venerdì 14 ottobre 2016

Riforma Madia: il parere del Consiglio di stato

Numero 02113/2016 e data 14/10/2016
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REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Adunanza della Commissione speciale del 14 settembre 2016


NUMERO AFFARE 01648/2016
OGGETTO:
Ministero della funzione pubblica ufficio legislativo.


Schema di decreto legislativo recante Disciplina della dirigenza della Repubblica. 
LA COMMISSIONE SPECIALE
Vista la relazione n. 306/16 UL/P del 16 agosto 2016, con la quale il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull’affare consultivo in oggetto;
Visto il decreto n. 122 del 5 settembre 2016, con cui il Presidente del Consiglio di Stato ha istituito una Commissione speciale per l’esame dello schema e l’espressione del parere;
Visti:
il contributo scritto fatto pervenire da:
Associazione professionale Segretari Comunali e Provinciali G.B. Vighenzi – Brescia; Unione Nazionale Avvocati enti pubblici; Sindacato Direttori penitenziari, Sindacato Fedir Sanità;
tenuto conto dell’audizione dei rappresentanti delle Amministrazioni proponenti, nelle persone del Capo dell’Ufficio legislativo del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e del rappresentante dell’ARAN avvenuta, ai sensi dell’art. 21 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, in data 15 marzo 2016;
considerato che nell’adunanza del 14 settembre 2016, presenti anche i Presidenti aggiunti Luigi Carbone e Carlo Saltelli, la Commissione speciale ha esaminato gli atti e udito il relatore Vincenzo Lopilato.


Premesso e Considerato.
Sommario.
Parte I. Considerazioni generali.
1. Premessa. 2. Il quadro costituzionale. 3. Il quadro legislativo. 4. Il quadro della riforma. 5. Le condizioni indefettibili per la riforma.
Parte II. Analisi delle singole disposizioni.
Capo I. Disposizioni generali. 1. Oggetto e ambito di applicazione (art. 1 dello schema di decreto). 2. Rapporto di lavoro e qualifica dirigenziale (art. 13). 3. Sistema della dirigenza pubblica (art. 13-bis).
Capo II. Reclutamento e formazione. 4. Accesso alla dirigenza (art. 28). 5. Corso-concorso per l’accesso alla dirigenza (art. 28-bis) 6. Concorso per l’accesso alla dirigenza (art. 28-ter). 7. Scuola nazionale dell’amministrazione (art. 28-quinquies). 8. Regolamento di attuazione (art. 28-sexies).
Capo III – Incarichi dirigenziali e responsabilità. 9. Premessa. Sistema di valutazione dei dirigenti. 10. Commissioni per la dirigenza pubblica (art. 19). 11. Incarichi dirigenziali (art. 19-bis). 12. Procedura per il conferimento degli incarichi (art. 19-ter). 13. La competenza (art. 19-quater). 14. Durata degli incarichi dirigenziali (art. 19-quinquies). 15. Responsabilità dirigenziale (art. 21). 16. Regime transitorio (art. 6 schema di decreto). 17. La unitarietà della disciplina degli incarichi dirigenziali.
Capo IV. Mobilità e dirigenti privi di incarico. 18. Dirigenti privi di incarico (art. 23-bis).
Capo V. 19.Trattamento economico dei dirigenti (art. 24).
Capo VI. Disposizioni speciali. 20. Dirigenza degli enti locali (art. 20). 21. I segretari comunali e provinciali. 22. Modifiche al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. 23. Le Autorità amministrative indipendenti (art. 27-ter). 24. Riparto di giurisdizione e forme di tutela. 25. Conclusioni.


Parte I. Considerazioni generali.
1. Premessa.
1.1. La Presidenza del Consiglio dei Ministri chiede, ai sensi dell’art. 16, comma 4, della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) il parere del Consiglio di Stato sullo schema di decreto legislativo recante «DisciplinadelladirigenzadellaRepubblica», adottato sulla base dell’articolo 11 della predetta legge.
1.2. La disciplina della dirigenza pubblica costituisce, da circa 25 anni, una materia su cui molteplici tentativi di riforma si sono esercitati con l’obiettivo di assicurare una progressiva modernizzazione e trasparenza, nonché un più forte orientamento al merito piuttosto che all’“affiliazione politica” del relativo personale.
Dalle riforme coraggiose e innovative – anche per il contesto politico-istituzionale del tempo – degli anni novanta sino ai giorni nostri, le istituzioni politiche e di governo pro-tempore hanno mirato a disegnare e ri-disegnare la dirigenza pubblica in modo da renderla tendenzialmente adeguata alla rapida evoluzione dei sistemi pubblici basati su regole ed esigenze di rapidità e competitività, sul confronto con interlocutori produttivi e sociali, su norme sovranazionali anzitutto europee.
Non vi è dubbio che molti passi avanti sono stati compiuti, e che sempre più vi sia percezione della centralità del ruolo dei dirigenti pubblici per consolidare modelli di amministrazioni capaci di prestare il loro servizio istituzionale al cittadino, cliente e utente, e di costituire, come avviene in tutti i principali Paesi, un sostegno e non un ostacolo alla creazione di sviluppo e occupazione in Italia.
È altrettanto innegabile, tuttavia, che molto resti da fare.
Il miglioramento della normativa, e soprattutto la piena attuazione delle norme, rimane obiettivo fortemente sentito dai principali attori pubblici come privati, e certamente il legislatore, su impulso del Governo, a ciò è sembrato indirizzarsi con la legge delega n. 124 del 2015 cui il presente decreto intende dare attuazione.
Molti sono gli snodi cruciali della disciplina della dirigenza pubblica che i suddetti provvedimenti intendono affrontare, così come negli scorsi anni era in più occasioni avvenuto con le riforme – talora orientate in direzioni diverse tra loro – della delicata materia.
Una dirigenza pubblica fortemente qualificata e competente, con carriere ispirate alla trasparente selezione, valutazione e progressione anziché a legami di solidarietà politica, garantisce i cittadini ed i governi di ogni colore politico, rappresentando l’ossatura di amministrazioni pubbliche dove si perseguono interessi di tutti e non di una o poche parti.
Ecco perché il Consiglio di Stato, nell’apprezzare gli obiettivi della legge delega, intende contribuire, con le osservazioni ed i rilievi che seguono, a rendere il decreto delegato pienamente coerente con i principi costituzionali e della legge, riflettendo sulle disposizioni non solo sotto il profilo della legittimità ma anche per ciò che concerne la possibilità di una loro completa e rapida attuazione.
1.3. Prima di procedere nell’analisi del sistema della dirigenza pubblica è opportuno rilevare, pur nella consapevolezza della diversità delle disposizioni che si sono succedute nel tempo, che la peculiarità del lavoro dirigenziale, rispetto a quello degli altri dipendenti pubblici, risiede nel fatto che è necessario distinguere ilrapporto di servizio e il rapporto di ufficio.
Il primo sorge in virtù di un contratto di lavoro che è stato oggetto dei processi di privatizzazione degli anni novanta ed è governato, salvo deroghe, dalle norme di legge e dagli atti di autonomia negoziale individuale e collettiva.
Il secondo sorge in virtù di un procedimento di nomina, di rilevanza organizzativa, che consente il funzionamento del sistema di imputazione giuridica dell’attività del dirigente all’amministrazione pubblica di riferimento.


2. Il quadro costituzionale.
2.1. La legge Cavour del 23 marzo 1853, n. 1483 aveva adottato un modello organizzativo dell’amministrazione centrale dello Stato di tipo gerarchico-piramidale. Si trattava di un modello che rappresentava il risultato della combinazione del principio, di matrice inglese, della responsabilità ministeriale con il principio, di stampo francese, dell’accentramento tipico delle strutture militari.
Il Ministro era contestualmente membro del Governo e capo dell’Amministrazione di riferimento: l’alta burocrazia era priva di qualunque autonomo potere gestionale essendo legata da un rapporto gerarchico con l’organo di direzione politica che le consentiva di agire soltanto su delega o per conto di quest’ultimo.
La Costituzione ha profondamente ridisegnato i rapporti tra politica e amministrazione.
Nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente Mortati aveva messo in rilievo la necessità di «assicurare ai funzionari alcune garanzie per sottrarli alle influenze dei partiti politici». In quest’ottica, «lo sforzo di una Costituzione democratica, oggi che al potere si alternano i partiti, deve tendere a garantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato, per avere un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei partiti». Per tali ragioni Mortati aveva proposto di inserire nel testo costituzionale una norma secondo cui nell’ambito delle direttive del singolo Ministro, che «dirige l’amministrazione ad esso affidata», i «funzionari dirigenti dei vari servizi assumono la diretta responsabilità degli atti inerenti ai medesimi».
La formulazione finale del testo costituzionale delinea un modello complesso dei rapporti tra funzioni politiche e amministrative che si muove lungo versanti, apparentemente, opposti.
Sul primo versante, gli artt. 97 e 98 della Costituzione prevedono la regola della piena autonomia gestionale dell’attività dirigenziale.
In particolare, l’art. 97 Cost. dispone, da un lato, che i pubblici uffici sono organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione (primo comma), dall’altro, che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge (quarto comma).
Il principio di imparzialità dell’azione amministrativa vuole che il funzionario non operi a favore di una determinata maggioranza politica ma, come è stato sostenuto, stia «al di sopra dei partiti, cioè (…) ad di fuori della lotta per acquisire una potenza propria».
Il principio di buon andamento, di cui quello di continuità dell’azione amministrativa rappresenta una specifica declinazione, impone di costruire un rapporto di lavoro che consenta ai dirigenti di esercitare le proprie funzioni in modo efficiente ed efficace.
E’ innegabile, inoltre, che le due regole di azione di rilevanza costituzionale siano strettamente correlate: l’imparzialità è lo strumento del buon andamento, in quanto garanzia che siano adottate scelte ottimali secondo criteri oggettivi.
Il principio del concorso pubblico assicura una selezione obiettiva scevra da condizionamenti personali.
In questo ambito si inseriscono anche l’art. 51, primo comma, Cost., secondo cui tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici «in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge», e l’art. 98 Cost., il quale dispone che «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione».
Sul versante opposto, l’art. 95, secondo comma, Cost. prevede la regola della responsabilità ministeriale: «i Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti del loro dicastero». La previsione di un sistema di responsabilità, per la stretta correlazione con la titolarità di un potere, potrebbe implicare la spettanza di funzioni di gestione da parte dell’organo politico.
L’analisi isolata delle disposizioni costituzionali sopra riportate potrebbe indurre a formulare due regole opposte: nella prospettiva degli artt. 97 e 98 Cost., l’amministrazione è completamente separata dalla politica; nella prospettiva dell’art. 95 Cost., la politica si sovrappone, in funzione di controllo, all’amministrazione.
La combinazione delle due regole conduce, invece, a costruire un modello composito di regolazione dei rapporti tra politica e amministrazione: i dirigenti esercitano le proprie funzioni amministrative in modo imparziale per il perseguimento efficace ed efficiente degli obiettivi che i politici, nell’esercizio dell’attività di indirizzo, pongono in attuazione degli scopi di interesse pubblico definiti dal legislatore.
Ne consegue che la Costituzione delinea una relazione tra organi politici e dirigenziali che si struttura secondo la logica non della separazione o sovrapposizione delle funzioni ma secondo quella della complementarietà edifferenziazionefunzionale dei compiti. I politici e i dirigenti esercitano un’attività diversa ma coordinata verso risultati comuni.
Si sottraggono a questo modello le Autorità amministrative indipendenti.
Esse sono state costituite, anche su impulso del diritto europeo, per lo svolgimento di un’attività amministrativa di vigilanza e regolazione neutrale dei mercati e dunque sottratta al potere di indirizzo degli organi politici. Si tratta di un modello che, pur non contemplato dalla Costituzione, deve ritenersi con essa compatibile.
2.2. La Corte costituzionale ha avuto più volte modo di occuparsi del rapporto di lavoro dirigenziale, con particolare riferimento alla conformità al quadro costituzionale del cosiddetto spoilssystem e cioè del sistema che determina la cessazione degli incarichi dirigenziali in corso di svolgimento in concomitanza con il succedersi di una nuova compagine governativa.
Limitando l’analisi all’enunciazione dei principi generali senza riferimenti alle specifiche discipline, la Corte costituzionale ha più volte avuto modo di affermare che gli articoli 97 e 98 Cost. sono corollari dell’imparzialità ed esprimono la distinzione «tra l’azione di governo – normalmente legata agli interessi di una parte politica espressione delle forze di maggioranza – e l’azione dell’amministrazione che nell’attuazione dell’indirizzo politico della maggioranza, è vincolata, invece, ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate nell’ordinamento» (Corte cost. n. 453 del 1990; si v. anche Corte cost. n. 104 del 2007).
La proiezione di questi principi costituzionali nella regolazione del rapporto di lavoro dirigenziale impone, ha sottolineato la Corte, che lo stesso sia regolato, sul piano strutturale, in modo da assicurare «la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione» (Corte cost. n. 103 del 2007, cit. e n. 161 del 2008). Esso, pertanto, deve essere «circondato da garanzie», in quanto, come è stato icasticamente rilevato, «la dipendenza funzionale del dirigente non può diventare dipendenza politica» (Corte cost. n. 104 del 2007).
Alla luce di questi principi la Corte Costituzionale ha affermato che le norme di legge le quali prevedono, a regime o unatantum, l’interruzione del rapporto di ufficio dei dirigenti per il sopravvenuto insediamento di un nuovo Governo devono ritenersi contrarie al riportato quadro costituzionale. Non è, infatti, consentita la sostituzione dei dirigenti che stanno esercitando le loro funzioni con altri dirigenti “graditi” ai nuovi organi politici.
In particolare, la Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittime le forme automatiche di interruzione legale dei rapporti dirigenziali per l’assenza «di un momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti, nell’ambito del quale, da un lato, l’amministrazione esterni le ragioni – connesse alle pregresse modalità di svolgimento del rapporto anche in relazione agli obiettivi programmati dalla nuova compagine governativa – per le quali ritenga di non consentirne la prosecuzione sino alla scadenza contrattualmente prevista; dall’altro, al dirigente sia assicurata la possibilità di far valere il diritto di difesa, prospettando i risultati delle proprie prestazioni e delle competenze organizzative esercitate per il raggiungimento degli obiettivi posti dall’organo politico e individuati, appunto, nel contratto a suo tempo stipulato» (Corte cost. n. 103 del 2007, in relazione a forme transitorie dispoilssystem; si veda anche Corte cost. numeri 124 e 246 del 2011, in relazione a forme di spoilssystem a regime, applicato ai dirigenti esterni).
L’esistenza di una preventiva fase valutativa – ha puntualizzato la Corte con le suindicate sentenze – risulta essenziale anche per assicurare «il rispetto dei principi del giusto procedimento, all’esito del quale dovrà essere adottato un atto motivato che, a prescindere dalla sua natura giuridica, di diritto pubblico o di diritto privato, consenta comunque un controllo giurisdizionale» (sentenza n. 103 del 2007, cit.).
Questi principi sono stati ritenuti applicabili a qualunque tipologia di incarico dirigenziale, con esclusione dei soli incarichi di vertice, che possono essere individuati intuitupersonae in modo da «rafforzare la coesione tra l’organo politico» e «gli organi di vertice dell’apparato burocratico» per «consentire il buon andamento dell’attività di direzione dell’ente» (Corte cost. n. 233 del 2006).
2.3. La Costituzione detta anche le regole di riparto delle funzioni legislative tra Stato e Regioni nella disciplina del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici (art. 117 Cost.). La giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che, ai fini della individuazione del pertinente ambito materiale, occorre avere riguardo «all’oggetto o alla disciplina» dettata dalla singola disposizione «sulla base della sua ratio, senza tenere conto degli aspetti marginali e riflessi» (Corte cost. n. 229 del 2013). Ne consegue che occorre avere riguardo alla natura del rapporto dirigenziale, distinguendo profili di rilevanza negoziale, organizzativa e di formazione.
Il primo profilo di rilevanza negoziale attiene alla regolazione del rapporto di servizio che, a seguito dei processi di privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti della pubblica amministrazione, è retto da norme privatistiche e dall’autonomia contrattuale individuale e collettiva.
La Corte costituzionale, muovendo da queste premesse, con orientamento costante, ritiene che, per assicurare uniformità di trattamento, la competenza legislativa a disciplinare il rapporto di lavoro, incluso quello alle dipendenze di Regioni ed enti locali, rientra, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., nella materia dell’«ordinamento civile» di spettanza esclusiva dello Stato.
Il secondo profilo di rilevanza organizzativa attiene alla disciplina del rapporto di ufficio che, per le ragioni già esposte, si inserisce nella fase dell’organizzazione pubblica dell’amministrazione.
A tale proposito, è necessario distinguere il rapporto dei dirigenti statali, regionali e locali.
La regolazione del rapporto di ufficio dei dirigenti statali, rientrando nella materia della «organizzazione amministrativa dello Stato», compete a quest’ultimo (art. 117, secondo comma, lettera g, Cost.).
La regolazione del rapporto di ufficio dei dirigenti regionali rientra nella materia residuale dell’«organizzazione amministrativa delle Regioni» e, pertanto, la relativa disciplina spetta ad esse (art. 117, quarto comma, Cost.; Corte cost. numeri 95 del 2007; 233 del 2006; 2 del 2004).
La regolazione del rapporto di ufficio dei dirigenti locali assume connotati di maggiore complessità, in quanto, astrattamente, i livelli di governo coinvolti unitamente alle rispettive fonti normative possono essere: i) lo Stato, nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva in materia di disciplina degli «organidi governo» e delle «funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane» (art. 117, secondo comma, lettera p, Cost.); ii) le Regioni, nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva in materia di «organizzazione amministrativa degli enti locali»; iii) le autonomie locali, nell’esercizio del potere statutario e regolamentare che la Costituzione ad esse riserva in materia di organizzazione degli enti stessi (artt. 114 e 117, sesto comma, Cost.). In questo contesto, la ricostruzione complessiva del sistema delle fonti di regolazione della dirigenza locale deve avere riguardo alla singola disposizione che viene in rilievo e al conseguente intervento dei diversi livelli di governo secondo una gradazione di disciplina di sempre maggiore specificità.
Esula dall’ambito dell’organizzazione e rientra nella materia dell’ordinamento civile, pur afferendo agli incarichi, la disciplina dei conferimenti di funzioni dirigenziali a soggetti esterni alla pubblica amministrazione. La giurisprudenza costituzionale ha, infatti, rilevato che essa attiene «ai requisiti soggettivi che debbono essere posseduti dal contraente privato, alla durata massima del rapporto, ad alcuni aspetti del regime economico e giuridico ed è pertanto riconducibile alla regolamentazione del particolare contratto che l’amministrazione stipula con il soggetto ad essa esterno cui conferisce l’incarico dirigenziale» (Corte cost. n. 324 del 2010).
Nell’ambito dell’organizzazione pubblica, la giurisprudenza costituzionale fa rientrare, invece, anche la regolamentazione dell’accesso ai pubblici impieghi mediante concorso, con la conseguenza che le amministrazioni statali o regionali sono legittimate a disciplinare, rispettivamente, le procedure concorsuali afferenti al personale statale ovvero regionale o locale (Corte cost. n. 380 del 2004).
Infine, il terzo profilo afferente alla «formazioneprofessionale» rientra nell’ambito di una materia che il terzo comma dell’art. 117 Cost. assegna alla competenza concorrente, con la conseguenza che lo Stato può fissare solo i principi fondamentali e le Regioni le norme di dettaglio (cfr. Corte cost. n. 3 del 2004).
Si segnala, inoltre, che è attribuita alla competenza legislativa esclusiva statale la materia del coordinamento informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale (art. 117, secondo comma, lettera r, Cost.), che, come si esporrà oltre, rileva ai fini della gestione tecnica della banca dati (II, 3.4.).
Quanto esposto non esclude che lo Stato possa, per esigenze unitarie e di uniformità di trattamento, dettare una disciplina che, pur garantendo le altre autonomie territoriali, ricomprenda anche i profili organizzativi e di formazione della dirigenza regionale e locale.
Le tecniche legislative utilizzabili sono due.
La prima è quella della cosiddetta “sussidiarietà legislativa”.
Lo Stato, qualora ravvisi l’esistenza di esigenze unitarie, può, pur in presenza di materie esclusive o concorrenti regionali, “chiamare in sussidiarietà” funzioni regionali o degli enti locali e, in ossequio al principio di legalità, dettare la relativa disciplina. In questo caso, la giurisprudenza costituzionale ha delineato un preciso procedimento che deve essere seguito ai fini del giudizio di conformità a Costituzione, stabilendo che: i) devono sussistere effettive esigenze unitarie, alla luce dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza; ii) la legge deve contenere una disciplina proporzionata all’obiettivo perseguito e pertanto, pertinente, idonea alla regolazione delle funzioni e limitata a quanto strettamente indispensabile a tale fine; iii) occorre assicurare la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione, con la conseguenza che la legislazione statale «può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà» (sentenza n. 303 del 2003). A tale ultimo proposito, la successiva giurisprudenza ha chiarito che devono essere «intese forti» non superabili con una determinazione unilaterale dello Stato se non nella «ipotesi estrema, che si verifica allorché l’esperimento di ulteriori procedure bilaterali si sia rivelato inefficace» (Corte cost. numeri 7 del 2016; 179 del 2012; 165 del 2011; 121 del 2010; 6 del 2004).
La seconda tecnica è quella di consentire l’adozione di una disciplina esclusiva statale in presenza di unaconcorrenzadicompetenze appartenenti a diversi livelli istituzionali di governo in applicazione della “regola della prevalenza”, nel caso in cui il nucleo essenziale della disciplina sia statale ovvero, nel caso in cui non sia possibile assorbire le funzioni legislative regionali, della “regola della leale cooperazione” che può ritenersi congruamente attuata «mediante la previsione dell’intesa» (Corte cost. numeri 21 e 1 del 2016; si v. anche sentenze numeri 250 e 140 del 2015 e numeri 44 e 126 del 2014).
Il progetto di riforma costituzionale intende modificare il sistema del riparto delle funzioni legislative e amministrative. Senza entrare nel dettaglio della riforma e delle possibili interpretazioni dei suoi enunciati, è sufficiente rilevare che viene attribuita alla competenza legislativa esclusiva statale la materia della «disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche tese ad assicurare l’uniformità sul territorio nazionale» (comma 2, lettera g). E’ prevista, inoltre, la cosiddetta clausola di supremazia speciale: «su proposta del Governo la legge dello Stato può intervenire in materie o funzioni non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richiede la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale» (comma 5).


