principi costituzionali di
imparzialità e buon andamento.
Perché la
valutazione dell’attività dirigenziale possa correttamente svolgersi occorre
che i risultati da perseguire, predeterminati al momento del conferimento
dell’incarico dirigenziale, siano specifici, misurabili, ragionevolmente
realizzabili e collegati a precise scadenze temporali (cfr. art. 5 del
d.l. 6 luglio 2012, n. 95).
In secondo
luogo, sono previsti strumenti di valutazione tra di loro non omogenei, con il
rischio che laperformance di un
dirigente, per la medesima attività, venga valutata in modo differente dalle
singole amministrazioni che attribuiscono le funzioni dirigenziali. Si tratta
di un elemento di forte distonia in un sistema basato sul ruolo unico e sulla
conseguente partecipazione alle procedure di selezione di dirigenti provenienti
da differenti strutture organizzative.
In terzo
luogo, è necessaria la compiuta definizione dell’oggetto di valutazione che non
può essere il mero rispetto delle norme ma la capacità manageriale di
realizzare gli obiettivi tenendo separata la dimensione individuale della
condotta del dirigente dalla dimensione organizzativa. Si muove in questa
giusta direzione la legge delega, la quale, per l’intero personale pubblico,
prevede lo «sviluppo di sistemi distinti per la misurazione dei risultati
raggiunti dall'organizzazione e dei risultati raggiunti dai singoli dipendenti»
(art. 17, comma 1, lettera r, cit.).
Infine, è
necessario costruire un sistema di maggiore efficienza ed autonomia dei
soggetti valutatori che sovraintendono alla stessa correttezza dei processi di
valutazione e che dovranno, necessariamente, coordinarsi con l’attività delle
Commissioni per la dirigenza (II, 9).
La
previsione di tale sistema può non essere ancora sufficiente, in quanto poi la
sua concreta attuazione richiede tempo e una necessaria fase sperimentale di
verifica dei meccanismi introdotti (I, 5.5). Tale
fase sperimentale costituisce una condizione essenziale per il funzionamento
del meccanismo e quindi per la legittimità della riforma.
In
definitiva, come si dirà meglio oltre, la previsione di un efficace sistema di
valutazione rappresenta una condizione indefettibile per la riforma (I, 5.2.) e potrebbe consentire la previsione, a monte, di un meccanismo
di conferimento degli incarichi connotato da maggiore obiettività e, a valle,
modalità di accertamento della responsabilità dirigenziale fondata
sull’effettivo mancato raggiungimento degli obiettivi al fine di evitare forme
“mascherate” di spoils
system e non
giustificate protrazioni degli incarichi dirigenziali.
10.
Commissioni per la dirigenza pubblica (art. 19).
10.1. L’art. 19, introdotto dall’art. 4 dello schema di decreto,
disciplina le «Commissioni per la dirigenza pubblica», prevedendo tre
Commissioni diverse per la dirigenza statale, regionale e locale.
In
particolare, il comma 1 dispone che: «E’ istituita la Commissione per la
dirigenza statale. La Commissione opera, in piena autonomia e con indipendenza
di giudizio e di valutazione, presso il Dipartimento della funzione pubblica
della Presidenza del Consiglio dei ministri, senza nuovi o maggiori oneri per
la finanza pubblica e nell’ambito delle risorse umane, strumentali e
finanziarie a legislazione vigente».
Il comma 2
prevede che la predetta Commissione svolge le seguenti rilevanti funzioni:
a) nomina
delle commissioni per l’esame di conferma dei vincitori del concorso;
b)
definisce, sentito il Dipartimento della funzione pubblica, i criteri generali,
ispirati ai principi di pubblicità, trasparenza e merito, per il conferimento
degli incarichi dirigenziali e ne verifica il rispetto;
c) accerta
l’effettiva adozione e il concreto utilizzo dei sistemi di valutazione al fine
del conferimento e della revoca degli incarichi;
d) procede
alla preselezione dei candidati al fine del conferimento degli incarichi
dirigenziali generali;
e) effettua
la valutazione di congruità successiva delle scelte effettuate dalle
amministrazioni per gli altri incarichi;
f) esprime
parere sui provvedimenti conseguenti all’accertamento della responsabilità
dirigenziale;
g) fornisce
un parere obbligatorio e non vincolante sulla decadenza dagli incarichi in caso
di riorganizzazione dell’amministrazione, da rendere entro trenta giorni dalla
richiesta, decorsi i quali il parere si intende favorevole.
Il
Consiglio di Stato rileva quanto segue.
Nel
complessivo disegno riformatore la Commissione per la dirigenza assume un ruolo
di primaria rilevanza per il funzionamento dei meccanismi che presiedono alla
nuova disciplina della dirigenza pubblica.
Sul piano
strutturale, si tratta di un soggetto che, per quanto incardinato presso il
Dipartimento della funzione pubblica, ha una sua autonomia collocandosi, in
funzione di garanzia, in una posizione intermedia di collegamento tra il
livello di governo politico e quello di amministrazione gestionale.
Sul piano
funzionale, svolge compiti di estrema importanza in tutte le fasi nevralgiche
di disciplina del rapporto di ufficio che vanno dalla scelta del dirigente, al
sistema di valutazione, fino al momento della cessazione dell’incarico. Ciò
allo scopo di assicurare che la relazione tra politica e amministrazione si
muova nella logica della differenziazione di funzioni coordinate e non in
quella della commistione di compiti politici e gestionali. Queste funzioni sono
indefettibili in un sistema, basato sul ruolo unico, che, ampliando la platea
dei possibili destinatari di incarichi dirigenziali, potrebbe consentire
l’innesto di meccanismi di interferenza politica non virtuosi nel procedimento
di conferimento degli incarichi dirigenziali.
Nello
specifico, in relazione ai singoli compiti attribuiti, quello di cui alla
lettera g) – che
contempla una sorta di silenzio-assenso in relazione ai pareri obbligatori e
non vincolanti aventi ad oggetto forme di decadenza dall’incarico per ragioni
organizzative – presenta profili di criticità.
La
decisione in ordine alla decadenza dagli incarichi per ragioni organizzative
potrebbe prestarsi ad usi strumentali da parte dell’amministrazione. Ed è per
questo che essa dovrebbe essere circondata da maggiori garanzie. Nella formulazione
proposta il dirigente sarebbe costretto a contestare, senza conoscerne le
ragioni, l’assenso da parte della Commissione alla misura adottata dalla
singola amministrazione.
Per tali
ragioni il parere della Commissione dovrebbe avere natura vincolante. In ogni
caso, l’esito naturale del decorso del termine dovrebbe essere rappresentato
dalla possibilità di prescindere dal parere con un obbligo di motivazione
rafforzato e non invece la sua trasformazione in atto tacito di assenso.
10.2 Il comma 3 dispone che la Commissione per la dirigenza statale è
composta da sette membri, di cui sono componenti permanenti: «il Presidente
dell’Autorità nazionale anti-corruzione, il Ragioniere generale dello Stato, il
Segretario generale del Ministero degli affari esteri e della cooperazione
internazionale e il Capo Dipartimento per gli affari interni e territoriali del
Ministero dell’interno, il Presidente della Conferenza dei rettori delle
università italiane, nonché due componenti scelti tra persone di notoria indipendenza,
con particolare qualificazione professionale ed esperienza in materia di
organizzazione amministrativa».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
In primo
luogo, la disposizione in esame non sembra conforme ai criteri direttivi della
delega, la quale prevede che i componenti delle Commissioni sono «selezionati
con modalità tali da assicurarne l’indipendenza, la terzietà, l’onorabilità e
l’assenza di conflitti di interessi, con procedure trasparenti e con scadenze
differenziate, sulla base di requisiti di merito e incompatibilità con cariche
politiche e sindacali» (art. 11, comma 1, lett. b1). L’espressione «selezionati con modalità» demanda ad un
procedimento amministrativo che deve essere strutturato in modo da garantire la
scelta di soggetti in possesso dei requisiti sopra indicati. Lo schema di
decreto ha provveduto, invece, in contrasto con la legge delega, ad una diretta
indicazione normativa dei componenti stabili della Commissione. Anche in
relazione ai rimanenti due componenti la norma in esame si limita a disporre
che essi vengono «scelti» tra persone dotate di particolari qualità ma
non si indica il soggetto competente ad effettuare la scelta e le modalità
procedimentali da seguire.
In secondo
luogo, l’individuazione legislativa non appare, in alcuni casi, conforme ai
criteri che devono sottostare alla “selezione” dei singoli membri. Nella
disposizione in esame sono, infatti, individuati soggetti, quali il Segretario
generale e il Capo dipartimento di un Ministero, che, oltre ad essere soggetti
provenienti da carriere esterne all’ambito di applicazione della riforma, si
trovano in una posizione di non piena indipendenza dall’organo politico. Tali
uffici, infatti, si collocano nella struttura organizzativa delle pubbliche
amministrazioni in una peculiare posizione di maggiore vicinanza al livello
politico rispetto a quello gestionale. Il rischio di commistione è ancora più
accentuato in quanto, come si dirà oltre, la nomina dei dirigenti di vertice è
sottratta all’obbligo della previa procedura di selezione comparativa con
avviso pubblico (sul punto si vedano i rilievi subII, 11.1). Se, pertanto, la finalità dell’istituzione di una Commissione è
quella di creare un anello di congiunzione indipendente tra apparti politici e
dirigenziali l’indicazione dei componenti in esame non si pone in una linea di
coerenza con il fine perseguito. Sotto altro aspetto, perplessità possono
sollevarsi anche in ordine alla scelta di indicare, come componente di diritto,
in ragione della dubbia competenza specifica in questo ambito, il Presidente
della Conferenza dei rettori delle Università italiane.
Infine, si
pone una rilevante questione di fattibilità concreta del modello di Commissione previsto. Lo schema di decreto
ha, infatti, assegnato la pluralità delle funzioni, sopra indicate, a soggetti
che sono già impegnati a tempo pieno nell’espletamento di altri compiti,
connessi alle loro cariche, di assoluto rilievo. E’ alquanto difficile
ipotizzare che, in tale situazione, essi riescano ad assicurare l’espletamento,
nelle modalità e tempi previsti, delle ulteriori e nuove funzioni che
comprendono non solo la definizione di regole di condotta nella fase di
conferimento degli incarichi ma anche lo svolgimento di concreta attività
amministrativa che coinvolge la posizione di singoli dirigenti. Il
funzionamento dei lavori della Commissione impone pertanto, fermo quanto sopra
esposto su un piano generale, da un lato, che i componenti di essa siano
dedicati in via esclusiva all’esercizio di queste funzioni, dall’altro, che
essi vengano affiancati da soggetti dotati di elevata competenza ed
indipendenza, estranei alla compagine di governo, in grado di supportarli nel
concreto svolgimento delle funzioni in esame. Si potrebbe anche prevedere
un’eventuale articolazione della Commissione in Sottocommissioni, che
potrebbero essere anche dislocate a livello regionale e distinte sulla base del
criterio di competenza.
10.3. I commi 8
e 9 disciplinano, rispettivamente, la Commissione per la dirigenza regionale e
la Commissione per la dirigenza locale, disponendo che esse sono istituite con
l’intesa con la Conferenza unificata. La norma prevede che sono componenti di
diritto permanenti quelli già indicati per la Commissione per la dirigenza
statale, demandando all’intesa in sede di Conferenza l’individuazione degli
altri due componenti.
La
Commissione speciale rileva come questa previsione, oltre ad esporsi a tutti i
rilievi già formulati, si ponga in contrasto con le norme costituzionali che
definiscono le regole di riparto delle funzioni legislative (v. I, 2.3). L’imposizione alle Regioni e agli Enti locali di una Commissione
composta da cinque componenti individuati dal legislatore statale nell’ambito
di figure di rilievo nazionale viola, infatti, la competenza legislativa
regionale in materia di organizzazione. Lo Stato può, con legge, ritenere che
esigenze unitarie impongano la disciplina uniforme a livello nazionale delle
Commissioni per la dirigenza ma, in ossequio alle procedure di concertazione
con i livelli di governo coinvolti, deve prevedere che le funzioni
amministrative di scelta di tutti i Commissari vengano esercitate previa intesa
con il sistema delle Conferenze.
10.4. Il Consiglio di Stato è consapevole che le modifiche proposte alle
regole di funzionamento della Commissione presuppongono interventi non
compatibili con la prevista regola della invarianza di spesa. Ma è altrettanto
consapevole che, senza il complessivo ripensamento di un meccanismo così
fondamentale nell’impostazione complessiva della riforma e senza la previsione
di modalità di reperimento delle necessarie risorse finanziarie, è difficile
dare vita ad una struttura organizzativa in grado di funzionare.
E’
necessario, pertanto, quale condizione indefettibile per la riforma (I, 5.2), che venga predisposto un diverso sistema di selezione
procedimentale dei componenti, con indicazione puntuale delle modalità che
devono essere seguite per assicurare il concreto e continuo funzionamento della
Commissione in ossequio ai principi di imparzialità, efficienza ed efficacia.
L’
eventuale mancata eliminazione di queste deficienze strutturali potrebbe
compromettere l’esercizio funzionale dei compiti assegnati alle Commissioni e,
a catena, in ragione della loro essenzialità nel nuovo sistema, la stessa
complessiva attuazione della riforma.
11.
Incarichi dirigenziali (art. 19-bis).
L’art. 19-bis,
introdotto dall’art. 4 dello schema decreto, detta norme relative: i) all’articolazione degli uffici dirigenziali, all’oggetto degli
incarichi, con prescrizione di applicare il principio di rotazione negli uffici
che presentano più elevato rischio di corruzione (commi 1-3); ii) alle modalità di conferimento di incarichi esterni (commi
4-5-10); iii) al
contenuto del contratto individuale che accede al provvedimento di nomina.
11.1. Il comma
4 dispone che: «Gli incarichi dirigenziali non assegnati attraverso i
concorsi o le procedure di cui all’art. 19-terpossono essere conferiti a
soggetti non appartenenti ai suddetti Ruoli, mediante procedure selettive e
comparative ed entro il limite, rispettivamente, del dieci per cento del numero
degli incarichi generali conferibili e dell’otto per cento del numero degli
incarichi dirigenziali non generali conferibili».
Nella
disciplina vigente il comma 6 dell’art. 19 dispone che gli incarichi possono
essere conferiti da ciascuna amministrazione, entro il limite del 10 per cento
della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli
e dell’8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda
fascia, a tempo determinato, fornendone esplicita motivazione, «a persone di
particolare e comprovata qualificazione professionale non rinvenibile nei ruoli
dell’amministrazione». La disposizione è chiara nell’assegnare una valenza
residuale agli incarichi esterni che sono attribuibili soltanto in mancanza di
dirigenti interni in grado di assolvere quei compiti e comunque sempre nel
rispetto del limite percentuale predeterminato.
La norma in
esame utilizza l’espressione «incarichi dirigenziali non assegnati»,
ripresa dalla legge delega (art. 11, comma 1, lettera g), di non agevole decifrazione.
Nella
Relazione illustrativa allo schema di decreto si fornisce la seguente
esplicitazione del concetto: «avendo la delega confermato la volontà di
avvalersi di aliquote di dirigenti assunti all’esterno della pubblica
amministrazione, viene meno la necessità di esperire una previa ricognizione
tra i dirigenti iscritti al ruolo unico (in possesso delle competenze richieste
per l’incarico) in quanto sarebbe difficoltoso effettuare la predetta
ricognizione sull’ampio numero di dirigenti iscritti al ruolo stesso». In
questa prospettiva, si dovrebbe esonerare l’amministrazione dalla previa
individuazione di soggetti interni alla categoria dei dirigenti in grado di
espletare quelle determinate funzioni, con conseguente previsione di una sorta
di “riserva di posti” a favore degli esterni dirigenti.
Questa
interpretazione non è condivisibile, perché: i) si
risolve in una sostanziale abrogazione dell’inciso in esame, che non avrebbe
così alcun significato, rimanendo fermo soltanto il limite percentuale al
conferimento dei predetti incarichi; ii) è
necessario valorizzare il principio di imparzialità e quello, ad esso connesso,
del concorso pubblico per l’acquisizione della qualifica dirigenziale, che
dovrebbe comportare l’assegnazione di una valenza residuale e marginale agli
incarichi esterni, che si possono prestare ad un «uso strumentale e
clientelare» (cfr. Corte cost. n. 252 del 2009); iii) potrebbe risultare non conforme ai principi di ragionevolezza
prevedere una aprioristica riserva di posti non giustificata dall’effettiva mancanza
di professionalità interne.
Né varrebbe
rilevare che la ricerca interna di dirigenti dotati delle competenze necessarie
allo svolgimento di quella determinata funzione amministrativa sarebbe «difficoltosa»
per «l’ampio numero di dirigenti iscritti al ruolo stesso». Si tratta,
infatti, di un possibile “inconveniente di fatto” privo, in quanto tale, di
rilevanza giuridica e comunque non del tutto rispondente al reale svolgimento
del procedimento che, comprendendo la fase dell’interpello, limita l’analisi
dei profili professionali a quelli rappresentati dai partecipanti
all’interpello medesimo.
Il
Consiglio di Stato ritiene, pertanto, che il conferimento degli incarichi
esterni deve necessariamente essere preceduto dalla verifica, almeno
nell’ambito delle domande pervenute, dell’assenza, per profili e competenze, di
adeguate professionalità interne alla dirigenza della Repubblica.
La
disposizione in esame potrebbe, pertanto, essere così riformulata:
«Gli
incarichi dirigenziali possono essere conferiti a soggetti non appartenenti ai
suddetti Ruoli, mediante procedure selettive e comparative ed entro il limite,
rispettivamente, del dieci per cento del numero degli incarichi generali
conferibili e dell’otto per cento del numero degli incarichi dirigenziali non
generali conferibili. I predetti incarichi possono essere conferiti soltanto
se, con adeguata motivazione, si dimostra che i profili e le competenze
richieste non sono rinvenibili nei ruoli della dirigenza pubblica all’esito
dell’esame delle domande di partecipazione alle procedure di scelta del
dirigente».
11.1.1. Il comma 4 prevede, inoltre, che gli incarichi esterni sono
conferiti «mediante procedure selettive e comparative». Al fine di
evitare possibili dubbi in sede applicativa in ordine alla effettiva
conformazione del procedimento di conferimento delle funzioni è preferibile
impiegare la formula normativa utilizzata per tutti gli incarichi, sostituendo
quella in esame come «procedure comparative con avviso pubblico».
11.1.2. Il comma
4, ultimo inciso, dispone, inoltre, «la durata di tali incarichi non può
eccedere, per gli incarichi dirigenziali generali, il termine di tre anni e,
per gli altri incarichi dirigenziali, il termine di quattro anni». Questa
previsione riprende quella vigente contenuta nel comma 6 dell’art. 19.
La
Commissione speciale rileva come essa potrebbe porre una questione di
compatibilità con la legge delega, che prevede che la durata degli incarichi è
di quattro anni, senza consentire differenziazioni connesse alla tipologia di
incarico (art. 11, comma 1, lettera h).
11.2. Il comma 5 prevede che per i soli incarichi da conferire ai
dirigenti appartenenti alle sezioni speciali «in caso di urgenza e di
indisponibilità nelle suddette sezioni di dirigenti aventi i requisiti
richiesti, le amministrazioni possono, con provvedimento motivato, conferire
incarichi di durata non superiore a un anno ai soggetti di cui al comma 4 in
deroga alle percentuali di cui al comma 3».
Il
Consiglio di Stato mette in rilievo come tale previsione potrebbe non risultare
compatibile con la legge delega che omette di fornire indicazioni su tale
aspetto: in caso di interventi correttivi sulla legge delega, questo potrebbe
essere un profilo da considerare. Si segnala, inoltre, che le percentuali sono
definite nel comma 4 e non 3.
11.3. Il comma 7 dispone che: «il conferimento dell’incarico, a
dirigente in servizio presso altra amministrazione, comporta, altresì, la
cessione del contratto costitutivo del rapporto di lavoro a tempo indeterminato
all’amministrazione che lo conferisce, ferma restando l’appartenenza al Ruolo».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
Le nuove
forme di mobilità orizzontale determinano la necessità di stabilire quale sia,
da un lato, la sorte del contratto di servizio stipulato con l’amministrazione
che lo ha assunto a seguito del conferimento di un incarico da parte di
un’amministrazione diversa, dall’altro, la collocazione del dirigente
nell’organizzazione pubblica conseguente a detto conferimento.
La norma in
esame è chiara nel prevedere la regola della «cessione del contratto
costitutivo del rapporto di lavoro». Non si tratta di una forma di cessione
legale che prescinde dal consenso della parte ceduta. La manifestazione della
volontà negoziale delle parti pubbliche e private, conformemente al modello
generale prefigurato dall’art. 1406 cod. civ., si realizza, infatti, in modo
tacito nel momento dell’indizione della procedura e della presentazione della
domanda all’interpello.
La norma
non è altrettanto chiara nella parte in cui prevede che rimane ferma «l’appartenenza
al Ruolo».
Pur
impiegando una espressione generica, il legislatore, con molta probabilità, ha
inteso affermare il principio che rimane ferma l’appartenenza ai “ruoli di
origine” che possono essere statali, regionali o locali. La ragione è quella di
evitare continue modifiche dell’assetto organizzativo e, pertanto, si è
costruito un modello di funzionamento della mobilità sulla falsariga dei
collocamenti “fuori” ruolo per i dirigenti che assumono un incarico da parte di
una amministrazione appartenete ad un livello di governo diverso. In questa
prospettiva, sarebbe preferibile aggiungere dopo la parola ruolo quella «di
provenienza».
Il
Consiglio di Stato non può, però, esimersi dal rilevare come tale sistema
potrebbe comportare incongruenze applicative.
La
distinzione nei tre ruoli, statale, regionale e locali, inseriti nel «ruolo
unico della Dirigenza della Repubblica», rileva ai fini dell’applicazione
di regole normative peculiari a tutela del sistema delle autonomie
territoriali. Nella fase di conferimento degli incarichi, la provenienza del
dirigente da uno dei tre ruoli sopra indicati incide sulla composizione delle
Commissioni di cui all’art. 19. Per almeno alcune funzioni della Commissione
sarebbe opportuno che vi sia una congruenza tra natura effettiva dei compiti
espletati e composizione della Commissione. Ad esempio, la citata lettera f) dell’art. 19 prevede che detta Commissione esprime pareri in
ordine ai provvedimenti conseguenti all’accertamento della responsabilità
dirigenziale. Non appare conforme ad un modello di giudizio ispirato da criteri
di buona amministrazione affidare a componenti, espressione delle autonomie
regionali e locali, funzioni consultive aventi ad oggetto attribuzioni che il
dirigente ha posto in essere per le amministrazioni statali. In questa ottica,
si suggerisce al Governo, se non intende eliminare l’inciso disponendo una
completa “mobilità”, di chiarire che, a determinati fini, viene in rilievo, per
il dirigente, non il momento genetico dell’assunzione della qualifica ma quello
funzionale dello svolgimento dei compiti.
11.4. Il comma 8 dispone che: «le disposizioni del presente articolo
si applicano anche alle amministrazioni locali» (si v. anche successivo
punto).
Il comma 9
prevede che: «per le amministrazioni regionali, le leggi regionali
disciplinano gli incarichi dirigenziali nel rispetto dei principi desumibili
dal presente articolo».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
Innanzitutto,
la dizione normativa sembra individuare negli «incarichi dirigenziali»
una materia di competenza concorrente, con la conseguente vincolatività per le
Regioni delle disposizioni di principio poste con il decreto. Invero, come
sottolineato, la disciplina degli incarichi si colloca nell’ambito materiale di
competenza statale, per i profili afferenti all’ordinamento civile e
all’organizzazione statale, e di competenza regionale, per i profili afferenti
all’organizzazione regionale (I, 2.3).
In secondo
luogo, e conseguentemente, il riconoscimento dello spazio che la norma in esame
attribuisce alla potestà legislativa regionale non appare conforme alle
disposizioni costituzionali che regolano il riparto delle funzioni legislative.
In
particolare, rientra nella materia dell’ordinamento civile sia la disciplina
delle modalità di conferimento degli incarichi esterni (commi 4-5-10) sia la
definizione del contenuto del contratto di servizio integrativo e quelle di
regolazione della cessione del contratto di servizio principale (commi 6 e 7).
Per quanto
attiene alle rimanenti disposizioni in materia di organizzazione degli uffici
dirigenziali, si potrebbe ritenere che esse possano essere dettate in attuazione
del principio della prevalenza della competenza statale (I, 2.3). In
alternativa, si dovrebbe prevedere che tali disposizioni operano per gli
incarichi dirigenziali nell’ambito delle amministrazioni statali mentre per gli
incarichi dirigenziali nell’ambito delle amministrazioni regionali e locali si
dovrebbe disporre che i relativi atti di organizzazione sono definiti, per
assicurare uniformità di trattamento, in sede di Conferenza unificata.