3. Il quadro legislativo.
Nel diritto privato la regolazione del lavoro dirigenziale si fonda su un legame fiduciario tra datore di lavoro e dirigente che fa sì che il relativo rapporto non sia assistito da garanzie di stabilità.
Nel diritto pubblico tale regolazione ha avuto una complessa e lunga evoluzione, il cui approdo finale è stata la costruzione di un modello diverso da quello privatistico al fine di assicurare il rispetto degli esposti principi costituzionali che presiedono alla differenziazione funzionale tra attività gestionali e politiche.
3.1. Il modello costituzionale non è stato subito attuato a livello legislativo.
Nei primi decenni dopo l’entrata in vigore della Costituzione è prevalsa la concezione che non attribuiva alla dirigenza poteri decisionali: il sistema era interamente incentrato sul principio della responsabilità ministeriale.
Negli anni successivi l’evoluzione della normativa è stata scandita, tra gli altri, dai seguenti provvedimenti legislativi:
- decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), che ha assegnato ai dirigenti la competenza ad emanare soltanto atti amministrativi privi di discrezionalità, anche soltanto di natura tecnica (art. 155);
- decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1972, n. 748 (Disciplina delle funzioni dirigenziali nelle Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo), che ha attribuito ai dirigenti funzioni gestionali limitate e tassative;
- decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), che ha provveduto alla cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego, con esclusione dei dirigenti generali; tale decreto ha introdotto, a livello legislativo, il principio costituzionale di differenziazione tra politica e amministrazione, stabilendo che ai dirigenti spettasse «la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo», con la precisazione della loro responsabilità per la gestione e per i relativi risultati (art. 3, comma 2);
- decreto legislativo 18 novembre 1993, n. 470 (Disposizioni correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, recante razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego), il quale ha, tra l’altro, previsto che le amministrazioni pubbliche i cui organi di vertice non siano direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica, adeguano i loro ordinamenti al principio della distinzione tra indirizzo e gestione (art. 2);
- decreti legislativi 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59) e 29 ottobre 1998, n. 387 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80), che, completando il processo di contrattualizzazione del rapporto di impiego dei dirigenti con estensione di esso anche ai dirigenti generali, hanno, da un lato, creato, per i dirigenti delle amministrazioni statali, il «ruolo unico» istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, distinto in due fasce; dall’altro, assegnato valenza generale al principio di differenziazione tra politica e amministrazione, specificando che lo stesso è preminente rispetto alla disciplina speciale di settore;
- decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), in cui è confluita, in modo sistematico, la normativa rilevante sin qui indicata;
- decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 150, in materia di ottimizzazione del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), che ha assegnato maggiore rilevanza alla legge nei rapporti con l’autonomia negoziale (art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001) e ha introdotto un particolare sistema di valutazione della dirigenza (II, 9).
3.2. Il Consiglio di Stato ritiene opportuno, per una valutazione dell’incidenza della riforma sul sistema attuale, riportare, in sintesi, i profili di maggiore rilevanza della disciplina vigente, contenuta nel d.lgs. n. 165 del 2001, definita all’esito della indicata complessa evoluzione legislativa.
Per quanto attiene agli organi di governo, l’art 4 del predetto decreto prevede che essi «esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi e i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti» (art. 4). A tale fine l’organo politico, dispone l’art. 14, adotta «le conseguenti direttive generali per l’attività amministrativa e per la gestione» (art. 14).
Per quanto attiene alla dirigenza, l’art. 13 del medesima decreto dispone che le norme del relativo capo si applicano soltanto «alle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo».
Come esposto in premessa, la disciplina si articola nella fase di costituzione del rapporto di servizio con la stipulazione del relativo contratto e in quella di costituzione del rapporto di ufficio con il conferimento del relativo incarico (I 1.3.).
In relazione al primo aspetto, si prevede che l’accesso alla dirigenza avviene a seguito del superamento di un concorso indetto dalle singole amministrazioni ovvero di un corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione, nel rispetto delle percentuali e modalità definite da un regolamento governativo di esecuzione (art 28, commi 1 e 5). Il superamento dei predetti concorsi comporta l’iscrizione in un apposito ruolo, istituito «in ogni amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo», il quale «si articola nella prima e nella seconda fascia, nel cui ambito sono definite apposite sezioni in modo da garantire la eventuale specificità tecnica» (art. 23, primo comma).
In relazione al secondo aspetto, l’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 disciplina l’intero procedimento di conferimento degli incarichi.
A) I criteri di conferimento impongono all’amministrazione di tenere conto «in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati ed alla complessità della struttura interessata, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza nell'amministrazione di appartenenza e della relativa valutazione, delle specifiche competenze organizzative possedute, nonché delle esperienze di direzione eventualmente maturate all'estero, presso il settore privato o presso altre amministrazioni pubbliche, purché attinenti al conferimento dell’incarico» (art. 19, comma 1).
B) La durata di tutti gli incarichi dirigenziali, ad eccezione di quelli esterni, non può essere inferiore a tre anni né eccedere i cinque anni (art. 19, comma 2).
C) La tipologia di incarichi e la competenza ad assegnarli viene così disciplinata: i) gli incarichi di direzione degli uffici di livello dirigenziale sono «conferiti, dal dirigente dell’ufficio di livello dirigenziale generale, ai dirigenti assegnati al suo ufficio» (art. 19, comma 5); ii) gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale «sono conferiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, a dirigenti della prima fascia dei ruoli (…) in misura non superiore al 70 per cento della relativa dotazione, agli altri dirigenti appartenenti ai medesimi ruoli ovvero, con contratto a tempo determinato, a persone in possesso delle specifiche qualità professionali»; iii) gli incarichi apicali (di Segretario generale di ministeri, di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente), «sono conferiti con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, a dirigenti della prima fascia dei ruoli (…) o, con contratto a tempo determinato, a persone in possesso delle specifiche qualità professionali e nelle percentuali previste dal comma 6» dello stesso art. 19.
D) I destinatari dei predetti incarichi possono essere: i) i dirigenti iscritti ai ruoli di ciascuna amministrazione; ii) i dirigenti non appartenenti ai predetti ruoli purché dipendenti di “altre” amministrazioni ovvero di organi costituzionali, «previo collocamento fuori ruolo, aspettativa non retribuita, comando o analogo provvedimento secondo i rispettivi ordinamenti»; iii) i soggetti esterni all’amministrazione, che abbiamo determinati requisiti, purché si tratti di professionalità non rinvenibili nei ruoli dell’Amministrazione e si rispetti «il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli (…) e dell’8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia»; in questo caso la durata degli incarichi non può eccedere, per gli incarichi di funzione dirigenziale generale e apicale, il termine di tre anni, e, per gli altri incarichi di funzione dirigenziale, il termine di cinque anni.
E) La cessazione del rapporto di ufficio in corso di svolgimento può essere conseguenza soltanto di una accertata responsabilità dirigenziale. La disciplina vigente, per adeguarsi alle pronunce della Corte costituzionale, sopra riportate (I 2.2.) ha espunto dal sistema di regolazione della dirigenza tutte le fattispecie di spoilssystem, con la sola eccezione, ammessa sul piano costituzionale, degli incarichi di vertice i quali «cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo» (art. 19, comma 8).
F) Gli incarichi dirigenziali sono rinnovabili (art. 19, comma 2). L’art. 9, comma 32, del decreto-legge n. 78 del 2010 ha previsto, però, che le amministrazione pubbliche le quali, alla scadenza di un incarico dirigenziale, «anche in dipendenza dei processi di riorganizzazione, non intendono, anche in assenza di una valutazione negativa, confermare l'incarico conferito al dirigente, conferiscono al medesimo dirigente un altro incarico, anche di valore economico inferiore».
3.2. La disciplina della dirigenza regionale deve adeguarsi alle regole di riparto delle funzioni legislative delineato dall’art. 117 Cost. Sino ad oggi, tale adeguamento si è svolto in modo da lasciare ampio spazio alle competenze regionali.
L’art. 27 del d.lgs. n. 165 del 2001 si è limitato a disporre che «le Regioni a statuto ordinario, nell’esercizio della propria potestà statutaria, legislativa e regolamentare», adeguano ai principi posti dall'articolo 4 e dalla disciplina della dirigenza posta dallo stesso decreto «i propri ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità».
La genericità del rinvio ha comportato che molte Regioni si sono dotate di una propria disciplina della dirigenza regionale con una definizione di competenze, in alcuni casi “corretta” dalla Corte costituzionale, che si fonda sulla già indicata distinzione dei profili di rilevanza negoziale, afferente alla materia dell’ordinamento civile di competenza statale, e i profili di rilevanza organizzativa, afferente alla materia dell’organizzazione di competenza regionale.
3.3. La disciplina della dirigenza locale è, allo stato, contenuta in due fonti legislative statali: il decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), che regola, in particolare, oltre i segretari comunali e provinciali (artt. 97-106), la fase di conferimento degli incarichi dirigenziali (artt. 107-111), nonché il d.lgs. n. 165 del 2001, per quanto attiene all’ordinamento degli uffici e del personale (art. 88). Il d.lgs. n. 267 del 2000, per taluni profili organizzativi, rinvia alla disciplina dettata da statuti e regolamenti degli Enti locali, che devono adeguarsi ai principi posti dallo stesso testo unico e dal d.lgs. n. 165 del 2001 (art. 111).