11.4.1. Il comma
8, dopo avere previsto che alle amministrazioni locali si applica l’articolo in
questione aggiunge che «rimane fermo quanto previsto dall’art. 110 del
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267».
La
Commissione speciale, oltre i rilievi generali contenuti nel precedente punto,
fa presente quanto segue.
L’art. 110
del d.lgs. n. 267 del 2000 dispone, in particolare, che: i) il regolamento degli uffici e dei servizi possa disporre che la
copertura dei posti di qualifica dirigenziale avvenga con contratti a tempo
determinato, «in misura non superiore al 30 per cento dei posti istituiti
nella dotazione organica della medesima qualifica» (comma 1); ii) possano conferirsi incarichi dirigenziali con contratti a tempo
determinato anche al di fuori della dotazione organica «in misura
complessivamente non superiore al 5 per cento del totale della dotazione
organica della dirigenza» (comma 2); iii) i
contratti di cui ai precedenti commi non possono avere durata superiore al
mandato elettivo del Sindaco o del Presidente della provincia in carica (comma
3).
Tale disposizione,
nel disciplinare le modalità di conferimento degli incarichi esterni, risulta
non solo non pienamente conforme al criterio della legge delega che si è
limitata ad autorizzare una eventuale modifica delle percentuali di dirigenti
esterni che devono essere definite «in modo sostenibile per le
amministrazioni non statali» (letterab), ma anche, e soprattutto,
difficilmente compatibile con il nuovo sistema della dirigenza pubblica quale
definito dallo stesso schema di decreto.
Ciò in
quanto: i) vengono definiti
limiti percentuali eccessivamente elevati, riferiti alla dotazione organica del
solo ente locale che ha stipulato il contratto e senza la previa verifica della
non rinvenibilità nei ruoli di professionalità adeguate; ii) la possibilità di conferire incarichi oltre la dotazione
organica risulta contraria al principio della legge delega della tendenziale
riduzione del numero dei dirigenti pubblici; iii) la
previsione di una durata ancorata a quella del mandato del Sindaco o del
Presidente della Provincia contrasta con la regola generale posta dalla legge
delega della durata di quattro anni imposta per tutte le funzioni dirigenziali.
In
definitiva, lo schema di decreto, pur prevedendo l’operatività della regola del
ruolo unico anche per dirigenti locali, lascia ferma una norma che si inserisce
in un contesto regolatorio completamente diverso fondato sui ruoli delle
singole amministrazioni.
Il
Consiglio di Stato propone, pertanto, di eliminare l’inciso in esame, il che
implica la modifica del d.lgs. n. 267 del 2000 nelle parti non compatibili con
la nuova disciplina.
12.
Procedura per il conferimento degli incarichi (art. 19-ter).
L’art. 19-ter,
introdotto dall’art. 4 dello schema di decreto, disciplina l’intera procedura
per il conferimento degli incarichi dirigenziali. La principale novità è
rappresentata dalla circostanza che «gli incarichi dirigenziali sono sempre
conferiti mediante procedura comparativa con avviso pubblico» (primo
comma).
Nella
disciplina vigente sono previsti criteri e non anche procedure di selezione del dirigente.
La
decisione del legislatore della riforma di assoggettare la scelta del dirigente
al rispetto di una procedura amministrativa comparativa con avviso pubblico è
coerente con la nuova fisionomia del regime della dirigenza. Infatti, la più
ampia discrezionalità dell’amministrazione conseguente all’ampliamento della
platea dei dirigenti che possono concorrere a quel determinato incarico deve
essere compensata non solo dalla intermediazione della Commissione (II, 10) ma anche da un maggiore rigore nella articolazione della
procedura di scelta del dirigente.
12.1. Il primo comma, secondo inciso, dispone che per le amministrazioni
statali la procedura comparativa non trova applicazione per «gli incarichi
di segretario generale dei ministri e dei ministeri, quelli di direzione di
strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali, quelli di
livello equivalente, e quelli conferiti presso gli uffici di diretta
collaborazione di cui all’articolo 14 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165».
Il Consiglio
di Stato formula i seguenti rilievi.
La Corte
costituzionale ha sempre ritenuto conforme al modello costituzionale la
possibilità di configurare in termini fiduciari i rapporti con la dirigenza
apicale, evidenziando, finanche, come tale «coesione» potrebbe avere
effetti positivi anche ai fini del buon andamento dell’attività amministrativa
(cfr. Corte cost. n. 233 del 2006, cit.; I, 2.2). Ne dovrebbe conseguire che tale tipologia di uffici, per la
loro collocazione in una posizione di maggiore prossimità all’apparato
politico, non implica la necessità di assicurare una netta differenziazione di
funzioni.
Le
affermazioni del giudice delle leggi sono state ancora più accentuate con
riferimento agli uffici di diretta collaborazione del Ministero, in relazione
ai quali si è affermato che essi «svolgano un’attività strumentale rispetto
a quella esercitata dal Ministro, collocandosi, conseguentemente, in un
contesto diverso da quello proprio degli organi burocratici». Detti uffici,
infatti, «sono collocati in un ambito organizzativo riservato all’attività
politica con compiti di supporto delle stesse funzioni di governo e di raccordo
tra queste e quelle amministrative di competenza dei dirigenti». In questa
prospettiva, non assume rilievo la distinzione funzionale tra le attribuzioni
del Ministero e quelle degli uffici in esame, «dovendo, al contrario,
sussistere tra loro una intima compenetrazione e coesione che giustifichi un
rapporto strettamente fiduciario finalizzato alla compiuta definizione
dell’indirizzo politico-amministrativo» (Corte cost. n. 304 del 2010).
La
disposizione in esame risulta, pertanto, conforme agli orientamenti della
giurisprudenza costituzionale.
Nondimeno,
deve segnalarsi come l’esclusione dal campo applicativo delle procedure selettive
per gli incarichi apicali potrebbe porsi in contrasto con la legge delega.
L’art. 11,
lettera g), della
predetta legge sembra, infatti, imporre l’obbligo della procedura comparativa
per il conferimento di qualsiasi incarico compresi quelli di vertice, cui si fa
espresso riferimento nella parte in cui si attribuisce alle Commissioni della
dirigenza il compito di «preselezione di un numero predeterminato di
candidati in possesso dei requisiti richiesti, sulla base dei suddetti
requisiti e criteri, per gli incarichi relativi ad uffici di vertice e per gli
incarichi corrispondenti ad uffici di livello dirigenziale generale, da parte
delle Commissioni di cui alla lettera b), e successiva scelta da parte del
soggetto nominante».
Tale
previsione non sembra, pertanto, consentire l’esclusione operata dalla norma
dello schema di decreto in esame. Si potrebbe soltanto interpretare
l’espressione «uffici di vertice» come ricomprendente solo gli incarichi
di segretario generale o di direzione di strutture articolate al loro interno
in uffici dirigenziali generali e non anche gli uffici di diretta
collaborazione, quale ad esempio, quello di Capo Ufficio del Gabinetto o di
Capo Ufficio Legislativo di un Ministro, che presentano una più accentuata
relazione di fiduciarietà. Per i primi sarebbe, pertanto, necessario, se si
volesse mantenere la previsione in esame coerentemente con l’orientamento della
giurisprudenza costituzionale, modificare la stessa legge delega.
12.2. Il comma 3 prevede che l’amministrazione interessata, al fine del
conferimento di ciascuno incarico, «procede alla definizione dei criteri di
scelta, nell’ambito dei criteri generali definiti dalle Commissioni» della
dirigenza.
I criteri
generali della Commissione, riportati nell’art. 19, sono quelli «ispirati a
principi di pubblicità, trasparenza e merito». Nell’ambito di questi la
norma in esame dispone che «i criteri definiti dalle Commissioni
contemplano, in relazione alla natura, ai compiti e alla complessità della
struttura interessata, la valutazione delle attitudini e delle capacità
professionali del dirigente, nonché dei risultati conseguiti nei precedenti
incarichi e delle relative valutazioni, delle specifiche competenze
organizzative possedute, dell’essere risultato vincitore di concorsi pubblici,
delle esperienza di direzione eventualmente maturate all’estero (…) purché
attinenti al conferimento dell’incarico».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
La tematica
dei criteri di conferimento riveste anch’essa importanza cruciale nella
ricostruzione dei delicati rapporti tra politica e amministrazione e
costituisce una delle condizioni indefettibili per la riforma (I, 5.2). La previsione di criteri oggettivi e stringenti assicura la
scelta di dirigenti dotati delle necessarie doti di imparzialità e competenza.
Nella
disposizione in esame, si indicano i criteri generali che devono essere seguiti
dalla Commissione, i quali riprendono, sostanzialmente, già quelli previsti dal
vigente primo comma dell’art. 19.
In
generale, la principale criticità attiene a quanto già esposto in ordine
all’assenza di un sistema efficace di valutazione dei dirigenti (II, 9). Per quanto la norma in esame contempli, tra i criteri, quello
dei «risultati conseguiti nei precedenti incarichi e delle relative
valutazioni» è evidente come la mancata riforma di questo aspetto incida
negativamente sulla conformazione delle regole afferenti alla fase di
conferimento dell’incarico.
Nello
specifico, il Consiglio di Stato pone in rilievo la necessità di adeguare
questi criteri al nuovo sistema prefigurato nello schema di decreto che, come
più volte evidenziato, si regge su un’amplificata mobilità orizzontale e
verticale dei dirigenti. Fermo restando quanto già rilevato con riferimento
alle «sezioni speciali» (II,3.2.) nell’ambito del Ruolo unico,
sarebbe opportuno inserire tra i criteri selettivi anche il possesso di
specifiche competenze ed esperienze acquisite nell’esercizio delle precedenti
funzioni dirigenziali con valutazioni positive.
Nella norma
in esame non sono regolate le modalità di definizione dei criteri da parte
delle singole amministrazioni, il che rende ancora più rilevante l’importanza
di una declinazione puntuale di quelli generali da parte della Commissioni in
grado di vincolare la successiva fase attuativa ed evitare possibili forme di
esercizio abusivo dei poteri pubblici.
12.3. Il comma
5 prevede che: «per gli incarichi relativi a uffici dirigenziali generali,
la relativa Commissione di cui all’art. 19 seleziona (…) i tre candidati più
idonei sulla base dei criteri generali stabiliti dalla medesima Commissione».
La norma prosegue disponendo che «nell’ambito dei cinque candidati
selezionati dalla Commissione è operata la scelta da parte del soggetto
competente ai sensi dell’art. 19-quater».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
Questa
norma, completando il quadro del sistema delle nuove garanzie nella fase di
conferimento degli incarichi, prevede per gli incarichi di livello generale –
conferiti direttamente dall’organo politico (I, 3.2. e II, 1.2) e dunque maggiormente esposti a rischi di condizionamento – la
intermediazione della Commissione. Essa, con un compito strettamente operativo,
effettua una preselezione di candidati da sottoporre all’amministrazione che
conferisce l’incarico.
Per questi
fini, la norma prevede un numero di cinque candidati (per errore materiale
nella prima parte della norma è scritto tre).
Sul punto,
il Consiglio di Stato fa presente come la restrizione della lista da cinque a
tre candidati potrebbe costituire, nell’ottica di assicurare maggiori garanzie
da parte di un soggetto terzo tra parte pubblica e privata, un utile riduzione
del potere discrezionale dell’amministrazione che poi concretamente conferisce
l’incarico. Nell’ottica della valorizzazione delle competenze acquisite, che
costituisce una condizione indefettibile da cui occorre sempre muovere
nell’analisi delle nuove disposizioni, si potrebbe anche prevedere che il
dirigente che abbia terminato l’incarico con una valutazione positiva deve
essere inserito “di diritto” nella rosa dei candidati preselezionata dalla
Commissione.
12.4. Il comma
6 prevede che: «per gli incarichi relativi a uffici dirigenziali non
generali, la scelta operata ai sensi dell’art. 19-quater è comunicata dall’amministrazione alla
Commissione per la dirigenza statale, e l’incarico è conferito decorsi quindici
giorni dalla predetta comunicazione, salvo che la Commissione rilevi il mancato
rispetto dei requisiti e criteri di cui ai commi 2 e 3».
La
Commissione speciale rileva come non sia contemplato il rimedio conseguente al
mancato rispetto del periodo di sospensione di quindici giorni previsto dalla
norma in esame. Si potrebbe prevedere che se la immediata attribuzione
dell’incarico sia avvenuta in sostanziale violazione dei criteri di selezione
definiti dalla Commissione, detto incarico deve considerarsi illegittimo e il
successivo contratto accessivo invalido o inefficace perché privo di un
presupposto necessario.
12.5. Nella norma in esame mancano riferimenti alla dirigenza regionale
e locale e ciò dovrebbe implicare la diretta applicazione anche ad esse di tale
disposizione.
Il
Consiglio di Stato segnala la necessità di prevedere anche in questo ambito
forme di coinvolgimento delle autonomie regionali. In particolare, si potrebbe
disporre che nella fase di istituzione delle Commissioni per la dirigenza
regionale e locale l’oggetto dell’intesa si estenda anche ai profili relativi
alla regolamentazione in esame.
13. La
competenza (art. 19-quater).
L’art. 19-quater disciplina la «competenza per il conferimento degli incarichi
dirigenziali».
La norma in
esame individua i soggetti che, in relazione alle tre diverse tipologie di
incarichi, sono legittimati ad adottare gli atti di conferimento. Essa
riproduce, sostanzialmente il contenuto dei commi 3, 4 e 5 del d.lgs. n. 165
del 2001 (I, 3.1.)
Nello
schema di decreto non è disciplinata la competenza per il conferimento degli
incarichi dirigenziali da parte di amministrazioni regionali e locali,
sull’implicito e corretto presupposto che si tratta di materia di competenza
legislativa regionale.
14. Durata
degli incarichi dirigenziali (art. 19-quinquies).
L’art. 19-quinquies,
introdotto dall’art. 4 dello schema di decreto, disciplina la durata degli
incarichi.
La
questione della durata degli incarichi costituisce, anch’essa, un momento di
particolare rilevanza nella costruzione di un complessivo sistema che, in modo
equilibrato, soddisfi tutte le esigenze sottese ai principi costituzionali che
regolano la dirigenza pubblica. In questa ottica, l’incarico, pur essendo
temporaneo, da un lato, deve consentire l’espletamento, in attuazione del
principio di continuità e di valorizzazione delle competenze, delle funzioni
per un tempo adeguato ad assicurare il perseguimento degli obiettivi
programmati dagli organi politici, dall’altro lato, deve essere strutturato in
modo da evitare che l’esigenza di ottenere un rinnovo delle funzioni possa
condizionare l’esercizio imparziale di esse.
14.1. Il comma 2 dispone che: «nel caso in cui il dirigente abbia
avuto valutazioni positive nel corso dell’incarico, l’amministrazione ha
facoltà, una sola volta e con decisione motivata, di rinnovare l’incarico per
ulteriori due anni».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
La tematica
del rinnovo degli incarichi deve essere inserita nel complessivo quadro della
riforma che ha radicalmente modificato il regime generale della durata degli
incarichi.
Nel sistema
vigente, gli incarichi sono rinnovabili da parte della stessa amministrazione
nel cui ruolo è iscritto il dirigente. L’art. 9, comma 32, del d.l. n. 78 del
2010 ha previsto che qualora le amministrazioni, «anche in dipendenza dei
processi di riorganizzazione, non intendono, anche in assenza di una
valutazione negativa, confermare l’incarico conferito al dirigente,
conferiscono al medesimo dirigente altro incarico, anche di valore economico
inferiore». Parte della dottrina ha espresso critiche, alla luce sempre del
principio di distinzione tra politica e amministrazione, in ordine alla portata
di detta disposizione che consente il non rinnovo anche in assenza di una
valutazione negativa.
Nel sistema
prefigurato dallo schema di decreto, gli incarichi sono rinnovabili (rectius:
prorogabili) una sola volta per una durata dimezzata rispetto a quella del
primo incarico. La scelta è coerente con un’impostazione complessiva della
riforma fondata su una maggiore mobilità dei dirigenti conseguente alla
previsione del ruolo unico nonché di regole più rigide di conferimento degli
incarichi. Si vuole, infatti, evitare che il rinnovo da parte della stessa
amministrazione degli incarichi al medesimo dirigente possa incidere sulle
suddette mobilità dirigenziali con una sostanziale vanificazione delle nuove procedure
selettive.
Indicato il
contesto di riferimento, la disposizione presenta i seguenti profili di
criticità.
In primo
luogo, sul piano sistematico, il legislatore della riforma manifesta un chiaro
disfavore per il rinnovo dell’incarico, senza, però, considerare che sarebbe
proporzionato rispetto all’obiettivo perseguito già la sola previsione, quale
regola generale e in assenza di valutazione negativa, di un rinnovo “dimezzato”
per una sola volta. Questa sarebbe la regola che, realizzando un equilibrato bilanciamento
degli interessi, maggiormente risponde al modello costituzionale composito. La
rigidità della legge delega non consente questa soluzione, salvo una modifica
della stessa.
In secondo
luogo, la norma in esame, prescrivendo accanto al limite oggettivo dei due
anni, la necessità che vi sia una «valutazione positiva» e l’obbligo di
motivare la decisione di rinnovo, non appresta adeguate garanzie al dirigente
nel caso in cui l’amministrazione decida di non procedere al rinnovo
dell’incarico.
Il Consiglio
di Stato ritiene necessario che il precetto normativo venga completato mediante
la previsione dell’obbligo di motivazione da parte dell’amministrazione anche
nel caso in cui essa decida di non rinnovare l’incarico.
Tale
obbligo assume una valenza non formale-procedimentale ma sostanziale,
rappresentando «il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza
stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo» (Corte cost. n.
92 del 2015).
Si deve,
pertanto, iniziare, su istanza del dirigente interessato, un apposito
procedimento nell’ambito del quale sia consentito al dirigente di esporre il
proprio punto di vista in ordine all’attività svolta nel corso dei quattro anni
e all’amministrazione di tenere conto delle osservazioni formulate nell’atto
finale adeguatamente motivato (cfr. Corte cost. n. 103 del 2007).
Nè varrebbe
rilevare che tale ulteriore prescrizione non sarebbe consentita dalla legge
delega, la quale contiene una disposizione sostanzialmente analoga a quella
riportata nello schema di decreto. Il legislatore delegante ha posto un
criterio direttivo che deve guidare la “decisione positiva”
dell’amministrazione che conferisce l’incarico ma ciò non esclude, anzi impone,
al legislatore delegato di completare questo precetto con la regolazione della
“decisione negativa” dell’amministrazione di non conferire l’incarico.
Si
potrebbe, pertanto, aggiungere la seguente disposizione:
«Nel
caso in cui l’amministrazione decida di non rinnovare l’incarico al dirigente
deve adottare, in assenza di valutazioni negative, un provvedimento motivato
che, all’esito di un procedimento amministrativo assicuri il rispetto delle
regole del contraddittorio, indichi le ragioni della decisione assunta».
La
questione appena esposta rappresenta anch’essa una delle condizioni
indefettibili per la riforma (I, 5.2).
15.
Responsabilità dirigenziale (art. 21).
La legge
delega prevede, in relazione alla responsabilità dei dirigenti, il «riordino
delle disposizioni legislative relative alle ipotesi di responsabilità
dirigenziale, amministrativo-contabile e disciplinare dei dirigenti e
ridefinizione del rapporto tra responsabilità dirigenziale e responsabilità
amministrativo-contabile, con particolare riferimento alla esclusiva
imputabilità ai dirigenti della responsabilità per l'attività gestionale, con
limitazione della responsabilità dirigenziale alle ipotesi di cui all'articolo
21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165; limitazione della
responsabilità disciplinare ai comportamenti effettivamente imputabili ai
dirigenti stessi» (art. 8, comma 1, lettera m).
Questa
parte della legge delega non è stata attuata.
Il
Consiglio di Stato esprime perplessità in ordine a tale scelta che sarebbe
stata opportuna in ragione della complessità e non chiarezza, in alcune
fattispecie, degli esatti ambiti delle responsabilità del dirigente.
Come è
noto, nei confronti del dirigente è configurabile, sussistendone i presupposti,
la responsabilità civile e penale. A queste forme di responsabilità esterne e
generali si affiancano quelle interne che, per tutti i dipendenti pubblici,
sono costituite dalla responsabilità contabile e dalla responsabilità
disciplinare. Per i soli dirigenti è prevista la responsabilità dirigenziale.
Il vigente
art. 21 del d.lgs. n. 165 del 2001 dispone che integra la responsabilità
dirigenziale il «mancato raggiungimento degli obiettivi», nonché «l’inosservanza
delle direttive imputabili al dirigente», con indicazione delle misure
conseguenti adottabili, che lasciano ferma «l'eventuale responsabilità
disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo». Il
comma 1-bis, introdotto dal d.lgs. n. 150 del 2009, prevede,
considerando il dirigente come organizzatore del lavoro altrui, che: «Al di
fuori dei casi di cui al comma 1, al dirigente nei confronti del quale sia
stata accertata, previa contestazione e nel rispetto del principio del
contraddittorio secondo le procedure previste dalla legge e dai contratti
collettivi nazionali, la colpevole violazione del dovere di vigilanza sul
rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard
quantitativi e qualitativi fissati dall'amministrazione» conformemente agli
indirizzi deliberati dalla Civit (oggi Autorità nazionale anticorruzione), «la
retribuzione di risultato è decurtata, sentito il Comitato dei garanti, in
relazione alla gravità della violazione di una quota fino all'ottanta per cento».
La
responsabilità dirigenziale è, pertanto, una forma di responsabilitàaggiuntiva, che si giustifica in ragione dei
poteri gestionali attribuiti alla dirigenza. Tale peculiarità avrebbe imposto
una previsione generale che ne definisse, in modo chiaro, i connotati
identificativi, soprattutto al fine di tracciare le linee di distinzione
rispetto alla responsabilità disciplinare ed evitare rischi di sovrapposizione.
Queste criticità sono amplificate dalla mancata attuazione del sistema di
valutazione dei dirigenti che inevitabilmente refluisce sulla costruzione di misure
di responsabilità dirigenziale ancorate a parametri oggettivi.
15.1. L’art. 5
dello schema di decreto aggiunge taluni periodi al comma 1 dell’art. 21 del
d.lgs. n. 165 del 2001, disponendo che: «costituiscono mancato
raggiungimento degli obiettivi: la valutazione negativa della struttura di
appartenenza, riscontrabile anche da rilevazioni esterne; la reiterata
omogeneità delle valutazioni del proprio personale, a fronte di valutazione
negativa o comunque non positiva della performance organizzativa della
struttura, e in particolare il mancato rispetto della percentuale del personale
prevista dalla legge, o della diversa percentuale oggetto di negoziazione, cui
attribuire indennità premiali, secondo le indicazioni dei contratti collettivi
di lavoro; il riscontrato mancato controllo sulle presenze, e sul contributo
qualitativo dell’attività lavorativa di ciascun dipendente; la mancata
rimozione di fattori causali di illecito; il mancato rispetto delle norme sulla
trasparenza, che abbiamo determinato un giudizio negativo dell’utenza
sull’operato della pubblica amministrazione e sull’accessibilità ai relativi
servizi; il mancato rispetto dei tempi nella programmazione e nella verifica
dei risultati imputabile alla dirigenza».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
La puntuale
declinazione delle fattispecie che integrano gli estremi del «mancato
raggiungimento degli obiettivi» rappresenta, anche nell’ottica generale
sopra riportata, una scelta condivisibile.
La
questione critica che si pone attiene alla non chiarezza di alcune prescrizioni
e alla dubbia riconducibilità di alcune di esse nell’ambito della forma di
responsabilità in esame.
La
responsabilità per mancato raggiungimento dei risultati dovrebbe essere
configurabile soltanto nel caso in cui il dirigente non sia stato in grado di
perseguire gli obiettivi definiti dall’organo politico al momento del
conferimento dell’incarico.
La
declinazione concreta di talune fattispecie, effettuata dalla norma in esame,
non risponde a questo modello.
In particolare,
le fattispecie riferite alle relazioni con il personale sembrano riconducibili
alla violazione dei doveri di vigilanza sul personale disciplinate dal comma 1-bis dell’art. 21. Altre fattispecie sembrano costruite come violazione
di obbligazioni “di mezzi” e non di “risultato”, quale il «mancato rispetto
delle norme sulla trasparenza che abbiano determinato un giudizio negativo
dell’utenza sull’operato della pubblica amministrazione e sull’accessibilità ai
relativi servizi», che prescinde dall’oggettivo mancato perseguimento dei
risultati. Altre ancora, infine, appaiono eccessivamente generiche, quali la «valutazione
negativa della struttura di appartenenza, riscontrabile anche da rilevazioni
esterne», nonché «la mancata rimozione di fattori causali illeciti».
Le
riportate osservazioni, afferendo alla fase nevralgica di cessazione del
rapporto dirigenziale in cui non devono entrare contaminazioni politiche,
costituiscono ulteriori condizioni indefettibili per la riforma (I. 5.2.).