4. Il quadro della riforma.
La riforma oggetto del presente parere incide profondamente sulla vigente regolamentazione della dirigenza.
Rinviando all’analisi delle singole disposizioni i rilievi di maggiore dettaglio, in questa parte preliminare è sufficiente riportare i tratti qualificanti della nuova disciplina che si intende introdurre con lo schema di decreto in esame e i pilastri per la costruzione di un modello di dirigenza efficiente.
4.1. Le principali novità della fase di disciplina dell’accesso alla dirigenza sono la creazione di «ruoli unificati e coordinati» e l’eliminazione della distinzione in due fasce separate che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbero assicurare, rispettivamente, una maggiore mobilità verticale e orizzontale.
In relazione al primo aspetto, è previsto che il sistema della dirigenza pubblica è costituito: i) dal ruolo dei dirigenti statali, escluso il personale in regime di diritto pubblico; ii) dal ruolo dei dirigenti regionali, inclusa la dirigenza delle camere di commercio e la dirigenza del Servizio sanitario nazionale, ad eccezione della dirigenza medica, veterinaria e sanitaria; iii) dal ruolo dei dirigenti locali, in cui confluiscono anche gli attuali segretari comunali e provinciali, la cui figura (e il relativo albo) sono contestualmente aboliti.
Tale distinzione, che rileva con riferimento a diversi aspetti che verranno esaminati nel presente parere, mantiene ferma l’unicità del ruolo ai fini del conferimento degli incarichi dirigenziali. Nel previgente sistema, l’esistenza di un ruolo separato per ciascuna amministrazione delimitava, per gli incarichi “interni”, la scelta dei dirigenti a quelli inseriti in quella determinata struttura organizzativa. La finalità perseguita dalla riforma è stata quella, invece, di superare il perimetro della singola amministrazione e creare un più ampio “mercato della dirigenza” coincidente con il territorio nazionale, nell’ambito del quale selezionare il dirigente cui si intende attribuire l’incarico.
In relazione al secondo aspetto, l’eliminazione della distinzione in due fasce consente che qualunque tipologia di incarico possa essere assegnato a chiunque abbia la qualifica dirigenziale, senza differenziazioni connesse all’inquadramento nella prima o nella seconda fascia. Rimandando anche in questo caso all’analisi delle singole disposizioni, considerazioni di maggiore dettaglio, l’innovazione principale è costituita dalla creazione di apposite Commissioni per la dirigenza statale, regionale e locale composte da sette membri, di cui cinque di diritto indicati nella legge e due selezionati, nonché dalla predeterminazione della durata di quattro anni per tutti gli incarichi con la possibilità di avere un solo rinnovo in presenza di una valutazione positiva.
Questa nuova disciplina si inserisce in modo coerente nel complessivo sistema delle riforme amministrative che il Governo sta attuando, che si caratterizza per un approccio globale che considera non tanto le singole amministrazioni quanto l’amministrazione nel suo complesso (cfr. Cons. Stato, comm. Spec., parere 24 febbraio 2016, n. 515, ha messo in rilievo la condivisibilità della scelta di affrontare la riforma dell’amministrazione pubblica come un “tema unitario”).


5. Le condizioni indefettibili per la riforma.
5.1. Il Consiglio di Stato, rinviando la prospettazione di osservazioni più puntuali nell’analisi delle singole disposizioni dello schema di decreto, ritiene necessario, in questa parte introduttiva, svolgere alcune considerazioni di ordine generale, che rappresentano condizioni indefettibili per il funzionamento effettivo, la cosiddetta fattibilità, della riforma.
Non si tratta, è bene precisare, di rilevi extragiuridici, in quanto l’oggettiva impossibilità di funzionamento di taluni meccanismi che presiedono alla nuova disciplina potrebbe, in via circolare, ripercuotersi negativamente sulla stessa legittimità delle previsioni normative. Se, infatti, queste ultime, nella regolazione del rapporto di lavoro dirigenziale, devono essere conformi ai principi costituzionali, la loro possibile inattuazione si potrebbe risolvere in una violazione delle stesse disposizioni costituzionali, oltre che dei principi e dei criteri della legge delega.
In alcuni casi i rilievi sulla fattibilità sono ascrivibili direttamente alla formulazione della stessa legge delega: il Consiglio di Stato ritiene comunque necessario segnalarli in questa sede, pur nella consapevolezza che essi esulano dall’articolato in esame, per rimettere alla valutazione del Governo l’eventualità di effettuare interventi correttivi anche sulla fonte delegante, allo scopo di costruire una riforma efficace ed effettivamente rispondente agli obiettivi che lo stesso Governo si è posto.
5.2. La prima e più rilevante condizione, che fa da sfondo a molte altre, è rappresentata dalla questionefinanziaria.
Il legislatore delegante e conseguentemente il Governo intendono approvare una riforma così radicale con il principio della invarianzadispesa. Si deve segnalare come tale principio sia uno di quelli in cui più si riscontrano le difficoltà connesse alla fattibilità concreta della riforma.
Non è sufficiente prevedere nuove regole di disciplina se poi non si prende in adeguata considerazione la fase di attuazione della riforma stessa e l’impiego di risorse finanziarie e umane che essa può richiedere: si pensi, tra l’altro, ai costi di gestione della banca dati ovvero alla necessità che alcune funzioni previste, quali quelle della Commissione (II, 10), non possano essere svolte in aggiunta agli attuali impegni di lavoro, ma richiedano una piena dedizione.
Senza una riconsiderazione di questo principio di invarianza di spesa, appare quindi poco realistico assicurare il funzionamento concreto di molti meccanismi previsti dalla riforma.
5.3. Le ulteriori condizioni riguardano la complessiva costruzione del regime giuridico della dirigenza.
La Corte costituzione ha, infatti, rilevato come sia importante il pianostrutturale di definizione delle regole di disciplina del lavoro dirigenziale per assicurare il pianofunzionale che postula una chiara distinzione «tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione» (Corte cost. n. 103 del 2007, cit. e n. 161 del 2008). L’affermazione della differenziazione tra politica e amministrazione, contenuta nei testi legislativi vigenti e ribadita dallo schema di decreto, sarebbe, infatti, mera declamazione di principio se poi il rapporto di lavoro dirigenziale non venisse costruito in modo da assicurarne una concreta attuazione.
Le difficoltà che ogni riforma incontra derivano proprio dalla natura composita del modello costituzionale che impone la previsione di un modello legislativo di attuazione in grado di effettuare un equilibrato dosaggio e bilanciamento dei diversi valori costituzionali in campo.
Il Consiglio di Stato ritiene che i principi costituzionali di imparzialità, buon andamento e responsabilità politica devono essere garantiti – in un mercato caratterizzato da maggiore flessibilità conseguente alla creazione di un ambito nazionale di concorrenza tra dirigenti – mediante regole precise che assicurino:
a) procedure e ai criteri di scelta del dirigente oggettivi, trasparenti e in grado di valorizzare la specifica professionalità maturata nell’ambito dei molteplici settori in cui le pubbliche amministrazioni operano con competenze tecniche;
b) la durata ragionevole dell’incarico che, evitando una eccessiva precarizzazione del rapporto di lavoro, consenta al dirigente di perseguire, con continuità, gli obiettivi posti;
c) modalità di cessazione degli incarichi tali da fare sì che le funzioni dirigenziali vengano meno solo per la scadenza del termine di durata degli incarichi stessi ovvero per il rigoroso accertamento della responsabilità dirigenziale;
d) la presenza di un organismo di garanzia chiamato a sovraintendere a queste fasi e che sia, anche per la sua composizione, posto nelle condizioni di potere operare in concreto;
e) un sistema efficace di valutazione dei dirigenti (su cui si v. successivo punto 5.4).
La Commissione speciale ritiene necessario evidenziare come – sempre nell’ottica della concreta fattibilità della riforma come condizione della sua legittimità – non risulti sufficiente che le suddette previsioni vengano inserite nelle disposizioni contenute nello schema di decreto, ma occorre assicurarne l’effettivo funzionamento.
L’esistenza di tali condizioni e gli sviluppi applicativi di tipo finanziario e operativo rappresentano quindi, ad avviso di questo Consiglio di Stato, presupposti essenziali per la riforma.
La loro trattazione specifica è contenuta nella Parte II del presente parere (punto 12, per le procedure e i criteri di conferimento; punto 14 per la durata delle funzioni; punto 15 per la cessazione dell’incarico; punto 10, per la Commissione; punto 9, per valutazione della dirigenza).
5.4. Un’ulteriore considerazione preliminare va effettuata in relazione alla tempistica dell’entrata in vigore della nuova normativa, con particolare riguardo al necessario raccordo con la messa in atto di un compiuto sistema di valutazione.
Occorre, difatti, rilevare come lo schema di decreto legislativo in esame sia privo di regole relative a tale sistema, che pure ne dovrebbe costituire parte essenziale.
Ad avviso del Consiglio di Stato, la disciplina della valutazione, come già sottolineato, rappresenta una delle condizioni indefettibili per una riforma organica: la sua omissione rischia di comprometterne l’attuazione e, quindi, il raggiungimento delle stesse finalità prefissate dallo stesso legislatore.
Non si tratta, è evidente, di una criticità dell’articolato in oggetto, ma di una decisione assunta dal legislatore delegante, che ha rimandato la riforma di questo ambito al testo unico di riordino generale della disciplina del personale pubblico (art. 17, comma 1, lettera r, della l. n. 124 del 2015).
Nondimeno, il Consiglio di Stato, nel prendere atto di tale decisione politica, non può non evidenziare, su un piano generale, che la riforma della dirigenza rischia di non poter essere compiuta senza che vi sia un preventivo – o quantomeno contestuale – intervento sulla valutazione.
Si rimette anche in questo caso alla valutazione del Governo l’eventualità di riconsiderare la tempistica dell’entrata in vigore di queste due riforme, per evitare sfasamenti temporali che si risolverebbero anche in lacune attuative.
5.5. Infine, sarebbe opportuno che nel testo del decreto venga inserito, per ragioni sia di trasparenza che di effettività, un cronoprogramma (su cui si potrebbe, se del caso, riferire anche alle Camere) delle attività che il Governo ritiene necessarie per assicurare la piena attuazione della riforma.
E’ necessario, inoltre, prevedere una fase sperimentale di verifica dei meccanismi introdotti e un costante monitoraggio sull’attuazione della riforma per valutare se le regole scritte si stiano effettivamente traducendo in concreti meccanismi operativi.
5.6. Solo se si realizzeranno queste condizioni indefettibili, sarà possibile attuare i valori sottesi alla riforma, garantendo altresì l’equilibrio tra l’autonomia della dirigenza, una chiara definizione degli obiettivi da parte dell’autorità politica, ma anche la prevenzione dai rischi di “autoreferenzialità”.


Parte II. Analisi delle singole disposizioni.


Capo I. Disposizioni generali.
1. Oggetto e ambito di applicazione (art. 1 dello schema di decreto).
L’art. 1 dello schema di decreto definisce l’oggetto e l’ambito di applicazione della riforma, escludendo da tale ambito: i) i dirigenti delle amministrazioni in regime di diritto pubblico; ii) i dirigenti scolastici, medici, veterinari e sanitari del Servizio sanitario nazionale.
Nell’ambito di questa disposizione è necessario aggiungere una norma che chiarisca la non diretta applicazione della riforma al sistema delle autonomie regionali speciali, le quali, se lo riterranno opportuno, potranno adeguare i propri ordinamenti al nuovo sistema della Dirigenza della Repubblica.
Si potrebbe, pertanto, aggiungere il seguente comma: «Restano ferme le attribuzioni e le prerogative riconosciute alle Regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e Bolzano dagli statuti speciali di autonomia e dalle relative norme di attuazione».


2. Rapporto di lavoro e qualifica dirigenziale (art. 13).
2.1. L’art. 13, introdotto dall’art. 2 del decreto prevede, al primo comma, che «la qualifica dirigenziale è unica». Non è più riprodotta la disposizione dell’art. 23 del d.lgs. n. 165 del 2001 che distingueva, nella fase di accesso alla dirigenza, due fasce distinte, con la conseguenza che «ogni dirigente iscritto nei ruoli di cui all’art. 13-bis, e in possesso dei requisiti previsti dalla legge, può ricoprire qualsiasi incarico dirigenziale».
Il secondo comma dell’art. 13 dispone che: «le amministrazioni pubbliche, in relazione alla complessità organizzativa e alla necessità di coordinare diversi uffici dirigenziali, possono articolare gli uffici dirigenziali in diversi livelli di responsabilità, anche introducendo la distinzione tra incarichi dirigenziali generali e altri incarichi dirigenziali, assicurando comunque l’invarianza della spesa complessiva per il personale dirigente».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
Il legislatore, in ragione della incidenza della riforma sull’assetto organizzativo delle singole amministrazioni, conferisce ad esse il potere di adeguare detto assetto alla nuova regolazione.
Questa previsione deve essere interpretata in modo conforme alla legge delega e, pertanto, essa non può costituire la base normativa per una reintroduzione, nella fase di organizzazione degli uffici, di differenziazioni interne all’unica qualifica.
La connessione tra qualifiche dirigenziali e tipologie di incarichi assume rilevanza nella disciplina vigente in ragione della possibilità di assegnare determinati incarichi soltanto ai dirigenti inseriti nella prima fascia. La soppressione della distinzione in fasce rende non necessario il richiamo alla tipologia di incarichi, anche in ragione del fatto che il Capo III dello schema di decreto disciplina in modo organico la tipologia di incarichi che possono essere attribuiti. Per questi motivi si propone di eliminare l’inciso «anche introducendo la distinzione tra incarichi dirigenziali generali e altri incarichi dirigenziali»
2.2. Il comma 3 dell’art. 13 dispone che: «il rapporto di lavoro di ciascun dirigente è costituito con contratto di lavoro a tempo indeterminato, stipulato con l’amministrazione che lo assume, all’esito delle procedure di cui agli articoli 28, 28-bis e 28-ter, con contestuale iscrizione nei ruoli di cui all’art. 13-bis». La norma prosegue disponendo che: «il successivo conferimento di incarico dirigenziale, da parte di altra amministrazione, comporta la cessione a quest’ultima del contratto di lavoro a tempo indeterminato, ferma restando l’iscrizione nel ruolo». Si prevede, infine, che: «lo scioglimento del rapporto di lavoro comporta la decadenza dai ruoli dirigenziali».
La Commissione si limita a rilevare, sul piano formale, come la disciplina della incidenza del conferimento di un successivo incarico sul contratto di lavoro sia già contenuta, con disposizione sostanzialmente analoga, nell’art. 4 dedicato agli incarichi dirigenziali (II, 11.3).
2.3. Infine, sempre sul piano formale, sarebbe opportuno invertire l’ordine di collocazione dei tre commi in coerenza con lo sviluppo temporale del procedimento. La disposizione potrebbe essere riformulata nei seguenti termini.
«1. Il rapporto di lavoro del dirigente è costituito con contratto di lavoro a tempo indeterminato, stipulato con l’amministrazione che lo assume, all’esito delle procedure di cui agli articoli 28, 28-bis e 28-ter, con contestuale iscrizione nei ruoli di cui all’art. 13-bis. Lo scioglimento del rapporto di lavoro comporta la decadenza dai ruoli dirigenziali.
2. La stipulazione del contratto di lavoro comporta l’acquisizione della qualifica dirigenziale. La qualifica è unica e consente a ogni dirigente iscritto nei ruoli e in possesso dei requisiti dell’art. 19-bis di ottenere il conferimento di qualsiasi tipologia di incarico.
3. Le amministrazioni pubbliche, in relazione alla complessità organizzativa e alla necessità di coordinare diversi uffici dirigenziali, possono articolare gli uffici dirigenziali in diversi livelli di responsabilità, assicurando comunque l’invarianza della spesa complessiva per il personale dirigente».