16. Regime
transitorio (art. 6 dello schema di decreto).
L’art. 6
detta il regime transitorio.
16.1. Il comma
1 dispone che: «Sono iscritti di diritto, ai ruoli della dirigenza, i
dirigenti a tempo indeterminato appartenenti ai ruoli delle relative amministrazioni
alla data di entrata in vigore del presente decreto. Gli incarichi
dirigenziali, in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto,
sono comunque fatti salvi fino alla loro naturale scadenza, con mantenimento
del relativo trattamento economico».
Il comma 2
prevede che: «nelle amministrazioni statali fino a esaurimento della
qualifica dirigenziale di prima fascia, gli incarichi di funzione dirigenziale
di livello generale sono conferiti, in misura non inferiore al trenta per cento
del numero complessivo di posizioni dirigenziali di livello generale previste
nell’amministrazione che conferisce l’incarico, ai dirigenti di prima fascia
appartenente ai ruoli dell’amministrazione alla data di entrata in vigore del
presente decreto».
La Commissione
speciale rileva quanto segue.
La nuova
normativa incide inevitabilmente su posizioni consolidate dei dirigenti
iscritti nei ruoli. Per evitare un impatto immediato su tali posizioni è stata
prevista una disciplina transitoria che riguarda sia la fase del conferimento
degli incarichi sia la fase di accesso alla qualifica dirigenziale.
In
relazione al primo aspetto, si prevede, con disposizione conforme al principio
di affidamento e di ragionevolezza, che rimangono validi gli incarichi
dirigenziali in corso. Sarebbe opportuno che si chiarisca che i dirigenti posti
in situazione di aspettativa, di comando ovvero che abbiamo ottenuto un
incarico da parte di un’amministrazione diversa da quella di appartenenza
vengano iscritti ai ruoli della Dirigenza avendo riguardo all’amministrazione
di provenienza.
In
relazione al secondo aspetto, non poteva disporsi, sino alla cessazione del
rapporto di lavoro dirigenziale, il diritto dei dirigenti iscritti nella prima
fascia di ottenere solo essi incarichi dirigenziali generali perché avrebbe
implicato un rinvio eccessivamente lungo dell’entrata in vigore della legge. Si
è pertanto prevista un’immediata entrata in vigore della riforma con riguardo
alla eliminazione delle due fasce ma, al contempo, si è inteso tutelare la posizione
dei dirigenti iscritti nella prima fascia riservando solo ad essi una quota di
posizioni dirigenziali di livello generale.
Nella
costruzione di questo regime transitorio sono, però, riscontrabili almeno due
criticità.
La prima
riguarda la misura dei posti “riservati” che viene stabilita in misura non
inferiore al trenta per cento. Il vigente art. 19, comma 4, del d.lgs. n. 165
del 2001 prevede che gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale
sono conferiti ai dirigenti della prima fascia dei ruoli o, «in misura non
superiore al 70 per cento della relativa dotazione», agli altri dirigenti
appartenenti ai medesimi ruoli ovvero, con contratto a tempo determinato, ai
dirigenti “esterni”. Lo schema di decreto ha, pertanto, riproposto la previsione
a regime contemplata nel sistema vigente come previsione transitoria nel nuovo
sistema. Ma questo innesto rischia, in ragione della diversità degli ambiti in
cui la norma si inserisce, di produrre effetti sistematicamente incoerenti. Le
singole amministrazioni statali potrebbero, infatti, decidere di riservare
anche tutti i posti disponibili ai dirigenti di livello generale impedendo così
la partecipazione alle procedure selettive degli altri dirigenti. Se questa
possibilità non crea particolari problemi nell’ambito del vigente regime del
ruolo separato in cui è consentito anche il rinnovo dell’incarico, nell’ambito
del regime prefigurato dalla riforma, potrebbe pregiudicare in modo non
ragionevole gli altri dirigenti. Questi, infatti, vengono inseriti nel ruolo
unico senza distinzione di fasce, con possibilità di ottenere un solo rinnovo,
a cui potrebbe aggiungersi il divieto di partecipare a procedure per il
conferimento delle funzioni dirigenziali di livello generale. Il che si
risolverebbe in una sostanziale protrazione della distinzione in due fasce pur
nel nuovo sistema che le abolisce e che modifica il contesto di riferimento.
In
definitiva, è ragionevole, a tutela dell’affidamento, contemplare una riserva
di posti ma questa deve essere determinata in misura fissa per evitare gli
esposti inconvenienti Si rimette alla valutazione del Governo l’opportunità di
stabilire una soglia superiore al trenta per cento che potrebbe essere
individuata nel 50 per cento dei posti disponibili.
La seconda
criticità riguarda la mancata previsione di un analogo sistema per i dirigenti
regionali e locali qualora la disciplina vigente di riferimento distingua
anch’essa, come per i dirigenti statali, la prima e seconda fascia nell’ambito
dell’accesso alla qualifica. Si potrebbe, pertanto, rinviare la definizione del
regime transitorio, che tenga conto delle posizioni consolidate, all’intesa in
sede di Conferenza.
16.2. Sarebbe
opportuno che nel testo del decreto venga inserito un cronoprogramma (su cui si
potrebbe, se del caso, riferire anche alle Camere) delle attività che il
Governo ritiene necessarie per assicurare la piena attuazione della riforma. Si
tratta di una forma non solo di trasparenza – perché si abbia contezza di tutto
ciò che deve essere messo in atto – ma anche di monitoraggio, essenziale per
valutare, alla luce del più volte citato principio di effettività, se le regole
scritte siano in grado di tradursi in concreti meccanismi operativi.
16.3. Sempre in
quest’ottica potrebbe anche essere prevista, ad esempio, in via sperimentale,
un’operatività limitata del ruolo unico facendo funzionare, in via transitoria,
autonomamente i ruoli statali, regionali e locali.
17. La
unitarietà della disciplina degli incarichi dirigenziali.
Alla luce
di quanto sin qui esposto è emerso che la disciplina che riguarda le
Commissioni per la dirigenza, le procedure di selezione, i criteri di
conferimento, la durata degli incarichi, il sistema di valutazione, la
cessazione del rapporto dirigenziale deve essere considerata nella sua
unitarietà perché rappresenta garanzia di scelte improntate al rispetto del
principio di distinzione funzionale tra politica e amministrazione. E’
sufficiente che singole fasi del procedimento – già indebolite dalla mancanza
di un efficace sistema di valutazione – non funzionino correttamente perché
l’attuazione complessiva della riforma possa venire pregiudicata. Ed è per
questo che tali momenti sono stati indicati come pilastri fondamentali per la
solida costruzione del nuovo sistema della dirigenza pubblica (I, 5.2).
Occorre,
pertanto, che l’intero Capo dello schema di decreto in esame venga rivisto e
corretto alla luce dei rilievi svolti, al fine di assicurarne la legittimità,
la piena applicabilità ed evitando, in tal modo, il rischio di possibile
proliferazione di contenziosi giudiziali.
Capo IV.
Mobilità e dirigenti privi di incarico.
18.
Dirigenti privi di incarico (art. 23-bis).
L’art. 23-bis,
introdotto dall’art. 7 dello schema di decreto, disciplina i «Dirigenti
privi di incarico».
18.1. Il comma 1 dispone che: «Alla scadenza di ogni incarico, il
dirigente resta iscritto nel relativo Ruolo ed è collocato in disponibilità
fino al conferimento di un nuovo incarico dirigenziale. I dirigenti privi di
incarico hanno l’obbligo di partecipare, nel corso di ciascun anno, ad almeno
cinque procedure comparative di avviso pubblico di cui all’articolo 19-ter, per
le quali abbiano i requisiti».
Il
Consiglio di Stato rileva come non siano indicate quali sono le conseguenze
derivanti, per il dirigente senza incarico, dalla mancata partecipazione a
cinque procedure comparative.
18.2. Il comma
2 prevede che: «In caso di mancata attribuzione di un nuovo incarico
dirigenziale, fermo restando quanto previsto dagli articoli 33 e 34, decorso un
anno dal collocamento in disponibilità nel Ruolo, le amministrazioni statali
possono conferire direttamente, ai dirigenti iscritti al Ruolo della dirigenza
statale privi di incarico, incarichi dirigenziali per i quali essi abbiano i
requisiti, senza espletare la procedura comparativa ad avviso pubblico, laddove
ricorrano le condizioni stabilite in via generale dalla relativa Commissione di
cui all’articolo 19».
Il comma 4,
secondo inciso, dispone che: «decorsi due anni dal collocamento in
disponibilità nel Ruolo, il Dipartimento della Funzione pubblica provvede a
collocare i dirigenti privi di incarico, ove ne abbiamo i requisiti, presso le
amministrazioni dove vi siano posti disponibili. Tali amministrazioni
conferiscono a detti dirigenti un incarico dirigenziale, senza espletare la
procedura comparativa di avviso pubblico, secondo i criteri stabiliti in via
generale dalla relativa Commissione di cui all’art. 19. In caso di rifiuto
dell’attribuzione dell’incarico, il dirigente decade dal Ruolo».
Il comma 6
prevede che «le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle
amministrazioni regionali e locali».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
In primo
luogo, non è chiaro l’inciso «fermo restando quanto previsto dagli articoli
33 e 34». Tali articoli disciplinano, infatti, le «eccedenze di
personale e mobilità collettiva» e la «gestione del personale in
mobilità» con procedure non chiaramente coordinabili con quelle di cui alla
disposizione in esame.
In secondo
luogo, manca una disposizione nella legge delega che dia espressa copertura a
questa modalità di conferimento dell’incarico e di eventuale cessazione del
rapporto di lavoro dirigenziale.
Infine, le
tre norme non sono conciliabili forse per un mero difetto di coordinamento: la
prima, infatti, sembra riservata alle sole amministrazioni statali, a cui viene
riconosciuto un potere di affidamento diretto dell’incarico; la seconda sembra
applicarsi alle altre amministrazioni (regionali o locali) con
l’intermediazione del Dipartimento della funzione pubblica; la terza dispone
l’applicazione delle prime due anche alle amministrazioni regionali e locali.
In questo
quadro, il Consiglio di Stato propone di eliminare dal testo la disposizione
contenuta nella prima parte del comma 2 e di mantenere, con modifiche, la sola
disposizione di cui al comma 4. In particolare, si dovrebbero prevedere
maggiori garanzie, soggettive e oggettive, nella fase di conferimento di questi
incarichi per evitare facili elusioni al nuovo e più rigoroso sistema di
attribuzione delle funzioni dirigenziali.
In tale
ottica, si potrebbe disporre che la collocazione avvenga ad opera del
Dipartimento della funzione pubblica, previo parere delle Commissioni per la
dirigenza, e soltanto in presenza, presso una determinata amministrazione, di
posti rimasti disponibili dopo un determinano numero minimo di interpelli non
conclusi con la scelta del dirigente.
18.3. Il comma 4, primo inciso, dispone che: «ai dirigenti privi di
incarico viene erogato, a carico dell’ultima amministrazione che ha conferito
l’incarico, per il primo anno il trattamento economico fondamentale».
La
Commissione speciale rileva che la legge delega prevede, invece, che venga
disposta «erogazione del trattamento economico fondamentale e della parte
fissa del retribuzione» (art. 11, lettera i).
18.4. Il comma 5 prevede che: «i dirigenti in disponibilità, a
seguito di revoca di incarico ai sensi dell’articolo 21, decadono dal relativo
Ruolo della dirigenza decorso un anno senza che abbiamo ottenuto un nuovo
incarico. Il termine è sospeso in caso di aspettativa per assumere incarichi in
altre amministrazioni, ovvero in società partecipate, o per svolgere attività
lavorativa nel settore privato».
Questa
previsione solleva talune criticità.
La norma,
in attuazione della legge delega, disciplina la decadenza dal ruolo. Essa
realizza una sovrapposizione tra rapporto di servizio e rapporto di ufficio
disponendo che una vicenda legata all’espletamento delle funzioni dirigenziali
possa comportare una cessazione del rapporto di lavoro. Il binomio
responsabilità dirigenziale/mancato incarico per un anno viene sostanzialmente
equiparato ex lege ad un vero e proprio licenziamento. Questo Consiglio prende atto
del fatto che comunque la norma in esame è conseguenza obbligata di quanto
previsto dalla legge delega (art. 11, comma 1, lettera h), la quale prevede la «decadenza dal ruolo unico a seguito di
un determinato periodo di collocamento in disponibilità successivo a
valutazione negativa».