3. Sistema della dirigenza pubblica (art. 13-bis).
L’art. 13-bis, introdotto dall’art. 2 del decreto, prevede che il sistema della dirigenza è costituito dal ruolo dei dirigenti statali, dal ruolo dei dirigenti regionali e dal ruolo dei dirigenti locali.
3.1. Il comma 2 elenca le «amministrazioni» che possono procedere, all’atto dell’assunzione, all’inserimento dei dirigenti nel ruolo dei dirigenti statali. Nell’elencazione sono inclusi esclusivamente «gli uffici del Consiglio di Stato» e «della Corte dei conti» e non anche i dirigenti degli “altri” uffici giudiziari.
Per quanto i dirigenti che operano negli uffici dell’autorità giudiziaria ordinaria siano collocati, sul piano organizzativo, nell’ambito del Ministero della Giustizia, sarebbe opportuna una loro espressa menzione in modo da assegnare, in coerenza con il principio storico di sostanziale omogeneità dei sistemi di trattamento tra i diversi ordini magistratuali, valenza unitaria a tale sistema e consentire, valorizzando le specifiche competenze, un loro inserimento nelle sezioni speciali del ruolo della dirigenza (v. successivo punto). In alternativa, anche gli uffici espressamente indicati dovrebbero essere sottratti dal perimetro della riforma stessa per ricomporre l’unitarietà del sistema delle Magistrature.
3.2. Il comma 5 dispone che: «in ciascuno dei Ruoli della dirigenza possono essere costituite sezioni speciali, per le categorie dirigenziali professionali e tecniche individuate dal Regolamento di cui all’articolo 28-sexies».
La predetta norma dà attuazione alla previsione della legge delega nella parte in cui prevede che, nell’ambito del ruolo, devono essere previste «sezioni per le professionalità speciali» (art. 11, comma 1, lettera a, n. 1).
La Commissione speciale rileva come il contenuto di tale disposizione sia apprezzabile, in quanto la sua attuazione potrebbe consentire, in coerenza con i principi costituzionali che definiscono il modello di dirigenza pubblica, di valorizzare le specifiche professionalità acquisiste nell’esercizio di determinate funzioni dirigenziali. In questa ottica, è necessario che la norma non contempli un potere discrezionale ma un obbligo, per la fonte regolamentare, di provvedere all’articolazione del ruolo in sezioni speciali.
La dizione «categorie dirigenziali», evocando una forma astratta di inquadramento, non esprime un concetto del tutto corrispondente alle intenzioni del legislatore delegante. Essendo, invece, necessario avere riguardo alle effettive e concrete attività svolte nell’ambito di un determinato incarico dirigenziale, si potrebbe sostituire l’espressione in esame con la seguente: «per le funzioni dirigenziali che richiedono il possesso di professionalità speciali».
3.3. Il comma 6 dispone che: «il ruolo dei dirigenti regionali e il ruolo del dirigenti locali sono istituiti previa intesa, rispettivamente, in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, e in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali».
La norma in esame, nel prevedere un particolare meccanismo di istituzione dei ruoli dei dirigenti regionali e locali, muove dall’implicito presupposto che viene in rilievo la materia dell’organizzazione regionale e degli enti locali di competenza residuale delle Regioni (I, 2.3.)
Lo schema di decreto, pur in mancanza di una espressa enunciazione in tale senso, intende introdurre una disciplina che rinviene il proprio fondamento giustificativo nel principio di sussidiarietà legislativa.
E’ necessario, pertanto, accertare se siano state rispettate le condizioni che presiedono al funzionamento della cosiddetta “chiamata in sussidiarietà” (I, 2.3): si espongono qui di seguito sia le ragioni per le quali tale accertamento può avere esito positivo, sia i meccanismi che devono essere attivati per il suo corretto funzionamento.
Questo Collegio ritiene che le esigenze unitarie siano sussistenti. La previsione di ruoli unici e coordinati è indispensabile per il funzionamento, sull’intero territorio nazionale, delle nuove regole organizzative finalizzate ad assicurare un trattamento eguale ai dirigenti che operano nel mercato.
La disciplina appare limitata agli aspetti strettamente pertinenti e proporzionali al perseguimento dell’obiettivo.
La leale collaborazione è garantita dall’intesa in sede di Conferenza. Si tratta dell’unico strumento cooperativo configurabile, non essendo possibile, in ragione della specificità della regolazione, contemplare meccanismi di coinvolgimento della singola Regione.
Nondimeno, il Consiglio di Stato ritiene che la penetrante incidenza in ambiti legislativi di spettanza regionali impone, alla luce della giurisprudenza costituzionale sopra riportata, la previsione di modalità di cooperazione di maggiore intensità. In questa prospettiva, è, pertanto, necessario chiarire che si deve trattare di una «intesa forte». Si dovrebbe regolare anche la fase eventuale del mancato raggiungimento dell’intesa che, evitando un indefinito arresto procedimentale, assicuri l’assunzione finale di una decisione. Si potrebbe, pertanto, prevedere lo svolgimento di reiterate trattative che coinvolgono le autonomie regionali e locali e soltanto all’esito di esse l’adozione da parte dello Stato di una decisione unilaterale. In particolare, si potrebbe prevedere che nel caso in cui l’intesa non è raggiunta entro trenta giorni dalla prima seduta della Conferenza in cui l’oggetto è posto all’ordine del giorno, viene fissata una seconda seduta da tenersi entro i successivi quindici giorni. In tale riunione lo Stato deve proporre un progetto di decisione che prende in considerazione i rilievi che hanno impedito il raggiungimento dell’accordo. Qualora non si pervenga ad una decisione finale, la questione deve essere rimessa al Consiglio dei ministri e posta, di norma, all’ordine del giorno della prima riunione del Consiglio dei ministri successiva alla scadenza del termine per raggiungere l’intesa, assicurando la partecipazione di organismi rappresentativi del sistema delle autonomie regionali.
3.4. Il comma 7, primo inciso, prevede che: «Il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, provvede alla gestione dei ruoli della Dirigenza. A questo scopo, il Dipartimento provvede alla tenuta e all’aggiornamento della banca dati del Sistema della dirigenza pubblica, che contiene l’indicazione degli uffici dirigenziali presso ciascuna delle amministrazioni statali, regionali e locali e dei relativi titolari, nonché, per ciascun dirigente di ruolo, il curriculum vitae, la collocazione nella graduatoria di merito adottata ai sensi degli articoli 28-bis e 28-ter, il percorso professionale e gli esiti delle valutazioni. La banca dati viene alimentata con i dati inseriti dalle amministrazioni e dai singoli dirigenti. Le amministrazioni che non inseriscono i dati necessari alla creazione e all’aggiornamento della banca dati non possono conferire incarichi dirigenziali».
La Commissione speciale rileva come tale disposizione, rientrante nella materia di cui all’art. 117, secondo comma, lettera r, Cost., potrebbe presentare, in alcuni profili, questioni di compatibilità con la legge delega.
La legge delega prevede la «istituzione di una banca dati nella quale inserire il curriculum vitae, un profilo professionale e gli esiti delle valutazioni» per ciascun dirigente dei ruoli della Dirigenza, con «affidamento al Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri della tenuta della banca dati e della gestione tecnica dei ruoli, alimentati dai dati forniti dalle amministrazioni interessate» (art. 11, comma 1, lettera a). La stessa legge attribuisce la gestione del ruolo unico, per i dirigenti regionali e locali, ad una apposita Commissione per la dirigenza regionale e locale (art. 11, comma 1, lettera b, n. 2).
In primo luogo, la norma del decreto, nella parte in cui prevede che la gestione (senza ulteriori qualificazioni) dei tre ruoli spetti al Dipartimento della funzione pubblica, si potrebbe porre in contrasto con la legge delega, che, invece, come appena sottolineato, da un lato, affida al predetto Dipartimento solo la «gestione tecnica», dall’altro, attribuisce la gestione del ruolo unico, per i dirigenti regionali e locali, ad una apposita Commissione per la dirigenza regionale e locale.
L’armonia dei testi normativi può essere agevolmente ricomposta mediante l’aggiunta, dopo «gestione», dell’espressione «tecnica», idonea a chiarire che le funzioni sono connesse, in particolare alla gestione della banca dati del sistema della dirigenza pubblica.
In secondo luogo, la previsione dell’impossibilità di conferire incarichi per le amministrazioni che non adempiono all’obbligo di inserire i dati nella banca dati non rinviene un espresso fondamento nella legge delega. Tale prescrizione si risolve in una sostanziale sanzione nei confronti dei dirigenti per un inadempimento posto in essere dalle amministrazioni. Il Consiglio di Stato è consapevole dell’importanza di forme di deterrenza finalizzate ad evitare che la mancata collaborazione di alcuni soggetti pubblici possa incidere sul complessivo funzionamento della banca dati ostacolandone la concreta attuazione. Si potrebbe, pertanto, prevedere che la sanzione per la mancata cooperazione per le singole amministrazioni sia costituita dal divieto di bandire concorsi finché dura l’inadempimento. Nella fonte regolamentare (II, 8) potrebbero poi essere disciplinati poteri sollecitatori del Dipartimento della funzione pubblica, che ricomprendono assegnazione di termini per l’adempimento e nomina di eventuali commissari ad acta.
Il Governo dovrebbe, in coerenza con il principio di effettività, valutare anche l’opportunità di prevedere un regime di sperimentazione e di progressiva entrata in vigore del nuovo sistema di gestione tecnica della banca dati al fine di essere certi del corretto funzionamento di questo meccanismo fondamentale per l’attuazione della riforma.