Il
legislatore delegato potrebbe, nondimeno, anche per evitare possibili
declaratorie di incostituzionalità della norma, circondare la previsione da un
più forte sistema di garanzie.
In primo
luogo, pur essendo apprezzabile che il criterio direttivo riferito alla mera «valutazione
negativa» sia stato attuato con la previsione della responsabilità
dirigenziale, è necessario che essa venga accertata in modo rigoroso, il che
implica, come sottolineato, che sussista un efficiente sistema di valutazione
dell’attività dirigenziale.
In secondo
luogo, potrebbe essere previsto un termine di disponibilità, più ampio, di due
anni.
Infine,
dovrebbe essere evitata una forma di decadenza ex lege e automatica attraverso la previsione dell’obbligo per
l’amministrazione di comunicare all’interessato l’avvio di un apposito
procedimento che si deve concludere con l’adozione di un provvedimento finale
motivato.
18.5. Il comma
6 prevede che: «le disposizioni del presente articolo si applicano anche
alle amministrazioni regionali e locali».
La
Commissione speciale dubita della conformità a Costituzione di questa
previsione.
Il Capo IV,
nel dettare norme di generale applicazione con riferimento ai dirigenti privi
di incarico, incide, per le amministrazioni regionali e locali, in materie che
sono, ai sensi dell’art. 117, comma 4, Cost., di competenza legislativa
esclusiva delle Regioni (I, 2.3). E’,
pertanto, necessario che la fase di attuazione della disciplina, che comprende,
ad esempio, l’esercizio delle funzioni amministrative di individuazione dei
posti disponibili, si svolga di intesa con il sistema della Conferenza.
Capo V.
Trattamento economico.
19.Trattamento
economico dei dirigenti (art. 24).
L’art. 24,
introdotto dall’art. 8 dello schema di decreto, disciplina il «trattamento
economico dei dirigenti».
Il comma 1
dispone che: «la retribuzione del personale con qualifica di dirigente è
determinata dai contratti collettivi per le aree dirigenziali, e si compone dei
trattamento economico fondamentale e del trattamento economico accessorio
correlato alle funzioni attribuite, alle connesse responsabilità e ai risultati
conseguiti (…)».
Il comma 2
dispone che: «il trattamento economico accessorio complessivo deve
costituire almeno il 50 per cento della retribuzione complessiva del dirigente
(…) e la parte di tale trattamento collegata ai risultati deve costituire
almeno il 30 per cento della predetta retribuzione complessiva». Si
aggiunge che «per i dirigenti titolari di incarichi dirigenziali generali,
le predette percentuali devono costituire, rispettivamente, il 60 e il 40 per
cento della retribuzione complessiva come sopra determinata».
Le nuove
disposizioni confermano che la retribuzione del personale dirigenziale è
composta dal trattamento economico fondamentale e dal trattamento economico
accessorio rappresentato dalla retribuzione di posizione e di risultato.
La
Commissione speciale formula i seguenti rilievi.
Il primo
riguarda le nuove percentuali di definizione del rapporto tra trattamento
economico fondamentale e accessorio.
Il vigente
art. 24, comma 1-bis, dispone che «il trattamento accessorio
collegato ai risultati deve costituire almeno il 30 per cento della
retribuzione complessiva del dirigente».
Il
successivo comma 1-quater aggiunge
che «la parte della retribuzione collegata al raggiungimento dei risultati
della prestazione non può essere corrisposta al dirigente responsabile qualora
l'amministrazione di appartenenza (…) non abbia predisposto il sistema di
valutazione» disciplinato dallo stesso d.lgs. n. 165 del 2001.
Nello
schema di decreto si innalza al 50 per cento la complessiva parte accessoria,
di cui almeno il 30 per cento deve essere correlata ai risultati. Tali
percentuali, per gli incarichi generali, sono ulteriormente innalzate al 60 e
40 per cento.
Il
Consiglio di Stato mette in rilievo un possibile dubbio di conformità alla
legge delega che, nel contemplare i criteri direttivi, non indica anche di
modificare le soglie previgenti.
Al di là di
questo aspetto, si rimette al Governo la decisione in ordine alla possibile
rimodulazione verso il basso delle previste percentuali connesse al trattamento
accessorio. Il secondo rilievo attiene alla necessaria definizione degli obiettivi
da parte dell’organo politico nel rispetto dei criteri già indicati al fine di
potere ancorare effettivamente al loro raggiungimento la corresponsione della
relativa parte della retribuzione. A ciò si aggiunga che le deficienze connesse
alla mancanza di un sistema efficace di valutazione dei dirigenti si riflettano
negativamente anche ai fini della previsione di meccanismi retributivi
effettivamente corrispondenti alla qualità e quantità del lavoro svolto dai
dirigenti.
Capo VI.
Disposizioni speciali.
20.
Dirigenza degli enti locali (art. 20).
L’art. 27-bis,
introdotto dall’art. 9 dello schema di decreto, detta «disposizioni speciali
in materia di dirigenza degli enti locali».
Su un piano
generale, questa Commissione speciale rileva come sia necessario inserire nel
testo una norma di salvaguardia del potere normativo degli Enti locali, avente
un fondamento costituzionale (I, 2.3). Si
dovrebbe, pertanto, riservare a tali Enti di definire un assetto organizzativo,
che stabilisca, ad esempio, quali funzioni debbano essere esercitate con la
qualifica dirigenziale, nel rispetto dei principi stabiliti dal decreto
legislativo.
Sotto altro
aspetto, è necessario modificare le disposizioni del d.lgs. n. 267 del 2000 non
compatibili con il nuovo assetto regolatorio.
20.1. Il comma 1 dispone che «gli enti locali nominano, con le
modalità di cui all’articolo 19-ter, comma 6, tra i dirigenti
appartenenti ai Ruoli della dirigenza, un dirigente apicale a cui affidano
compiti di attuazione dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività
amministrativa e controllo della legalità dell’azione amministrativa».
La
Commissione speciale rileva come la disposizione della legge delega fissi il
principio della irrinunciabilità ed indefettibilità negli enti locali della
funzione di «attuazione dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività
amministrativa e di controllo della legalità dell’azione amministrativa»
che, soppressa la figura del segretario comunale, è attribuita alla dirigenza
locale.
Poiché gli
enti locali non possono fare a meno di tale funzione, la previsione dell’art.
1, secondo cui «gli enti locali nominano…», dovrebbe essere rivista
ponendo l’accento sull’obbligatorio esercizio di tale funzione e sulla
altrettanto doverosa attribuzione ad un dirigente appartenente ai ruoli della
dirigenza, da nominarsi secondo le norme del decreto legislativo.
20.2. Il comma
2 prevede che: «Le città metropolitane e i comuni con popolazione superiore
a 100.000 abitanti possono nominare, in alternativa al dirigente apicale di cui
al comma 1, un direttore generale ai sensi dell’articolo 108 del testo unico di
cui al decreto legislativo n. 267 del 2000. In tale ipotesi, tali enti affidano
la funzione di controllo della legalità dell’azione amministrativa e la funzione
rogante a un dirigente appartenente a uno dei Ruoli della dirigenza, in
possesso dei requisiti prescritti».
Questa
norma deve essere esaminata unitamente all’art. 1-quater dell’art. 16 del d.lgs. n. 165 del 2001, introdotto dall’art. 11
dello schema di decreto in esame, il quale stabilisce che: «è denominato
dirigente apicale il dirigente al quale sono attribuiti compiti di attuazione
dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività amministrativa ed
esercizio della funzione rogante, già esercitata dai segretari comunali e
provinciali di cui all’art. 98 del testo unico di cui al decreto legislativo 18
agosto 2000, n. 267, che non può essere coordinato da altra figura di dirigente
generale».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
In primo
luogo, si segnala la necessità di meglio chiarire i rapporti tra dirigente
apicale di cui al comma 1 e il direttore generale di cui al comma 2 della
disposizione in esame.
Quest’ultima
norma scinde, per il direttore generale, la funzione di garanzia della legalità
da ogni possibile commistione gestionale. La prima, invece, sembra ammettere,
per il dirigente apicale, entrambe le funzioni.
In secondo
luogo, il possibile frazionamento delle originarie funzioni dei segretari
comunali e provinciali tra direttore generale e dirigente apicale potrebbe
seriamente incrinare il funzionamento della struttura ordinamentale dell’ente e
creare gravi ragioni di inefficienza ed inefficacia dell’azione amministrativa.
Per queste ragioni dovrebbe prevedersi che le originarie funzioni dei segretari
comunali, indicate nell’art. 98 del d.lgs. n. 267 del 2000, esclusa ogni altra
e diversa funzione di carattere gestionale, vengano esercitate da un unico
dirigente in posizione di staff rispetto all’organo di vertice politico dell’amministrazione.
20.3. Il comma
2 dispone che: «I Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti o a
3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità montane, esclusi i
comuni il cui territorio coincide integralmente con quello di una o più isole,
e il comune di Campione d’Italia, hanno l’obbligo di gestire la funzione di
direzione apicale di cui al comma 1 in forma associata».
Nel
silenzio della legge di delega e di qualsivoglia altro riferimento contenuto
nel decreto legislativo, gli enti disciplinati dalla norma in esame devono
essere considerati «enti locali di minori dimensioni demografiche»
(anche con riferimento alla previsione di cui all’art, 16, comma 1-quater,
del d.lgs., n. 165 del 2001, secondo le modifiche introdotte dall’art. 11 dello
schema di decreto in esame).
La
Commissione speciale rileva che nel silenzio della legge di delega e di altro
riferimento contenuto nello schema di decreto, gli enti disciplinati dalla
norma in esame devono essere considerati «enti locali di minori dimensioni
demografiche» (anche con riferimento alla previsione di cui all’art, 16,
comma 1-quater, del d.lgs., n. 165 del 2001, secondo le modifiche
introdotte dall’art. 11 dello schema di decreto in esame).
In
relazione ad essi, la ragionevole previsione dell’ «obbligo di gestire la
funzione apicale di cui al comma 1 in forma associata» deve essere
accompagnata dalla fissazione di un termine massimo ragionevole, che potrebbe
essere di sessanta giorni, entro cui gli enti, proprio in ragione della
peculiarità ed indefettibilità della predetta funzione, devono provvedere
associandosi, rinviando al regolamento di cui all’art. 28-sexies la disciplina concreta idonea a superare le eventuali resistenze o
inadempimenti degli enti locali.
20.4. L’art.
16, comma 1-quater, seconda parte, dispone che «per gli enti locali
di minori dimensioni demografiche, nei quali non sia prevista la posizione
dirigenziale, la funzione di direzione apicale è svolta in forma associata (…)
salva la possibilità di attribuire le funzioni dirigenziali ai responsabili
degli uffici e dei servizi (…)».
Il
Consiglio di Stato rileva che la norma appare ambigua e contraddittoria
dichiarando nell’incipit di far riferimento ad enti privi di posizione
dirigenziale e poi prevedendo l’attribuzione di funzioni dirigenziali ai
responsabili degli uffici dei servizi.
In ogni
caso deve chiarirsi, in coerenza con quanto osservato in relazione alle
previsioni di cui all’art. 27-bis ed ai
principi che da esso derivano, che i compiti già propri dei segretari comunali
e provinciali non possono essere esercitati dai responsabili degli uffici e
servizi (trattandosi nella quasi totalità dei casi di Comuni addirittura
sforniti di funzionari) e che comunque la possibilità di conferire ai predetti
responsabili funzioni dirigenziali deve intendersi nel senso che si considerano
eccettuate quelle di attuazione dell’indirizzo politico, di coordinamento e
controllo della legalità dell’azione amministrativa e di ufficiale rogante.
21. I
segretari comunali e provinciali.
L’art. 10,
commi 1-4, disciplina il regime transitorio dei segretari comunali e
provinciali, già iscritti nell’Albo nazionale e collocati nelle fasce
professionali A e B.
20.1. Il comma
1 prevede che: «Nel ruolo dei dirigenti locali confluiscono i segretari
comunali e provinciali già iscritti nell’albo nazionale, di cui all’art. 98 del
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e collocati nelle fasce
professionali A e B previste dalle disposizioni contrattuali vigenti
all’entrata in vigore del presente decreto. Gli incarichi in corso alla data di
entrata in vigore del presente decreto sono comunque fatti salvi fino alla loro
naturale scadenza, con mantenimento del relativo trattamento economico».
Il comma 2
dispone che: «i soggetti di cui al comma 1 vengono assunti dalle
amministrazioni che conferiscono loro incarichi dirigenziali, nei limiti delle
dotazioni organiche».
La
peculiarità della figura del segretario comunale e provinciale è costituita dal
fatto che ancora oggi è retribuito dall’ente in cui esercita le funzioni pur
avendo un rapporto di servizio con il Ministero dell’Interno. Ne consegue che
le dotazioni organiche degli Enti locali presso cui dette figure prestano
servizio non prevedono la figura del segretario.
Si
potrebbe, pertanto, porre una questione di concreta attuazione della norma, nel
senso che l’assunzione di quei funzionari presso gli enti locali che
conferiscono loro incarichi dirigenziali – proprio perché si tratta di una
disposizione transitoria e non già a regime – non può avvenire nei limiti delle
dotazioni organiche, perché, altrimenti, la soppressione della figura del
segretario comunale e provinciale coinciderebbe con il loro licenziamento
immediato, mancandone la previsione nelle attuali dotazioni organiche degli
Enti locali. E’ necessario, pertanto, prevedere che l’assunzione avvenga nei
limiti della spesa, elemento che, allo stato, già comprende il pagamento del
loro trattamento economico presso gli enti ove prestano servizio.
21.2. Il comma
3 dispone che «a decorrere dall’effettiva costituzione del ruolo dei
dirigenti locali, la figura del segretario comunale e provinciale è abolita, e
il relativo albo nazionale è soppresso. Lo stato giuridico e il trattamento
economico dei soggetti di cui al comma 1, privi di incarico, rimangono comunque
disciplinati dalle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del
presente decreto e il Ministero dell’interno, con le risorse umane, finanziarie
e strumentali disponibili a legislazione vigente, provvede alla corresponsione
dello stesso».
La Commissione
speciale si limita ad un rilievo formale: sarebbe opportuno che il primo inciso
del comma in esame venga inserito come primo inciso del primo comma.
La norma
potrebbe, pertanto, essere così riformulata:
«1. A
decorrere dall’effettiva costituzione del ruolo dei dirigenti locali la figura
del segretario comunale e provinciale è abolita e il relativo albo nazionale,
di cui all’articolo 98 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, è
soppresso.
2. I
segretari comunali e provinciali già iscritti nell’albo nazionale e collocati
nelle fasce professionali A e B previste dalle disposizioni contrattuali
vigenti all’entrata in vigore del presente decreto confluiscono nel ruolo dei
dirigenti locali.
3. Gli
incarichi in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto sono
comunque fatti salvi fino alla loro naturale scadenza, con mantenimento del
relativo trattamento economico.
4. I
soggetti di cui al comma 1 vengono assunti dalle amministrazioni che
conferiscono loro incarichi dirigenziali, nei limiti delle risorse finanziarie.
5. Lo stato
giuridico e il trattamento economico dei soggetti di cui al comma 1, privi di
incarico, rimangono comunque disciplinati dalle disposizioni vigenti alla data
di entrata in vigore del presente decreto e il Ministero dell’interno, con le
risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente,
provvede alla corresponsione dello stesso».
21.3. Il comma 5 prevede che sia coloro che sono iscritti nella fascia C
che i vincitori dei concorsi delle procedure concorsuali di ammissione al corso
di accesso in carriera già avviate alla data in vigore della legge delega,
fatto salvo il caso in cui sia loro conferito l’incarico di direzione apicale
ai sensi del comma 6, sono immessi in servizio come funzionari per due anni
effettivi, aggiungendo poi una specifica disciplina evidentemente volta a
rendere effettiva l’attribuzione degli incarichi dirigenziali a tali soggetti.
In particolare, si prevede che «a tale fine, gli enti locali presso i quali
nei successivi due anni sarà disponibile un ufficio dirigenziale, possono
chiedere alla Commissione di cui all’art. 19 del decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165, l’assegnazione dei predetti soggetti, presentando un progetto
professionale e formativo di inserimento».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
La legge
delega ha previsto una «specifica disciplina che contempli la confluenza nel
suddetto ruolo unico dopo due anni di esercizio effettivo, anche come funzionario,
di funzioni segretariali o equivalenti per coloro che sono iscritti al predetto
albo, nella fascia professionale C, e per i vincitori di procedure concorsuali
di ammissione al corso di accesso in carriera già avviate alla data di entrata
in vigore della presente legge» (art. 11, lettera b, n. 4).
L’esigenza
di una necessaria interpretazione costituzionalmente orientata proprio della
disposizione di delega (per altro già ricavabile dal suo stesso tenore
letterale) non consente di disciplinare unitariamente e cumulativamente, come
nello schema di decreto in esame, situazioni che sono del tutto diverse e
disomogenee tra di loro, quali sono quelle: a) dei segretari comunali,
collocati in fascia C ed in servizio da almeno due anni effettivi (alla data di
entrata in vigore del decreto legislativo in questione); b) dei segretari,
collocati in fascia C, ma in servizio da meno di due anni; c) dei segretari
collocati in fascia C che alla data di entrata in vigore del decreto
legislativo non abbiano ancora assunto servizio; d) dei vincitori delle
procedure concorsuali di ammissione al corso di accesso alla carriera avviate
alla data di entrata in vigore della legge o del decreto legislativo.
Tale
evidente diversità di situazione rende innanzitutto in parte inapplicabile,
oltre che non ragionevole, l’unica previsione del decreto che per tutti dispone
l’immissione in servizio come funzionari: già alla data dell’entrata in vigore
della legge delega ed a maggior ragione alla data di entrata in vigore del
decreto legislativo vi erano e vi sono segretari collocati in fascia C già in
servizio.
Occorre
pertanto in sede di attuazione della delega, tenuto conto dei principi in essa
contenuti ed anche delle stesse previsioni di cui allo schema di decreto in
esame, distinguere, ai fini del regime transitorio connesso alla soppressione
della figura del segretario comunale, le seguenti posizioni.
A) La
posizione dei segretari comunali, collocati in fascia C, in servizio da almeno
due anni effettivi, alla data di entrata in vigore del decreto legislativo in
questione: per essi, in armonia con la stessa previsione della legge delega che
prevede la loro confluenza nel ruolo unico della dirigenza dopo due anni di
effettivo servizio, deve stabilirsi che l’avvenuto svolgimento per almeno
diciotto mesi o due anni di effettivo servizio quale titolare di una segreteria
comunale, anche in regime di convenzione, comporta l’automatica iscrizione nel
ruolo della dirigenza.
B) La
posizione dei segretari, collocati in fascia C, ma in servizio da meno di due
anni: per essi, sempre in coerenza con la ricordata norma di delega, deve
stabilirsi che, qualora nel termine triennale di cui al successivo comma 6
maturino i diciotto mesi o i due anni di servizio effettivo di servizio di
titolarità di una segreteria comunale, anche in convenzione, sono iscritti nel
ruolo dei dirigenti degli Enti locali.
C) La
posizione di coloro che, pur essendo collocati in fascia C, non siano in
servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo in questione
nonché per i vincitori delle procedure concorsuali di accesso alla carriera al
momento di entrata in vigore della legge: solo per essi può ragionevolmente
trovare applicazione la previsione di immissione in servizio come funzionari.
Con
riferimento alle posizioni dei segretari sub a) e b) del precedente punto la effettiva titolarità di una
segreteria comunale, anche convenzionata, per il periodo sopra indicato
costituisce in realtà riconoscimento del già avvenuto «conferimento
dell’incarico di direzione apicale di cui all’art. 27 bis comma 1» e
consente di assicurare sistematicità e ragionevolezza all’attuazione
dell’intervento riformatore, garantendo la continuità dello svolgimento delle
funzioni e la piena operatività degli Enti locali, soprattutto di quelli di
minori dimensioni demografiche.
Quanto alle
disposizioni contenute nella seconda parte del comma 5 (con cui si prevede un
complesso e articolato procedimento per la sostanziale istituzione di nuovi
uffici dirigenziali al fine del collocamento di tutto il personale contemplato)
le stesse devono essere coordinate con la corretta attuazione della delega,
come sopra indicato: in ogni caso la finalità della norma impone di modificarne
la struttura nel senso di obbligare i Comuni a richiedere (e non a conferire
loro una mera facoltà) l’assegnazione dei nuovi funzionari ovvero eventualmente
anche degli ex segretari di fascia C, transitati automaticamente, per quanto
osservato sopra, nei ruoli dirigenziali.
21.4. Il comma
6 dispone che: «In sede di prima applicazione, e per un periodo non
superiore a tre anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, gli
enti locali privi di un direttore generale (…) conferiscono l’incarico di
direzione apicale, di cui all’art. 27-bis, comma 1, del decreto legislativo
30 marzo 2001, n. 165, ai soggetti di cui ai commi 1 e 5, senza nuovi o
maggiori oneri per la finanza pubblica. Se l’incarico è conferito a uno dei
soggetti di cui al comma 5, quest’ultimo è iscritto nel ruolo dei dirigenti
degli enti locali dopo che ha ricoperto tale incarico per una durata
complessiva non inferiore a diciotto mesi».
La
Commissione speciale rileva come non sia chiaro cosa si intende per «enti
locali privi di un direttore generale», cioè se quelli che potendo
nominarlo non l’hanno fatto ovvero quelli che non vi sono tenuti per avere meno
di 100.000 abitanti. Ciò in quanto non può per un verso imporsi l’assunzione di
una tale figura, anche per i compiti che possono essergli attribuiti, ad un
ente che abbia deciso autonomamente di non avvalersene e, per altro verso, non
può ragionevolmente ammettersi che l’esercizio di tali funzioni possa essere
conferito, sia pur solo nell’ambito di una previsione del tutto transitoria,
anche ai soggetti di cui al comma 5 (dovendo quanto meno escludersi da tale
possibilità coloro che alla data di entrata in vigore del decreto non abbiano
prestato almeno due anni di effettivo servizio e coloro che sono stati appena
immessi in servizio come funzionari).
22.
Modifiche al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
L’art. 11,
comma 1, lettera c), ii), aggiunge all’art. 17 del d.lgs. n. 165 del 2001, di disciplina
delle funzioni dei dirigenti, la seguente disposizione: «sono titolari in
via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività
gestionale, ancorché derivante da atti di indirizzo dell’organo di vertice
politico».
La
Commissione speciale svolge due rilievi.
Il primo,
formale, attiene all’impiego dell’espressione “titolarità” riferita alla
“responsabilità” nell’ambito di una disposizione che si occupa dei compiti del
dirigente.
Il secondo,
sostanziale, attiene alla ragionevolezza della previsione che contempla la
responsabilità unica del dirigente con esclusione di qualsiasi possibile forma
di concorso di responsabilità dell’organo politico. E’ evidente che la
spettanza al dirigente di poteri autonomi di gestione implichi che sia il
dirigente poi a dovere rispondere in sede di accertamento di responsabilità
amministrativo-contabile per gli eventuali danni cagionati al patrimonio pubblico.
Ma è altrettanto evidente che non si può escludere che l’organo politico
individui un obiettivo che di per sé possa contribuire causalmente a
determinare tale danno. Si tratta di accertamenti di merito che in quanto tali
mal si prestano ad essere imbrigliati in rigide e preclusive disposizioni
normative.
Alla luce
di quanto esposto, la norma dovrebbe essere eliminata dal testo o, in via
subordinata, si potrebbe mantenerla ma al solo fine di ribadire che per: «per
l’attività gestionale, articolata nelle funzioni indicate nel comma precedente,
sussiste l’esclusiva responsabilità amministrativo-contabile del dirigente».
23. Le
Autorità amministrative indipendenti (art. 27-ter).
L’art. 27-ter,
introdotto dall’art. 9 dello schema di decreto, detta norme sui «Dirigenti
delle Autorità indipendenti».
23.1. Il comma
1 dispone che: «E’ istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei
ministri, il Ruolo dei dirigenti delle autorità indipendenti. Al ruolo sono
iscritti i dirigenti delle autorità indipendenti, assunti a tempo indeterminato».
La
Commissione speciale rileva quanto segue.
La ragione
dell’istituzione, in attuazione dell’art. 11, comma 1, lettera b, della legge n. 124 del 2015, del ruolo unico delle Autorità
indipendenti è, come già sottolineato, coerente con la loro natura refrattaria
all’applicazione dei principi della responsabilità ministeriale di cui all’art.
95 Cost. Per tale Autorità operano soltanto i principi consacrati negli
articoli 97 e 98. Ne consegue che il modello della dirigenza di queste
strutture organizzative non ha una natura composita ma si struttura secondo le
uniche direttrici rappresentate dai principi di imparzialità, intesa come
neutralità delle funzioni, e buon andamento.