Capo II. Reclutamento e formazione.
4. Accesso alla dirigenza (art. 28).
L’art. 28, introdotto dall’art. 3 dello schema di decreto, disciplina le modalità di accesso alla dirigenza.
4.1. Il vigente art. 28 prevede, per la dirigenza statale, due modalità di accesso alla qualifica di dirigenza di seconda fascia: concorso indetto dalle singole amministrazioni ovvero corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione (comma 1). Tale normativa, a seguito delle modifiche apportate dal d.P.R. 13 aprile 2013, n. 40, demanda ad un regolamento governativo di esecuzione di definire «le percentuali, sul complesso dei posti di dirigente disponibili, riservate al concorso per esami e al corso-concorso» (comma 5).
Il vigente art. 28-bis prevede, invece, che l’accesso alla qualifica di dirigente di prima fascia avvenga all’esito di un concorso pubblico per titoli ed esami cui possono essere ammessi, tra gli altri, «i dirigenti di ruolo delle pubbliche amministrazioni, che abbiano maturato almeno cinque anni di servizio nei ruoli dirigenziali».
La legge delega ha modificato le modalità di accesso prevedendo, a seguito del superamento delle due fasce, un’unica procedura. In particolare, si dispone che la qualifica dirigenziale può essere assunta per «corso-concorso» e per «concorso»: il primo ha «cadenza annuale» per «ciascuno dei tre ruoli» e per «un numero fisso di posti, definito in relazione al fabbisogno minimo annuale del sistema amministrativo» (art. 11, comma 1, lettera c, n. 1); il secondo ha «cadenza annuale» per «ciascuno dei tre ruoli» e per «un numero di posti variabile, per i posti disponibili nella dotazione organica e non coperti del corso-concorso».
A regime, lo schema di decreto dispone che: i) «il corso-concorso è bandito ogni anno per il numero di posti definiti sulla base della programmazione triennale delle assunzioni da parte delle amministrazioni, e delle relative richieste»; ii) «al reclutamento mediante concorso si procede esclusivamente per i posti di qualifica dirigenziale autorizzati dal Dipartimento della funzione pubblica per i quali si pongono esigenze non coperte dalla programmazione triennale».
In sede di prima applicazione, lo schema di decreto prevede che: «il Dipartimento della funzione pubblica effettua una ricognizione degli uffici coperti mediante incarichi dirigenziali, anche tenuto conto della istituzione, negli enti locali privi della dirigenza, della figura del dirigente apicale di cui all’art. 27-bis». La stessa disposizione aggiunge che: «a decorrere dalla predetta ricognizione, il Dipartimento della funzione pubblica di concerto con il Dipartimento della ragioneria generale dello Stato autorizza annualmente procedure concorsuali, assicurando una giusta proporzione tra personale dirigenziale e personale non dirigenziale nelle diverse amministrazioni e prevedendo, ove necessario, una graduale riduzione del numero complessivo dei dirigenti e garantendo l’equilibrio complessivo dei saldi di finanza pubblica in relazione alla spesa del personale dirigente in servizio nel triennio di riferimento». Infine, si dispone che: «le amministrazioni interessate adottano le conseguenti misure inerenti all’assetto organizzativo».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
Innanzitutto, sarebbe opportuno chiarire quale sia il rapporto tra l’indizione del corso-concorso e le procedure di selezione dei dirigenti (II, 12): lo schema di decreto sembra assegnare rilevanza alle «richieste» delle amministrazioni ai fini dell’indizione del predetto concorso, senza, però, specificare come debba essere orientata la scelta tra le due modalità di reclutamento.
In secondo luogo, si pone in rilievo la possibile non piena conformità della regolazione del sistema a regime ai criteri della legge delega.
La scelta del legislatore delegante è stata quella di valorizzare, anche nell’ottica di favorire l’ingresso di un numero più elevato di giovani, il corso-concorso rispetto al concorso. E’ stata, infatti, posta una regola di preferenza fondata sulla previsione di «posti fissi» banditi annualmente per il corso-concorso e «posti disponibili» non coperti dal primo e dunque “variabili”, banditi anch’essi annualmente per il corso-concorso.
La previsione del Governo è rispettosa del principio di valorizzazione del corso-concorso ma fonda la regola di preferenza non sul dato oggettivo del rapporto “posti fissi” e “posti disponibili” ma sul dato soggettivo costituito dal giudizio del Dipartimento della funzione pubblica, basato sul presupposto, peraltro di non chiaro significato, della sussistenza di «esigenze non coperte dalla programmazione triennale».
Questa parziale discrasia può essere superata mediante la formulazione di un testo normativo che, in ragione dell’analiticità della previsione della legge delega, ne recepisca, sostanzialmente, il contenuto (per i rilievi riferiti al regime transitorio si v. oltre 4.4).
Si propone la seguente formulazione:
«Il corso-concorso è bandito ogni anno per il numero di posti definiti sulla base della programmazione triennale delle assunzioni da parte delle amministrazioni e delle relative richieste. Al reclutamento mediante concorso si procede per i posti di qualifica dirigenziale disponibili nella dotazione organica e rimasti non coperti dal corso-concorso».
4.2. Il comma 3 demanda al regolamento di disciplinare: a) i criteri per la composizione e la nomina delle commissioni esaminatrici dei concorsi; b) i criteri di selezione dei partecipanti; c) i criteri per la valutazione dei titoli; d) la durata, l’articolazione del corso-concorso, le modalità di verifica degli apprendimenti e di formazione della graduatoria finale; e) la durata e l’articolazione del ciclo formativo; f) i contenuti principali del corso concorso e del ciclo formativo; g) tali contenuti in relazione anche alle sezioni speciali.
La fonte primaria ha attribuito al regolamento la disciplina della fase della procedura concorsuale, nonché quella della formazione professionale. Le questioni poste da questa modalità attuativa, inserendosi essa nell’ambito dell’ampia previsione dell’art. 28-sexies, saranno analizzate nel prosieguo.
4.3. Il comma 4 prevede che: «Restano ferme le vigenti disposizioni di accesso alle qualifiche dirigenziali delle carriere diplomatica e prefettizia, delle Forze di polizia, delle Forze armate e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco. Con il consenso delle relative amministrazioni, con il corso-concorso e con il concorso può tuttavia essere reclutato il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia, nonché quello della carriera dirigenziale penitenziaria e delle autorità indipendenti, purché le relative amministrazioni abbiamo preventivamente comunicato il relativo fabbisogno».
La Commissione speciale pone in evidenza l’esigenza di integrare la prima parte del precetto mediante l’inserimento anche della qualifica dirigenziale della «carriera penitenziaria». E’ necessario, invece, eliminare nella seconda parte il riferimento: i) alla «carriera diplomatica» e alla «carriera prefettizia» che, per le loro peculiari specialità, non possono essere oggetto, neanche con il consenso dei rispettivi Ministeri, di “negoziazione” volta a creare sovrapposizioni non conformi al principio di buona amministrazione e contrastanti con il carattere che, per i diplomatici e per i prefetti, assuma la complessa e difficile prova di concorso, che è il primo elemento distintivo della tipicità di quella carriera; ii) alle «autorità indipendenti», in ragione della loro peculiare collocazione organizzativa che impone il riconoscimento di una piena autonomia e separazione anche in relazione alla regolazione della fase concorsuale in esame.
4.4. Il comma 5 dispone che: «alla dirigenza regionale e alla dirigenza locale si accede per corso-concorso o per concorso» nel rispetto delle modalità sopra indicate. La norma aggiunge che «le intese di cui all’art. 13-bis, comma 6, disciplinano la programmazione del reclutamento e i contenuti specifici delle materie oggetto del corso-concorso e del concorso per i dirigenti regionali e locali».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
La disciplina delle modalità di accesso alla dirigenza rientra nelle materie dell’organizzazione amministrativa e della formazione professionale con la conseguente ripartizione delle competenze tra i livelli istituzioni di Governo, statale e regionali, secondo le regole già indicate (I, 2.3.).
Ne consegue che il coinvolgimento del sistema delle autonomie regionali e locali nella fase attuativa non può essere limitato ai profili contenuti nella norma in esame ma deve essere esteso a tutti gli ambiti di rilevanza organizzativa e formativa che riguardano i dirigenti regionali e locali. In particolare, in relazione al regime transitorio, l’intesa in sede di Conferenza deve necessariamente ricomprendere l’attività di ricognizione dei posti dirigenziali disponibili e la programmazione delle assunzioni.
Per quanto attiene allo sviluppo applicativo della fonte primaria demandato al regolamento governativo anche in questo ambito, per le ragioni indicate oltre (II, 8), dovranno essere assicurare modalità procedimentali di adozione che assicurino il rispetto del principio di leale cooperazione.
Sul piano formale, è opportuno non demandare alle intese la funzione di disciplinare i profili sopra riportati, facendo così assurgere le stesse intese a fonte del diritto, ma occorre prevedere che l’attività oggetto della previsione in esame venga stabilita previa intesa con la Conferenza di cui all’art. 13-bis, comma 6.


5. Corso-concorso per l’accesso alla dirigenza (art. 28-bis).
L’art. 28-bis, introdotto dall’art. 3 dello schema di decreto, disciplina il corso-concorso per l’accesso alla dirigenza.
5.1. Il comma 1 prevede che «al corso-concorso per l’accesso alla dirigenza si accede mediante concorso per esami».
La norma in esame deve essere completata mediante la previsione, oggi contenuta nel primo comma dell’art. 28, che sancisca che il corso-concorso, per la dirigenza statale, è «bandito dalla Scuola nazionale della pubblica amministrazione».
5.2. Il comma 2 dispone che «possono partecipare al corso-concorso(…) i cittadini di uno degli Stati membri dell’Unione europea in possesso di una laurea specialistica o magistrale o titoli equipollenti conseguenti all’estero, oppure del diploma di laurea conseguito secondo gli ordinamenti didattici previgenti al decreto ministeriale 3 novembre 1999, n. 509. Il regolamento di cui all’art. 28-sexies individua la soglia di partecipanti al di sopra della quale possono essere previsti criteri di preselezione, ivi inclusi precedenti esperienze professionali o titoli post-laurea».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
L’art. 28, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001 prevedeva che occorresse, ai fini della partecipazione, anche un titolo post-laurea.
Il d.p.r. 16 aprile 2013, n. 70 ha modificato il sistema prevedendo che: «i candidati non dipendenti pubblici devono essere in possesso almeno della laurea specialistica o magistrale oppure del diploma di laurea conseguito secondo gli ordinamenti didattici previgenti al decreto ministeriale 3 novembre 1999, n. 509; i candidati già dipendenti di amministrazioni pubbliche devono essere in possesso almeno della laurea triennale con esperienza professionale almeno triennale nell'ambito della pubblica amministrazione».
La legge delega dispone che occorre essere in possesso di un titolo di studio non inferiore alla laurea magistrale (art. 11, lettera c, n. 1).
Nella relazione illustrativa allo schema di decreto si afferma che è necessario, ai fini della partecipazione, essere in possesso di un titolo post -laurea.
A fronte della rilevata discrasia tra testo dello schema di decreto e relazione illustrativa e alla luce della discrezionalità che la legge delega, sul punto, conferisce al Governo è opportuno che questo aspetto di disciplina venga chiarito.
5.3. Il comma 5 dispone che: «i vincitori del corso-concorso sono immessi in servizio come funzionari, per un periodo di tre anni, presso le amministrazioni presso le quali sono stati banditi i posti, tenuto conto dell’ordine di graduatoria». La stessa norma prevede che «l’amministrazione presso la quale il vincitore presta servizio può ridurre il suddetto periodo fino ad un anno in relazione all’esperienza lavorativa maturata nel settore pubblico o a esperienze all’estero, secondo le previsione del Regolamento di cui all’art. 28-sexies», aggiungendo che «ai vincitori sono attribuiti incarichi dirigenziali temporanei, per una durata non superiore al suddetto periodo».
Il comma 5 disciplina la fase successiva alla conclusione del periodo di prova, disponendo che: «l’amministrazione presso la quale i vincitori del corso-concorso hanno prestato servizio trasmette alla Commissione di cui all’art. 19» (II, 9) «una relazione contenente una valutazione di merito sul servizio prestato. In caso di valutazione positiva, l’amministrazione presso la quale il vincitore ha prestato servizio assume il dipendente come dirigente a tempo indeterminato, e gli conferisce un incarico senza l’espletamento della procedura concorsuale di cui all’art. 19-ter» (II, 11). «Il dirigente assunto a tempo indeterminato consegue automaticamente l’iscrizione nel Ruolo della dirigenza statale. In caso di valutazione negativa, l’interessato non consegue l’assunzione in servizio come dirigente a tempo indeterminato e si applica quanto previsto dal comma 7».
Il comma 7 regola, oltre a quanto previsto da tale ultima prescrizione, la sorte dei partecipanti al corso-concorso che, pur ottenendo una valutazione finale di sufficienza, non risultino vincitori, disponendo che «sono assunti a tempo indeterminato nel livello di inquadramento giuridico più elevato fra le qualifiche non dirigenziali, salvo che già non rivestano tale qualifica, o comunque optino per il mantenimento dell’inquadramento in essere».
La Commissione speciale prospetta i seguenti rilievi in ordine di rilevanza gradata.
In primo luogo, potrebbe porsi un problema di compatibilità con quanto stabilito dalla legge delega.
L’art. 11, comma 1, lettera c), n. 1 dispone la «immissione in servizio dei vincitori del corso-concorso come funzionari, con obblighi di formazione, per i primi tre anni, con possibile riduzione del suddetto periodo in relazione all'esperienza lavorativa nel settore pubblico o a esperienze all'estero e successiva immissione nel ruolo unico della dirigenza da parte delle Commissioni di cui alla lettera b) sulla base della valutazione da parte dell'amministrazione presso la quale è stato attribuito l'incarico iniziale» (art. 11, comma 1 lettera, c).
La ragione giustificativa della norma è quella di prevedere un periodo di formazione dei vincitori di un concorso cui si può accedere, a differenza della seconda modalità prevista, senza necessità di avere maturato un periodo di pregressa esperienza lavorativa.
Nella legge delega non è, però, contemplata la possibilità che a coloro che ottengono una valutazione positiva sia attribuibile un incarico dirigenziale «senza l’espletamento della procedura comparativa». Non potrebbe ritenersi questo un necessario completamento attuativo del criterio direttivo, il quale, come già esposto, ha già in sé una sua autonoma giustificazione.
In secondo luogo, la norma potrebbe porre un’ulteriore questione di costituzionalità con riferimento all’art. 97 della Costituzione.
Il modello costituzionale di dirigenza presuppone, come già sottolineato, che il legislatore preveda regole obiettive di garanzia nelle diverse fasi di svolgimento del procedimento di conferimento dell’incarico in grado di evitare forme di non consentita commistione tra funzioni politiche e gestionali. Nel caso in esame dette regole non sono affidate, com’è previsto in generale, al rispetto di criteri selettivi nell’ambito di una procedura comparativa ma ad una «valutazione di merito sul servizio prestato». Tale valutazione presenta profili di criticità sia per la mancanza di puntuali criteri che devono presiedere al giudizio finale sia perché si attribuisce detto giudizio alla stessa amministrazione con un ruolo di controllo della Commissione che, per le ragioni che verranno esposte e per la stessa natura di una valutazione che si sottrae ad una effettiva verifica estrinseca, non può rappresentare garanzia di imparzialità.
In terzo luogo, la normativa in esame, in una delle sue possibili evoluzioni applicative, regola un momento organizzativo diverso da quello che riguarda la dirigenza pubblica, incidendo sulla dotazione organica dei funzionari e direttamente anche sulle autonome scelte organizzative delle Regioni e degli Enti locali che hanno individuato sia le posizioni dirigenziali, che in tal modo restano scoperte, sia quelle dei funzionari in senso stretto (cfr. Corte cost. n. 37 del 2015, che, sia pure ad altro fine, sottolinea la necessità di tenere separate, nella fase di accesso, funzioni dirigenziali e di funzionario).
In definitiva, il Consiglio di Stato, pur comprendendo le ragioni della previsione, ritiene che essa, per come formulata, presenti plurimi dubbi di compatibilità costituzionale, accentuati dalla genericità della previsione stessa.


6. Concorso per l’accesso alla dirigenza (art. 28-ter).
L’art. 28-ter, introdotto dall’art. 3 dello schema di decreto, prevede che «il concorso per l’accesso alla dirigenza è bandito dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri».
Il comma 4 dispone che: «dopo i tre anni di servizio, come dirigenti con rapporto di lavoro a tempo determinato, i vincitori sono soggetti a un esame di conferma, volto a verificare la concreta attitudine e capacità manageriale, da parte di una apposita commissione nominata dalla Commissione per la dirigenza statale».
Il Consiglio di Stato rileva quanto segue.
La previsione in esame rappresenta il completamento sistematico del quadro relativo al giudizio di idoneità a svolgere funzioni manageriali da parte dei soggetti vincitori del concorso.
Nel caso del corso-concorso, come già sottolineato, è previsto un vero e proprio periodo di formazione. Nel caso del concorso è prevista una verifica sull’attività svolta. La diversità di regime risulta conforme al principio di ragionevolezza, in ragione della oggettiva diversità dei requisiti e dei presupposti che devono sussistere ai fini dell’accesso diversificato alla dirigenza.
Anche in questo caso sono presenti criticità connesse alla genericità della previsione.
La legge delega (art. 11, lettera c, n. 2) prevede che venga nominato un «organismo indipendente». Il legislatore delegato si è limitato a disporre che detto organismo venga nominato dalla Commissione per la dirigenza statale. Sarebbe, invece, opportuno che l’attuazione del criterio direttivo avvenga mediante la puntuale declinazione della composizione di questo organismo e dei criteri che ne devono guidare il giudizio. Il Consiglio di Stato suggerisce di indicare queste modalità operative nel regolamento di esecuzione, con il coinvolgimento del sistema delle Conferenze in presenza di dirigenti regionali o locali (II, 8).