Chiarito
ciò, deve mettersi in rilievo come le Autorità indipendenti presentino, pur
nell’unicità della costruzione del modello generale, marcate differenziazioni
in ragione della diversità dei compiti, di vigilanza e regolazione, ad esse
attribuiti. Sarebbe, pertanto, più funzionale a questa diversificata realtà la
previsione di ruoli separati tra le Autorità in modo da valorizzare le
competenze tecniche e specialistiche di ciascuna di esse. Tale soluzione
rinverrebbe un fondamento anche nella legge delega che, non a caso, prevede
l’introduzione «di ruoli unici anche per la dirigenza delle autorità
indipendenti, nel rispetto della loro piena autonomia» (art. 11, comma b), n. 1, l. n. 124 del 2015).
Qualora si
intenda mantenere il «ruolounico» sarebbe opportuno prevedere che,
all’interno di esso, possano essere istituite «sezioni speciali», –
analogamente a quanto prevede l’articolo 13-bis, comma 5, introdotto
dall’articolo 2 dello schema, con riferimento ai ruoli dei dirigenti dello
Stato e degli altri enti – con rinvio ad una apposita convenzione ai sensi
dell’articolo 22, comma 4, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, per ciò che
attiene alla loro definizione.
Si propone,
pertanto, di inserire, nell’articolo 27-ter, al comma 1, il seguente
periodo: «Nel Ruolo dei dirigenti delle Autorità indipendenti possono essere
costituite sezioni speciali, per le categorie professionali e tecniche,
individuate con apposita convenzione ai sensi dell’articolo 22, comma 4, del
decreto-legge n. 90/2014».
Analogo
riferimento alle sezioni speciali del ruolo andrebbe inserito: a) al comma 4,
con riferimento alle procedure concorsuali, del quale si propone di aggiungere,
dopo i termini «del ruolo di cui al comma 1», le parole «o delle
sezioni speciali»; b) al comma 5, con riferimento al conferimento degli
incarichi, aggiungendo dopo i termini «iscritti al Ruolo di cui al comma 1»,
le parole «o alle sezioni speciali».
Sotto altro
aspetto, per evitare che l’istituzione dei ruoli presso la Presidenza del
Consiglio dei Ministri, possa, in qualche modo, minare l’autonomia e
l’indipendenza dei dirigenti delle Autorità rispetto al Governo, è necessario
rimarcare che si tratta di una gestione meramente tecnica.
23.2. Il comma
5 prevede che: «Ciascuna Autorità indipendente disciplina il conferimento
degli incarichi dirigenziali nel rispetto dei principi generali di cui ai agli
articoli 19-bis, 19-ter e 19-quinquies del d.lgs. n. 165 del 2001, e garantendo
comunque la possibilità a tutti gli iscritti al ruolo di cui al comma 1 di
partecipare alle relative procedure. E’ fatta salva l’autonomia di ciascuna
autorità nella fissazione dei requisiti richiesti per ciascun incarico
dirigenziale».
La
Commissione speciale rileva come il rinvio agli articoli sopra indicati
potrebbe determinare dei dubbi in sede applicativa, non essendo sempre
comprensibile il significato dell’ espressione «principi generali».
L’art. 19-bis,
contiene norme, quale quella di cui al comma 3, che consente di conferire un
incarico dirigenziale agli appartenenti a ciascuno dei tre “macro-ruoli”
(dirigenti statali, dirigenti regionali e dirigenti locali). Ma tale norma non
potrebbe applicarsi anche alle Autorità amministrative indipendenti perché si
porrebbe in contraddizione con la ratio della istituzione di un ruolo unico per la dirigenza delle
Autorità indipendenti, che presuppone che la mobilità dei dirigenti possa
realizzarsi solo all’interno di esso.
L’art. 19-ter contiene anch’esso disposizioni incompatibili con il sistema della
dirigenza delle predette Autorità, con particolare riferimento a tutte le
disposizioni che regolano le funzioni della Commissione per la dirigenza
statale nel conferimento degli incarichi. Nell’ambito in esame, questa
Commissione non dovrebbe operare perché altrimenti, soprattutto nella prevista
configurazione, si potrebbe realizzare una incidenza di soggetti collocati in
posizione di vicinanza con organi politici nella delicata fase del conferimento
delle funzioni dirigenziali a soggetti che si sottraggono, per definizione, a
qualsiasi rapporto con il sistema della responsabilità ministeriale.
Alla luce
di questi rilievi, sarebbe preferibile rinviare agli articoli sopra indicati «nei
limiti della compatibilità» ovvero limitare il rinvio alle disposizioni
specifiche che regolano la tipologia degli incarichi, i criteri di conferimento
degli stessi e la loro durata, inclusa la norma sul rinnovo.
23.3. Il comma
6 dispone che: «la graduazione delle funzioni e delle responsabilità dei
dirigenti, ai fini della retribuzione di posizione, è definita da ciascuna
autorità conformemente al proprio ordinamento, ferma restando comunque
l'osservanza dei criteri e dei limiti delle compatibilità finanziarie fissate
con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all’articolo
24, comma 8».
La
Commissione speciale rileva che, in forza del principio di autonomia
organizzativa e contabile delle Autorità indipendenti, la graduazione del
trattamento economico dei dirigenti in funzione delle relative disponibilità
dovrebbe continuare ad essere definita autonomamente da ciascuna Autorità,
conformemente al proprio ordinamento, nei limiti delle risorse finanziarie di
cui dispongono. Si segnala, dunque, l’opportunità di eliminare l’inciso finale
«fissate con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui
all’articolo 24, comma 8».
23.4. Il comma
7 prevede che: «In sede di prima applicazione sono iscritti ai Ruoli della
dirigenza i dirigenti assunti, presso le autorità indipendenti, a tempo
indeterminato».
La
Commissione speciale rileva come, al fine di tenere conto delle professionalità
tecniche esistenti tra i dirigenti delle Autorità indipendenti, sarebbe
opportuno prevedere che, in sede di prima applicazione, tali dirigenti possano
confluire nelle sezioni speciali, sulla base dei corrispondenti profili tecnici
e professionali. Durante il tempo occorrente alla conclusione della convenzione
sarebbe, inoltre, opportuno che i suddetti dirigenti possano confluire in una
sezione speciale costituita da ciascuna Autorità.
Si propone,
pertanto, di riformulare il comma nei seguenti termini: «In sede di prima
applicazione i dirigenti assunti, presso le autorità indipendenti, a tempo
indeterminato sono iscritti ai Ruoli della dirigenza, anche confluendo nelle
corrispondenti sezioni speciali di cui al comma 1, secondo le modalità
stabilite con la convenzione di cui al comma 1 e, nelle more della stipula di
tale convenzione, sono iscritti nella sezione speciale costituita da ciascuna
autorità».
24. Riparto
di giurisdizione e forme di tutela.
La riforma
non si occupa del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice
amministrativo, con le conseguenti forme di tutela, nella nuova configurazione
della dirigenza pubblica.
L’art. 63
del d.lgs. n. 165 del 2001, in coerenza con la privatizzazione dei rapporti di
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ha devoluto al giudice
ordinario tutte le relative controversie, incluse, tra l’altro, quelle
concernenti «il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la
responsabilità dirigenziale».
Per lungo
tempo parte della dottrina ha dubitato della conformità di questa previsione a
Costituzione, sul rilievo che l’atto di conferimento degli incarichi è un
provvedimento amministrativo, incidente su profili di rilevanza organizzativa,
a fronte del quale il dirigente è titolare di un interesse legittimo.
La
questione è stata definitivamente risolta dalla Corte costituzionale che, con
sentenza n. 275 del 2001, pur giudicando della sola conformità alla delega
della norma in questione, ha affermato, in generale, come sia conforme al
sistema costituzionale delle forme di tutela attribuire al giudice ordinario
anche le controversie in esame. In particolare, si è affermato che è «rimesso
alla scelta discrezionale del legislatore ordinario – suscettibile di
modificazioni in relazione ad una valutazione delle esigenze della giustizia e
ad un diverso assetto dei rapporti sostanziali – il conferimento ad un giudice,
sia ordinario sia amministrativo, del potere di conoscere ed eventualmente annullare
un atto della pubblica amministrazione o di incidere sui rapporti sottostanti,
secondo le diverse tipologie di intervento giurisdizionale previste
(argomentando dall'art. 113, terzo comma, della Costituzione) ». Si è anche puntualizzato che la questione della qualificazione
giuridica dell’atto di conferimento non ha alcuna rilevanza ai fini della
giurisdizione (in questo senso Corte cost., ordinanza, n. 525 del 2002).
In tale
cornice, la giurisdizione del giudice amministrativo, salvi i rapporti non
privatizzati, rimane ferma per le «controversie in materia di procedure
concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni»
(art. 63, comma 4).
Per quanto
attiene alle forme di tutela, la Corte costituzionale ha affermato la contrarietà
a Costituzione di leggi che si limitino a prevedere modalità di riparazione
solo economica per il dirigente ingiustamente privato del suo incarico, in
quanto esse «non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti
efficaci di tutela degli interessi collettivi lesi da atti illegittimi di
rimozione di dirigenti amministrativi». Il giudice delle leggi, con questa
decisione, ha, pertanto, messo in stretta correlazione la regolazione
sostanziale del rapporto dirigenziale, ispirato ai più volte menzionati
principi costituzionali, con la regolazione processuale delle forme di tutela
(Corte cost. n. 351 del 2008).
La Corte di
cassazione ha ritenuto che il dirigente che aspira ad un incarico, in ragione
dell’esistenza di un potere organizzativo del datore pubblico, sia titolare di
un interesse legittimo di diritto privato. Le eventuali forme di abuso nella
fase di esercizio di questo potere vengono sanzionate alla luce del principio
di buona fede e consentono la possibilità di ottenere soltanto una forma di
tutela risarcitoria (Cassazione civile, Sez. lavoro, 30 agosto 2010, n. 18857;
sulle modalità di risarcimento del danno conseguente a forme di spoilssystem si v.
Cassazione civile, sez. lav., 9 gennaio 2013, n. 355).
Occorre
chiedersi se il nuovo sistema delineato dalla riforma possa incidere
sull’assetto processuale sin qui, sinteticamente, riportato.
Il
Consiglio di Stato si limita a porre in rilievo come l’unica questione
meritevole di approfondimento è quella relativa alla effettiva natura delle
procedure di conferimento degli incarichi. Nella disciplina vigente, come già
sottolineato, il legislatore ha previsto i criteri ma non anche le procedure
pubbliche di conferimento degli incarichi. Si tratterà, pertanto, di stabilire
se tali procedure hanno connotati tali da poter essere ricondotti al paradigma
normativo delle «procedure concorsuali», di cui al quarto comma
dell’art. 63. Soltanto in questo caso potrebbero essere sollevati dubbi in
ordine alla persistente validità degli attuali criteri di riparto della
giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo.
25.
Conclusioni.
La riforma
della dirigenza è una riforma di nevralgica rilevanza per il funzionamento
dell’intero sistema di diritto amministrativo.
La
Costituzione impone che l’attività della
pubblica amministrazione si conformi ai principi di imparzialità e buon
andamento per consentire che cittadini, utenti e operatori economici possano
ricevere prestazioni e servizi di elevato standard quantitativo e qualitativo.
Perché l’attività amministrativa possa rispondere a questi parametri è
necessario che l’organizzazione degli
uffici dirigenziali, che consentono lo svolgimento di quelle funzioni, siano
strutturati in modo tale da assicurare il perseguimento di dette finalità.
La riforma
della dirigenza all’esame del Consiglio di Stato inserisce nel sistema elementi
di forte innovatività attraverso il potenziamento della mobilità nel
conferimento degli incarichi e l’ampliamento del “mercato” in cui si potranno
muovere i futuri dirigenti.
E’ però
necessario che a questa spinta innovativa corrisponda un complesso di regole
puntuali e trasparenti in grado di circondare il rapporto dirigenziale di
adeguate garanzie nelle fasi, di maggiore delicatezza nella costruzione della
relazione tra politica e amministrazione, costituite dal momento iniziale di
conferimento degli incarichi e da quello finale di cessazione del rapporto.
Le regole
che il Governo ha previsto dovranno essere corrette mediante il loro adeguamento
a quanto indicato nel presente parere per consentire che si costruisca una
classe dirigente in grado di far fronte, con competenza e imparzialità, alle
sfide future cui il nostro Paese è chiamato.
P.Q.M.
Nei termini
esposti è il parere favorevole con condizioni e osservazioni della Commissione
speciale
L'ESTENSORE
|
IL PRESIDENTE
|
|
Vincenzo Lopilato
|
Franco Frattini
|
|
IL
SEGRETARIO
Gianfranco
Vastarella
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