7. Scuola nazionale dell’amministrazione (art. 28-quinquies).
L’art. 28-quinquies, introdotto dall’art. 3 dello schema di decreto, detta una nuova disciplina della Scuola nazionale dell’amministrazione, disponendo che essa «è trasformata, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, in agenzia, dotata di personalità giuridica di diritto pubblico e di autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria, sottoposta alla vigilanza della Presidenza del Consiglio dei ministri» (comma 1). La stessa disposizione prevede che «la Scuola svolge funzioni di reclutamento e formazione del personale delle pubbliche amministrazioni, anche avvalendosi di istituzioni nazionali e internazionali di riconosciuto prestigio» (comma 2).
Nei commi successivi viene dettata una disciplina articolata del nuovo organismo.
La Commissione speciale rileva criticamente come l’impianto complessivo della nuova regolazione sia rimasto fermo ad una visione incentrata su attività didattiche tradizionali mediante la previsione di corsi assimilabili a quelli universitari piuttosto che a forme nuove di formazione teorico-pratica in grado di preparare al meglio i futuri dirigenti della Repubblica.
Inoltre, gli obiettivi di formazione della Scuola devono essere specificamente calibrati sulla figura del dirigente e non sull’intero personale delle pubbliche amministrazioni.
Il settore della formazione ha risentito delle esigenze di contrazione delle risorse che hanno condotto alla costituzione di un «Sistema unico del reclutamento e della formazione pubblica», il quale ha assorbito anche funzioni “storiche” di formazione in settori peculiari (quali, ad esempio, Ministeri degli esteri e dell’interno) con esiti negativi per la stessa qualità delle attività formative (cfr. d.p.r. n. 70 del 2013). In contraddizione con tali esigenze è stato poi ampliato l’organico stabile dei docenti dando spazio ad altri “Professori” piuttosto che a veri e propri “Formatori”.
Si invita, pertanto, il Governo a rivedere la struttura complessiva di questa parte del testo, modificandola, con prescrizioni puntuali, in modo da assicurare preminenza alla formazione operativa come linea guida fondante la nuova Scuola prefigurata dalla riforma.
7.1. Il comma 3 dispone che: «Con decreto del Presidente della Repubblica, emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione di concerto con il Ministero dell’economica e delle finanze, formulata previa interlocuzione con istituzioni nazionali ed internazionali di riconosciuto prestigio, previa acquisizione del parere della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, è adottato lo Statuto della Scuola».
Il Consiglio di Stato pone in rilievo la genericità della prevista interlocuzione con istituti nazionali ed internazionali di riconosciuto prestigio, che dovrebbe essere regolata in modo più puntuale, mediante il rinvio, ad esempio, ad un atto del Presidente del Consiglio dei ministri che individui puntualmente detti istituti su proposta della Conferenza dei Rettori e/o di altri organismi, anche stranieri, indipendenti.
Inoltre, il richiamo al parere della Conferenza dovrebbe essere sostituito, per le sole implicazioni sulla dirigenza regionale e locale, dalla previa intesa secondo il modello generale più volte indicato (II, 3.3.).
7.2. Il comma 6 prevede che: «Il Direttore è vertice dell’istituzione, ne ha la rappresentanza legale, e presiede il Comitato direttivo e il Comitato scientifico di cui al comma 11. Il Comitato direttivo approva i programmi di attività della Scuola, formula indirizzi relativi ai contenuti dei corsi e dei cicli di formazione, stabilisce i criteri per la selezione dei docenti, approva i bilanci e le relative variazioni, adotta gli altri provvedimenti previsti dallo stato o dai regolamenti della Scuola».
Il comma 11 dispone che: «Lo statuto prevede la costituzione di un Comitato scientifico, composto da non oltre dieci professori universitari o esperti, anche stranieri, di comprovata qualificazione scientifica, nonché da rappresentati di istituzioni di riconosciuta eccellenza nella sezione e formazione del personale, che formula al Direttore il parere sui programmi di attività, e svolge attività consultiva e istruttoria, su richiesta del Direttore».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
In primo luogo, occorre meglio chiarire i rapporti tra il Comitato direttivo ed il Comitato Scientifico che è previsto, sembra obbligatoriamente, dallo Statuto con funzioni in parte analoghe o sovrapponibili al primo.
In secondo luogo, va chiarita l’esatta composizione del Comitato scientifico e, in particolare, se esso sia costituito da dieci soggetti scelti tra le categorie indicate ovvero se dieci siano solo i professori universitari o esperti, cui si aggiungono i rappresentanti di istituzioni di riconosciuta eccellenza nella selezione e formazione del personale. Se si opta per questa seconda interpretazione non risulta quale sia la massima dotazione dei suddetti rappresentati e dunque la complessiva composizione del Comitato.
Infine, appare generica e non adeguatamente giustificata la previsione del conferimento, su richiesta del direttore, a tale Comitato scientifico di funzioni consultive ed istruttorie non meglio specificate.
7.3 Il comma 17 prevede che: «il personale della Presidenza del Consiglio dei ministri in servizio, alla data di entrata in vigore del presente decreto, presso la Scuola nazionale dell’amministrazione–SNA è trasferito nei ruoli della Scuola, fermo restando il diritto di opzione per gli uffici di provenienza della Presidenza medesima».
La Commissione speciale mette in rilievo la necessità di indicare il termine decadenziale entro il quale la suddetta opzione deve essere esercitata. Tale termine, in coerenza con quanto disposto dal precedente comma 16 della stessa norma, potrebbe essere fissato in tre mesi.


8. Regolamento di attuazione (art. 28-sexies).
8.1. L’art. 28-sexies, introdotto dall’art. 3 dello schema di decreto, dispone che: «Con regolamento adottato ai sensi dell’art. 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministero delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono definite le disposizioni di attuazione del presente Capo».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
Sul piano del sistema delle fonti, è previsto un regolamento che, per gli aspetti afferenti ai ruoli regionali e locali, incide su materie di competenza regionale. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 303 del 2003, aveva ritenuto che i cosiddetti “regolamenti sussidiari” non fossero ammissibili in quanto in un sistema di riparto «rigidamente strutturato, alla fonte secondaria statale è inibita in radice la possibilità di vincolare l'esercizio della potestà legislativa regionale o di incidere su disposizioni regionali preesistenti; e neppure i principî di sussidiarietà e adeguatezza possono conferire ai regolamenti statali una capacità che è estranea al loro valore, quella cioè di modificare gli ordinamenti regionali a livello primario».
La successiva giurisprudenza costituzionale ha ammesso l’adozione di regolamenti governativi anche in ambiti di competenza regionale attratti in sussidiarietà a livello statale (Corte cost. n. 151 del 2005). La disciplina con legge statale di una materia di competenza regionale si estende su tutto l’ambito materiale rilevante, con la conseguenza che non sarebbe neanche astrattamente prospettabile il rischio che una fonte statale secondaria possa condizionare una non esercitata funzione legislativa regionale primaria. Ne consegue che lo Stato potrà regolare la funzione amministrativa attratta in sussidiarietà con atti normativi sia primari che secondari.
Chiarito ciò, la Commissione speciale rileva, però, che lo schema di decreto demandi al regolamento di stabilire regole attuative che incidono, per le parti relative alla dirigenza regionale o locale, in ambiti di competenza delle Regioni. Le modalità collaborative con il sistema delle autonomie che devono essere assicurate nella fase di esercizio delle funzioni amministrative contemplate nella fonte statale primaria devono, allo stesso modo, essere previste nella fase di esercizio delle funzioni regolamentari in esame. Si potrebbe, pertanto, estendere il meccanismo delle intese in sede di Conferenza anche ai fini dell’adozione del regolamento in esame.


Capo III – Incarichi dirigenziali e responsabilità.
9. Premessa. Sistema di valutazione dei dirigenti.
Il Capo III dello schema di decreto disciplina il rapporto di ufficio dei dirigenti e dunque le modalità di conferimento degli incarichi e il sistema di responsabilità dirigenziale.
Si è già detto nella parte generale (I, 5.4) della propedeuticità – o almeno della necessaria contestualità – della realizzazione di un compiuto sistema di valutazione, complementare alla riforma della dirigenza.
In questa parte, si espongono, con maggiore dettaglio, le possibili conseguenze derivanti dall’inserimento nell’ambito del nuovo disegno di riforma di norme e prassi amministrative proprie del previgente sistema e non adeguate.
Il decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, prevede: i) un complesso sistema di misurazione e valutazione dellaperformance che obbliga le singole amministrazioni a rispettare il cosiddetto «ciclo di gestione della performance», articolato in diverse fasi previste dall’art. 4 (definizione degli obiettivi e allocazione delle risorse; monitoraggio in corso di esercizio; misurazione e valutazione della performance, organizzativa e individuale; utilizzo dei sistemi premianti, secondo criteri di valorizzazione del merito; rendicontazione dei risultati agli organi di indirizzo politico-amministrativo, ai vertici delle amministrazioni, nonché ai competenti organi esterni, ai cittadini, ai soggetti interessati, agli utenti e ai destinatari dei servizi; ii) una Commissione indipendente con il «compito di indirizzare, coordinare e sovrintendere all'esercizio indipendente delle funzioni di valutazione, di garantire la trasparenza dei sistemi di valutazione, di assicurare la comparabilità e la visibilità degli indici di andamento gestionale» (art. 13); nonché Organismi indipendenti di valutazione di cui ogni amministrazione si deve dotare, con il compito, tra l’altro, di garantire la correttezza dei processi di misurazione e valutazione, nonché di proporre all’organo di indirizzo politico-amministrativo, la valutazione annuale dei dirigenti di vertice (art. 14).
Tale sistema presenta plurime criticità.
Innanzitutto, manca un meccanismo che garantisca che gli organi di indirizzo politico predetermino in modo idoneo e tempestivo gli obiettivi che i dirigenti devono poi concretamente attuare nel rispetto dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento.
Perché la valutazione dell’attività dirigenziale possa correttamente svolgersi occorre che i risultati da perseguire, predeterminati al momento del conferimento dell’incarico dirigenziale, siano specifici, misurabili, ragionevolmente realizzabili e collegati a precise scadenze temporali (cfr. art. 5 del d.l. 6 luglio 2012, n. 95).
In secondo luogo, sono previsti strumenti di valutazione tra di loro non omogenei, con il rischio che laperformance di un dirigente, per la medesima attività, venga valutata in modo differente dalle singole amministrazioni che attribuiscono le funzioni dirigenziali. Si tratta di un elemento di forte distonia in un sistema basato sul ruolo unico e sulla conseguente partecipazione alle procedure di selezione di dirigenti provenienti da differenti strutture organizzative.
In terzo luogo, è necessaria la compiuta definizione dell’oggetto di valutazione che non può essere il mero rispetto delle norme ma la capacità manageriale di realizzare gli obiettivi tenendo separata la dimensione individuale della condotta del dirigente dalla dimensione organizzativa. Si muove in questa giusta direzione la legge delega, la quale, per l’intero personale pubblico, prevede lo «sviluppo di sistemi distinti per la misurazione dei risultati raggiunti dall'organizzazione e dei risultati raggiunti dai singoli dipendenti» (art. 17, comma 1, lettera r, cit.).
Infine, è necessario costruire un sistema di maggiore efficienza ed autonomia dei soggetti valutatori che sovraintendono alla stessa correttezza dei processi di valutazione e che dovranno, necessariamente, coordinarsi con l’attività delle Commissioni per la dirigenza (II, 9).
La previsione di tale sistema può non essere ancora sufficiente, in quanto poi la sua concreta attuazione richiede tempo e una necessaria fase sperimentale di verifica dei meccanismi introdotti (I, 5.5). Tale fase sperimentale costituisce una condizione essenziale per il funzionamento del meccanismo e quindi per la legittimità della riforma.
In definitiva, come si dirà meglio oltre, la previsione di un efficace sistema di valutazione rappresenta una condizione indefettibile per la riforma (I, 5.2.) e potrebbe consentire la previsione, a monte, di un meccanismo di conferimento degli incarichi connotato da maggiore obiettività e, a valle, modalità di accertamento della responsabilità dirigenziale fondata sull’effettivo mancato raggiungimento degli obiettivi al fine di evitare forme “mascherate” di spoils system e non giustificate protrazioni degli incarichi dirigenziali.


10. Commissioni per la dirigenza pubblica (art. 19).
10.1. L’art. 19, introdotto dall’art. 4 dello schema di decreto, disciplina le «Commissioni per la dirigenza pubblica», prevedendo tre Commissioni diverse per la dirigenza statale, regionale e locale.
In particolare, il comma 1 dispone che: «E’ istituita la Commissione per la dirigenza statale. La Commissione opera, in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione, presso il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie a legislazione vigente».
Il comma 2 prevede che la predetta Commissione svolge le seguenti rilevanti funzioni:
a) nomina delle commissioni per l’esame di conferma dei vincitori del concorso;
b) definisce, sentito il Dipartimento della funzione pubblica, i criteri generali, ispirati ai principi di pubblicità, trasparenza e merito, per il conferimento degli incarichi dirigenziali e ne verifica il rispetto;
c) accerta l’effettiva adozione e il concreto utilizzo dei sistemi di valutazione al fine del conferimento e della revoca degli incarichi;
d) procede alla preselezione dei candidati al fine del conferimento degli incarichi dirigenziali generali;
e) effettua la valutazione di congruità successiva delle scelte effettuate dalle amministrazioni per gli altri incarichi;
f) esprime parere sui provvedimenti conseguenti all’accertamento della responsabilità dirigenziale;
g) fornisce un parere obbligatorio e non vincolante sulla decadenza dagli incarichi in caso di riorganizzazione dell’amministrazione, da rendere entro trenta giorni dalla richiesta, decorsi i quali il parere si intende favorevole.
Il Consiglio di Stato rileva quanto segue.
Nel complessivo disegno riformatore la Commissione per la dirigenza assume un ruolo di primaria rilevanza per il funzionamento dei meccanismi che presiedono alla nuova disciplina della dirigenza pubblica.
Sul piano strutturale, si tratta di un soggetto che, per quanto incardinato presso il Dipartimento della funzione pubblica, ha una sua autonomia collocandosi, in funzione di garanzia, in una posizione intermedia di collegamento tra il livello di governo politico e quello di amministrazione gestionale.
Sul piano funzionale, svolge compiti di estrema importanza in tutte le fasi nevralgiche di disciplina del rapporto di ufficio che vanno dalla scelta del dirigente, al sistema di valutazione, fino al momento della cessazione dell’incarico. Ciò allo scopo di assicurare che la relazione tra politica e amministrazione si muova nella logica della differenziazione di funzioni coordinate e non in quella della commistione di compiti politici e gestionali. Queste funzioni sono indefettibili in un sistema, basato sul ruolo unico, che, ampliando la platea dei possibili destinatari di incarichi dirigenziali, potrebbe consentire l’innesto di meccanismi di interferenza politica non virtuosi nel procedimento di conferimento degli incarichi dirigenziali.
Nello specifico, in relazione ai singoli compiti attribuiti, quello di cui alla lettera g) – che contempla una sorta di silenzio-assenso in relazione ai pareri obbligatori e non vincolanti aventi ad oggetto forme di decadenza dall’incarico per ragioni organizzative – presenta profili di criticità.
La decisione in ordine alla decadenza dagli incarichi per ragioni organizzative potrebbe prestarsi ad usi strumentali da parte dell’amministrazione. Ed è per questo che essa dovrebbe essere circondata da maggiori garanzie. Nella formulazione proposta il dirigente sarebbe costretto a contestare, senza conoscerne le ragioni, l’assenso da parte della Commissione alla misura adottata dalla singola amministrazione.
Per tali ragioni il parere della Commissione dovrebbe avere natura vincolante. In ogni caso, l’esito naturale del decorso del termine dovrebbe essere rappresentato dalla possibilità di prescindere dal parere con un obbligo di motivazione rafforzato e non invece la sua trasformazione in atto tacito di assenso.
10.2 Il comma 3 dispone che la Commissione per la dirigenza statale è composta da sette membri, di cui sono componenti permanenti: «il Presidente dell’Autorità nazionale anti-corruzione, il Ragioniere generale dello Stato, il Segretario generale del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e il Capo Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero dell’interno, il Presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane, nonché due componenti scelti tra persone di notoria indipendenza, con particolare qualificazione professionale ed esperienza in materia di organizzazione amministrativa».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
In primo luogo, la disposizione in esame non sembra conforme ai criteri direttivi della delega, la quale prevede che i componenti delle Commissioni sono «selezionati con modalità tali da assicurarne l’indipendenza, la terzietà, l’onorabilità e l’assenza di conflitti di interessi, con procedure trasparenti e con scadenze differenziate, sulla base di requisiti di merito e incompatibilità con cariche politiche e sindacali» (art. 11, comma 1, lett. b1). L’espressione «selezionati con modalità» demanda ad un procedimento amministrativo che deve essere strutturato in modo da garantire la scelta di soggetti in possesso dei requisiti sopra indicati. Lo schema di decreto ha provveduto, invece, in contrasto con la legge delega, ad una diretta indicazione normativa dei componenti stabili della Commissione. Anche in relazione ai rimanenti due componenti la norma in esame si limita a disporre che essi vengono «scelti» tra persone dotate di particolari qualità ma non si indica il soggetto competente ad effettuare la scelta e le modalità procedimentali da seguire.
In secondo luogo, l’individuazione legislativa non appare, in alcuni casi, conforme ai criteri che devono sottostare alla “selezione” dei singoli membri. Nella disposizione in esame sono, infatti, individuati soggetti, quali il Segretario generale e il Capo dipartimento di un Ministero, che, oltre ad essere soggetti provenienti da carriere esterne all’ambito di applicazione della riforma, si trovano in una posizione di non piena indipendenza dall’organo politico. Tali uffici, infatti, si collocano nella struttura organizzativa delle pubbliche amministrazioni in una peculiare posizione di maggiore vicinanza al livello politico rispetto a quello gestionale. Il rischio di commistione è ancora più accentuato in quanto, come si dirà oltre, la nomina dei dirigenti di vertice è sottratta all’obbligo della previa procedura di selezione comparativa con avviso pubblico (sul punto si vedano i rilievi subII, 11.1). Se, pertanto, la finalità dell’istituzione di una Commissione è quella di creare un anello di congiunzione indipendente tra apparti politici e dirigenziali l’indicazione dei componenti in esame non si pone in una linea di coerenza con il fine perseguito. Sotto altro aspetto, perplessità possono sollevarsi anche in ordine alla scelta di indicare, come componente di diritto, in ragione della dubbia competenza specifica in questo ambito, il Presidente della Conferenza dei rettori delle Università italiane.
Infine, si pone una rilevante questione di fattibilità concreta del modello di Commissione previsto. Lo schema di decreto ha, infatti, assegnato la pluralità delle funzioni, sopra indicate, a soggetti che sono già impegnati a tempo pieno nell’espletamento di altri compiti, connessi alle loro cariche, di assoluto rilievo. E’ alquanto difficile ipotizzare che, in tale situazione, essi riescano ad assicurare l’espletamento, nelle modalità e tempi previsti, delle ulteriori e nuove funzioni che comprendono non solo la definizione di regole di condotta nella fase di conferimento degli incarichi ma anche lo svolgimento di concreta attività amministrativa che coinvolge la posizione di singoli dirigenti. Il funzionamento dei lavori della Commissione impone pertanto, fermo quanto sopra esposto su un piano generale, da un lato, che i componenti di essa siano dedicati in via esclusiva all’esercizio di queste funzioni, dall’altro, che essi vengano affiancati da soggetti dotati di elevata competenza ed indipendenza, estranei alla compagine di governo, in grado di supportarli nel concreto svolgimento delle funzioni in esame. Si potrebbe anche prevedere un’eventuale articolazione della Commissione in Sottocommissioni, che potrebbero essere anche dislocate a livello regionale e distinte sulla base del criterio di competenza.
10.3. I commi 8 e 9 disciplinano, rispettivamente, la Commissione per la dirigenza regionale e la Commissione per la dirigenza locale, disponendo che esse sono istituite con l’intesa con la Conferenza unificata. La norma prevede che sono componenti di diritto permanenti quelli già indicati per la Commissione per la dirigenza statale, demandando all’intesa in sede di Conferenza l’individuazione degli altri due componenti.
La Commissione speciale rileva come questa previsione, oltre ad esporsi a tutti i rilievi già formulati, si ponga in contrasto con le norme costituzionali che definiscono le regole di riparto delle funzioni legislative (v. I, 2.3). L’imposizione alle Regioni e agli Enti locali di una Commissione composta da cinque componenti individuati dal legislatore statale nell’ambito di figure di rilievo nazionale viola, infatti, la competenza legislativa regionale in materia di organizzazione. Lo Stato può, con legge, ritenere che esigenze unitarie impongano la disciplina uniforme a livello nazionale delle Commissioni per la dirigenza ma, in ossequio alle procedure di concertazione con i livelli di governo coinvolti, deve prevedere che le funzioni amministrative di scelta di tutti i Commissari vengano esercitate previa intesa con il sistema delle Conferenze.
10.4. Il Consiglio di Stato è consapevole che le modifiche proposte alle regole di funzionamento della Commissione presuppongono interventi non compatibili con la prevista regola della invarianza di spesa. Ma è altrettanto consapevole che, senza il complessivo ripensamento di un meccanismo così fondamentale nell’impostazione complessiva della riforma e senza la previsione di modalità di reperimento delle necessarie risorse finanziarie, è difficile dare vita ad una struttura organizzativa in grado di funzionare.
E’ necessario, pertanto, quale condizione indefettibile per la riforma (I, 5.2), che venga predisposto un diverso sistema di selezione procedimentale dei componenti, con indicazione puntuale delle modalità che devono essere seguite per assicurare il concreto e continuo funzionamento della Commissione in ossequio ai principi di imparzialità, efficienza ed efficacia.
L’ eventuale mancata eliminazione di queste deficienze strutturali potrebbe compromettere l’esercizio funzionale dei compiti assegnati alle Commissioni e, a catena, in ragione della loro essenzialità nel nuovo sistema, la stessa complessiva attuazione della riforma.


11. Incarichi dirigenziali (art. 19-bis).
L’art. 19-bis, introdotto dall’art. 4 dello schema decreto, detta norme relative: i) all’articolazione degli uffici dirigenziali, all’oggetto degli incarichi, con prescrizione di applicare il principio di rotazione negli uffici che presentano più elevato rischio di corruzione (commi 1-3); ii) alle modalità di conferimento di incarichi esterni (commi 4-5-10); iii) al contenuto del contratto individuale che accede al provvedimento di nomina.
11.1. Il comma 4 dispone che: «Gli incarichi dirigenziali non assegnati attraverso i concorsi o le procedure di cui all’art. 19-terpossono essere conferiti a soggetti non appartenenti ai suddetti Ruoli, mediante procedure selettive e comparative ed entro il limite, rispettivamente, del dieci per cento del numero degli incarichi generali conferibili e dell’otto per cento del numero degli incarichi dirigenziali non generali conferibili».
Nella disciplina vigente il comma 6 dell’art. 19 dispone che gli incarichi possono essere conferiti da ciascuna amministrazione, entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli e dell’8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia, a tempo determinato, fornendone esplicita motivazione, «a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale non rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione». La disposizione è chiara nell’assegnare una valenza residuale agli incarichi esterni che sono attribuibili soltanto in mancanza di dirigenti interni in grado di assolvere quei compiti e comunque sempre nel rispetto del limite percentuale predeterminato.
La norma in esame utilizza l’espressione «incarichi dirigenziali non assegnati», ripresa dalla legge delega (art. 11, comma 1, lettera g), di non agevole decifrazione.
Nella Relazione illustrativa allo schema di decreto si fornisce la seguente esplicitazione del concetto: «avendo la delega confermato la volontà di avvalersi di aliquote di dirigenti assunti all’esterno della pubblica amministrazione, viene meno la necessità di esperire una previa ricognizione tra i dirigenti iscritti al ruolo unico (in possesso delle competenze richieste per l’incarico) in quanto sarebbe difficoltoso effettuare la predetta ricognizione sull’ampio numero di dirigenti iscritti al ruolo stesso». In questa prospettiva, si dovrebbe esonerare l’amministrazione dalla previa individuazione di soggetti interni alla categoria dei dirigenti in grado di espletare quelle determinate funzioni, con conseguente previsione di una sorta di “riserva di posti” a favore degli esterni dirigenti.
Questa interpretazione non è condivisibile, perché: i) si risolve in una sostanziale abrogazione dell’inciso in esame, che non avrebbe così alcun significato, rimanendo fermo soltanto il limite percentuale al conferimento dei predetti incarichi; ii) è necessario valorizzare il principio di imparzialità e quello, ad esso connesso, del concorso pubblico per l’acquisizione della qualifica dirigenziale, che dovrebbe comportare l’assegnazione di una valenza residuale e marginale agli incarichi esterni, che si possono prestare ad un «uso strumentale e clientelare» (cfr. Corte cost. n. 252 del 2009); iii) potrebbe risultare non conforme ai principi di ragionevolezza prevedere una aprioristica riserva di posti non giustificata dall’effettiva mancanza di professionalità interne.
Né varrebbe rilevare che la ricerca interna di dirigenti dotati delle competenze necessarie allo svolgimento di quella determinata funzione amministrativa sarebbe «difficoltosa» per «l’ampio numero di dirigenti iscritti al ruolo stesso». Si tratta, infatti, di un possibile “inconveniente di fatto” privo, in quanto tale, di rilevanza giuridica e comunque non del tutto rispondente al reale svolgimento del procedimento che, comprendendo la fase dell’interpello, limita l’analisi dei profili professionali a quelli rappresentati dai partecipanti all’interpello medesimo.
Il Consiglio di Stato ritiene, pertanto, che il conferimento degli incarichi esterni deve necessariamente essere preceduto dalla verifica, almeno nell’ambito delle domande pervenute, dell’assenza, per profili e competenze, di adeguate professionalità interne alla dirigenza della Repubblica.
La disposizione in esame potrebbe, pertanto, essere così riformulata:
«Gli incarichi dirigenziali possono essere conferiti a soggetti non appartenenti ai suddetti Ruoli, mediante procedure selettive e comparative ed entro il limite, rispettivamente, del dieci per cento del numero degli incarichi generali conferibili e dell’otto per cento del numero degli incarichi dirigenziali non generali conferibili. I predetti incarichi possono essere conferiti soltanto se, con adeguata motivazione, si dimostra che i profili e le competenze richieste non sono rinvenibili nei ruoli della dirigenza pubblica all’esito dell’esame delle domande di partecipazione alle procedure di scelta del dirigente».
11.1.1. Il comma 4 prevede, inoltre, che gli incarichi esterni sono conferiti «mediante procedure selettive e comparative». Al fine di evitare possibili dubbi in sede applicativa in ordine alla effettiva conformazione del procedimento di conferimento delle funzioni è preferibile impiegare la formula normativa utilizzata per tutti gli incarichi, sostituendo quella in esame come «procedure comparative con avviso pubblico».
11.1.2. Il comma 4, ultimo inciso, dispone, inoltre, «la durata di tali incarichi non può eccedere, per gli incarichi dirigenziali generali, il termine di tre anni e, per gli altri incarichi dirigenziali, il termine di quattro anni». Questa previsione riprende quella vigente contenuta nel comma 6 dell’art. 19.
La Commissione speciale rileva come essa potrebbe porre una questione di compatibilità con la legge delega, che prevede che la durata degli incarichi è di quattro anni, senza consentire differenziazioni connesse alla tipologia di incarico (art. 11, comma 1, lettera h).
11.2. Il comma 5 prevede che per i soli incarichi da conferire ai dirigenti appartenenti alle sezioni speciali «in caso di urgenza e di indisponibilità nelle suddette sezioni di dirigenti aventi i requisiti richiesti, le amministrazioni possono, con provvedimento motivato, conferire incarichi di durata non superiore a un anno ai soggetti di cui al comma 4 in deroga alle percentuali di cui al comma 3».
Il Consiglio di Stato mette in rilievo come tale previsione potrebbe non risultare compatibile con la legge delega che omette di fornire indicazioni su tale aspetto: in caso di interventi correttivi sulla legge delega, questo potrebbe essere un profilo da considerare. Si segnala, inoltre, che le percentuali sono definite nel comma 4 e non 3.
11.3. Il comma 7 dispone che: «il conferimento dell’incarico, a dirigente in servizio presso altra amministrazione, comporta, altresì, la cessione del contratto costitutivo del rapporto di lavoro a tempo indeterminato all’amministrazione che lo conferisce, ferma restando l’appartenenza al Ruolo».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
Le nuove forme di mobilità orizzontale determinano la necessità di stabilire quale sia, da un lato, la sorte del contratto di servizio stipulato con l’amministrazione che lo ha assunto a seguito del conferimento di un incarico da parte di un’amministrazione diversa, dall’altro, la collocazione del dirigente nell’organizzazione pubblica conseguente a detto conferimento.
La norma in esame è chiara nel prevedere la regola della «cessione del contratto costitutivo del rapporto di lavoro». Non si tratta di una forma di cessione legale che prescinde dal consenso della parte ceduta. La manifestazione della volontà negoziale delle parti pubbliche e private, conformemente al modello generale prefigurato dall’art. 1406 cod. civ., si realizza, infatti, in modo tacito nel momento dell’indizione della procedura e della presentazione della domanda all’interpello.
La norma non è altrettanto chiara nella parte in cui prevede che rimane ferma «l’appartenenza al Ruolo».
Pur impiegando una espressione generica, il legislatore, con molta probabilità, ha inteso affermare il principio che rimane ferma l’appartenenza ai “ruoli di origine” che possono essere statali, regionali o locali. La ragione è quella di evitare continue modifiche dell’assetto organizzativo e, pertanto, si è costruito un modello di funzionamento della mobilità sulla falsariga dei collocamenti “fuori” ruolo per i dirigenti che assumono un incarico da parte di una amministrazione appartenete ad un livello di governo diverso. In questa prospettiva, sarebbe preferibile aggiungere dopo la parola ruolo quella «di provenienza».
Il Consiglio di Stato non può, però, esimersi dal rilevare come tale sistema potrebbe comportare incongruenze applicative.
La distinzione nei tre ruoli, statale, regionale e locali, inseriti nel «ruolo unico della Dirigenza della Repubblica», rileva ai fini dell’applicazione di regole normative peculiari a tutela del sistema delle autonomie territoriali. Nella fase di conferimento degli incarichi, la provenienza del dirigente da uno dei tre ruoli sopra indicati incide sulla composizione delle Commissioni di cui all’art. 19. Per almeno alcune funzioni della Commissione sarebbe opportuno che vi sia una congruenza tra natura effettiva dei compiti espletati e composizione della Commissione. Ad esempio, la citata lettera f) dell’art. 19 prevede che detta Commissione esprime pareri in ordine ai provvedimenti conseguenti all’accertamento della responsabilità dirigenziale. Non appare conforme ad un modello di giudizio ispirato da criteri di buona amministrazione affidare a componenti, espressione delle autonomie regionali e locali, funzioni consultive aventi ad oggetto attribuzioni che il dirigente ha posto in essere per le amministrazioni statali. In questa ottica, si suggerisce al Governo, se non intende eliminare l’inciso disponendo una completa “mobilità”, di chiarire che, a determinati fini, viene in rilievo, per il dirigente, non il momento genetico dell’assunzione della qualifica ma quello funzionale dello svolgimento dei compiti.
11.4. Il comma 8 dispone che: «le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle amministrazioni locali» (si v. anche successivo punto).
Il comma 9 prevede che: «per le amministrazioni regionali, le leggi regionali disciplinano gli incarichi dirigenziali nel rispetto dei principi desumibili dal presente articolo».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
Innanzitutto, la dizione normativa sembra individuare negli «incarichi dirigenziali» una materia di competenza concorrente, con la conseguente vincolatività per le Regioni delle disposizioni di principio poste con il decreto. Invero, come sottolineato, la disciplina degli incarichi si colloca nell’ambito materiale di competenza statale, per i profili afferenti all’ordinamento civile e all’organizzazione statale, e di competenza regionale, per i profili afferenti all’organizzazione regionale (I, 2.3).
In secondo luogo, e conseguentemente, il riconoscimento dello spazio che la norma in esame attribuisce alla potestà legislativa regionale non appare conforme alle disposizioni costituzionali che regolano il riparto delle funzioni legislative.
In particolare, rientra nella materia dell’ordinamento civile sia la disciplina delle modalità di conferimento degli incarichi esterni (commi 4-5-10) sia la definizione del contenuto del contratto di servizio integrativo e quelle di regolazione della cessione del contratto di servizio principale (commi 6 e 7).
Per quanto attiene alle rimanenti disposizioni in materia di organizzazione degli uffici dirigenziali, si potrebbe ritenere che esse possano essere dettate in attuazione del principio della prevalenza della competenza statale (I, 2.3). In alternativa, si dovrebbe prevedere che tali disposizioni operano per gli incarichi dirigenziali nell’ambito delle amministrazioni statali mentre per gli incarichi dirigenziali nell’ambito delle amministrazioni regionali e locali si dovrebbe disporre che i relativi atti di organizzazione sono definiti, per assicurare uniformità di trattamento, in sede di Conferenza unificata.
11.4.1. Il comma 8, dopo avere previsto che alle amministrazioni locali si applica l’articolo in questione aggiunge che «rimane fermo quanto previsto dall’art. 110 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267».
La Commissione speciale, oltre i rilievi generali contenuti nel precedente punto, fa presente quanto segue.
L’art. 110 del d.lgs. n. 267 del 2000 dispone, in particolare, che: i) il regolamento degli uffici e dei servizi possa disporre che la copertura dei posti di qualifica dirigenziale avvenga con contratti a tempo determinato, «in misura non superiore al 30 per cento dei posti istituiti nella dotazione organica della medesima qualifica» (comma 1); ii) possano conferirsi incarichi dirigenziali con contratti a tempo determinato anche al di fuori della dotazione organica «in misura complessivamente non superiore al 5 per cento del totale della dotazione organica della dirigenza» (comma 2); iii) i contratti di cui ai precedenti commi non possono avere durata superiore al mandato elettivo del Sindaco o del Presidente della provincia in carica (comma 3).
Tale disposizione, nel disciplinare le modalità di conferimento degli incarichi esterni, risulta non solo non pienamente conforme al criterio della legge delega che si è limitata ad autorizzare una eventuale modifica delle percentuali di dirigenti esterni che devono essere definite «in modo sostenibile per le amministrazioni non statali» (letterab), ma anche, e soprattutto, difficilmente compatibile con il nuovo sistema della dirigenza pubblica quale definito dallo stesso schema di decreto.
Ciò in quanto: i) vengono definiti limiti percentuali eccessivamente elevati, riferiti alla dotazione organica del solo ente locale che ha stipulato il contratto e senza la previa verifica della non rinvenibilità nei ruoli di professionalità adeguate; ii) la possibilità di conferire incarichi oltre la dotazione organica risulta contraria al principio della legge delega della tendenziale riduzione del numero dei dirigenti pubblici; iii) la previsione di una durata ancorata a quella del mandato del Sindaco o del Presidente della Provincia contrasta con la regola generale posta dalla legge delega della durata di quattro anni imposta per tutte le funzioni dirigenziali.
In definitiva, lo schema di decreto, pur prevedendo l’operatività della regola del ruolo unico anche per dirigenti locali, lascia ferma una norma che si inserisce in un contesto regolatorio completamente diverso fondato sui ruoli delle singole amministrazioni.
Il Consiglio di Stato propone, pertanto, di eliminare l’inciso in esame, il che implica la modifica del d.lgs. n. 267 del 2000 nelle parti non compatibili con la nuova disciplina.


12. Procedura per il conferimento degli incarichi (art. 19-ter).
L’art. 19-ter, introdotto dall’art. 4 dello schema di decreto, disciplina l’intera procedura per il conferimento degli incarichi dirigenziali. La principale novità è rappresentata dalla circostanza che «gli incarichi dirigenziali sono sempre conferiti mediante procedura comparativa con avviso pubblico» (primo comma).
Nella disciplina vigente sono previsti criteri e non anche procedure di selezione del dirigente.
La decisione del legislatore della riforma di assoggettare la scelta del dirigente al rispetto di una procedura amministrativa comparativa con avviso pubblico è coerente con la nuova fisionomia del regime della dirigenza. Infatti, la più ampia discrezionalità dell’amministrazione conseguente all’ampliamento della platea dei dirigenti che possono concorrere a quel determinato incarico deve essere compensata non solo dalla intermediazione della Commissione (II, 10) ma anche da un maggiore rigore nella articolazione della procedura di scelta del dirigente.
12.1. Il primo comma, secondo inciso, dispone che per le amministrazioni statali la procedura comparativa non trova applicazione per «gli incarichi di segretario generale dei ministri e dei ministeri, quelli di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali, quelli di livello equivalente, e quelli conferiti presso gli uffici di diretta collaborazione di cui all’articolo 14 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165».
Il Consiglio di Stato formula i seguenti rilievi.
La Corte costituzionale ha sempre ritenuto conforme al modello costituzionale la possibilità di configurare in termini fiduciari i rapporti con la dirigenza apicale, evidenziando, finanche, come tale «coesione» potrebbe avere effetti positivi anche ai fini del buon andamento dell’attività amministrativa (cfr. Corte cost. n. 233 del 2006, cit.; I, 2.2). Ne dovrebbe conseguire che tale tipologia di uffici, per la loro collocazione in una posizione di maggiore prossimità all’apparato politico, non implica la necessità di assicurare una netta differenziazione di funzioni.
Le affermazioni del giudice delle leggi sono state ancora più accentuate con riferimento agli uffici di diretta collaborazione del Ministero, in relazione ai quali si è affermato che essi «svolgano un’attività strumentale rispetto a quella esercitata dal Ministro, collocandosi, conseguentemente, in un contesto diverso da quello proprio degli organi burocratici». Detti uffici, infatti, «sono collocati in un ambito organizzativo riservato all’attività politica con compiti di supporto delle stesse funzioni di governo e di raccordo tra queste e quelle amministrative di competenza dei dirigenti». In questa prospettiva, non assume rilievo la distinzione funzionale tra le attribuzioni del Ministero e quelle degli uffici in esame, «dovendo, al contrario, sussistere tra loro una intima compenetrazione e coesione che giustifichi un rapporto strettamente fiduciario finalizzato alla compiuta definizione dell’indirizzo politico-amministrativo» (Corte cost. n. 304 del 2010).
La disposizione in esame risulta, pertanto, conforme agli orientamenti della giurisprudenza costituzionale.
Nondimeno, deve segnalarsi come l’esclusione dal campo applicativo delle procedure selettive per gli incarichi apicali potrebbe porsi in contrasto con la legge delega.
L’art. 11, lettera g), della predetta legge sembra, infatti, imporre l’obbligo della procedura comparativa per il conferimento di qualsiasi incarico compresi quelli di vertice, cui si fa espresso riferimento nella parte in cui si attribuisce alle Commissioni della dirigenza il compito di «preselezione di un numero predeterminato di candidati in possesso dei requisiti richiesti, sulla base dei suddetti requisiti e criteri, per gli incarichi relativi ad uffici di vertice e per gli incarichi corrispondenti ad uffici di livello dirigenziale generale, da parte delle Commissioni di cui alla lettera b), e successiva scelta da parte del soggetto nominante».
Tale previsione non sembra, pertanto, consentire l’esclusione operata dalla norma dello schema di decreto in esame. Si potrebbe soltanto interpretare l’espressione «uffici di vertice» come ricomprendente solo gli incarichi di segretario generale o di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e non anche gli uffici di diretta collaborazione, quale ad esempio, quello di Capo Ufficio del Gabinetto o di Capo Ufficio Legislativo di un Ministro, che presentano una più accentuata relazione di fiduciarietà. Per i primi sarebbe, pertanto, necessario, se si volesse mantenere la previsione in esame coerentemente con l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, modificare la stessa legge delega.
12.2. Il comma 3 prevede che l’amministrazione interessata, al fine del conferimento di ciascuno incarico, «procede alla definizione dei criteri di scelta, nell’ambito dei criteri generali definiti dalle Commissioni» della dirigenza.
I criteri generali della Commissione, riportati nell’art. 19, sono quelli «ispirati a principi di pubblicità, trasparenza e merito». Nell’ambito di questi la norma in esame dispone che «i criteri definiti dalle Commissioni contemplano, in relazione alla natura, ai compiti e alla complessità della struttura interessata, la valutazione delle attitudini e delle capacità professionali del dirigente, nonché dei risultati conseguiti nei precedenti incarichi e delle relative valutazioni, delle specifiche competenze organizzative possedute, dell’essere risultato vincitore di concorsi pubblici, delle esperienza di direzione eventualmente maturate all’estero (…) purché attinenti al conferimento dell’incarico».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
La tematica dei criteri di conferimento riveste anch’essa importanza cruciale nella ricostruzione dei delicati rapporti tra politica e amministrazione e costituisce una delle condizioni indefettibili per la riforma (I, 5.2). La previsione di criteri oggettivi e stringenti assicura la scelta di dirigenti dotati delle necessarie doti di imparzialità e competenza.
Nella disposizione in esame, si indicano i criteri generali che devono essere seguiti dalla Commissione, i quali riprendono, sostanzialmente, già quelli previsti dal vigente primo comma dell’art. 19.
In generale, la principale criticità attiene a quanto già esposto in ordine all’assenza di un sistema efficace di valutazione dei dirigenti (II, 9). Per quanto la norma in esame contempli, tra i criteri, quello dei «risultati conseguiti nei precedenti incarichi e delle relative valutazioni» è evidente come la mancata riforma di questo aspetto incida negativamente sulla conformazione delle regole afferenti alla fase di conferimento dell’incarico.
Nello specifico, il Consiglio di Stato pone in rilievo la necessità di adeguare questi criteri al nuovo sistema prefigurato nello schema di decreto che, come più volte evidenziato, si regge su un’amplificata mobilità orizzontale e verticale dei dirigenti. Fermo restando quanto già rilevato con riferimento alle «sezioni speciali» (II,3.2.) nell’ambito del Ruolo unico, sarebbe opportuno inserire tra i criteri selettivi anche il possesso di specifiche competenze ed esperienze acquisite nell’esercizio delle precedenti funzioni dirigenziali con valutazioni positive.
Nella norma in esame non sono regolate le modalità di definizione dei criteri da parte delle singole amministrazioni, il che rende ancora più rilevante l’importanza di una declinazione puntuale di quelli generali da parte della Commissioni in grado di vincolare la successiva fase attuativa ed evitare possibili forme di esercizio abusivo dei poteri pubblici.
12.3. Il comma 5 prevede che: «per gli incarichi relativi a uffici dirigenziali generali, la relativa Commissione di cui all’art. 19 seleziona (…) i tre candidati più idonei sulla base dei criteri generali stabiliti dalla medesima Commissione». La norma prosegue disponendo che «nell’ambito dei cinque candidati selezionati dalla Commissione è operata la scelta da parte del soggetto competente ai sensi dell’art. 19-quater».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
Questa norma, completando il quadro del sistema delle nuove garanzie nella fase di conferimento degli incarichi, prevede per gli incarichi di livello generale – conferiti direttamente dall’organo politico (I, 3.2. e II, 1.2) e dunque maggiormente esposti a rischi di condizionamento – la intermediazione della Commissione. Essa, con un compito strettamente operativo, effettua una preselezione di candidati da sottoporre all’amministrazione che conferisce l’incarico.
Per questi fini, la norma prevede un numero di cinque candidati (per errore materiale nella prima parte della norma è scritto tre).
Sul punto, il Consiglio di Stato fa presente come la restrizione della lista da cinque a tre candidati potrebbe costituire, nell’ottica di assicurare maggiori garanzie da parte di un soggetto terzo tra parte pubblica e privata, un utile riduzione del potere discrezionale dell’amministrazione che poi concretamente conferisce l’incarico. Nell’ottica della valorizzazione delle competenze acquisite, che costituisce una condizione indefettibile da cui occorre sempre muovere nell’analisi delle nuove disposizioni, si potrebbe anche prevedere che il dirigente che abbia terminato l’incarico con una valutazione positiva deve essere inserito “di diritto” nella rosa dei candidati preselezionata dalla Commissione.
12.4. Il comma 6 prevede che: «per gli incarichi relativi a uffici dirigenziali non generali, la scelta operata ai sensi dell’art. 19-quater è comunicata dall’amministrazione alla Commissione per la dirigenza statale, e l’incarico è conferito decorsi quindici giorni dalla predetta comunicazione, salvo che la Commissione rilevi il mancato rispetto dei requisiti e criteri di cui ai commi 2 e 3».
La Commissione speciale rileva come non sia contemplato il rimedio conseguente al mancato rispetto del periodo di sospensione di quindici giorni previsto dalla norma in esame. Si potrebbe prevedere che se la immediata attribuzione dell’incarico sia avvenuta in sostanziale violazione dei criteri di selezione definiti dalla Commissione, detto incarico deve considerarsi illegittimo e il successivo contratto accessivo invalido o inefficace perché privo di un presupposto necessario.
12.5. Nella norma in esame mancano riferimenti alla dirigenza regionale e locale e ciò dovrebbe implicare la diretta applicazione anche ad esse di tale disposizione.
Il Consiglio di Stato segnala la necessità di prevedere anche in questo ambito forme di coinvolgimento delle autonomie regionali. In particolare, si potrebbe disporre che nella fase di istituzione delle Commissioni per la dirigenza regionale e locale l’oggetto dell’intesa si estenda anche ai profili relativi alla regolamentazione in esame.


13. La competenza (art. 19-quater).
L’art. 19-quater disciplina la «competenza per il conferimento degli incarichi dirigenziali».
La norma in esame individua i soggetti che, in relazione alle tre diverse tipologie di incarichi, sono legittimati ad adottare gli atti di conferimento. Essa riproduce, sostanzialmente il contenuto dei commi 3, 4 e 5 del d.lgs. n. 165 del 2001 (I, 3.1.)
Nello schema di decreto non è disciplinata la competenza per il conferimento degli incarichi dirigenziali da parte di amministrazioni regionali e locali, sull’implicito e corretto presupposto che si tratta di materia di competenza legislativa regionale.


14. Durata degli incarichi dirigenziali (art. 19-quinquies).
L’art. 19-quinquies, introdotto dall’art. 4 dello schema di decreto, disciplina la durata degli incarichi.
La questione della durata degli incarichi costituisce, anch’essa, un momento di particolare rilevanza nella costruzione di un complessivo sistema che, in modo equilibrato, soddisfi tutte le esigenze sottese ai principi costituzionali che regolano la dirigenza pubblica. In questa ottica, l’incarico, pur essendo temporaneo, da un lato, deve consentire l’espletamento, in attuazione del principio di continuità e di valorizzazione delle competenze, delle funzioni per un tempo adeguato ad assicurare il perseguimento degli obiettivi programmati dagli organi politici, dall’altro lato, deve essere strutturato in modo da evitare che l’esigenza di ottenere un rinnovo delle funzioni possa condizionare l’esercizio imparziale di esse.
14.1. Il comma 2 dispone che: «nel caso in cui il dirigente abbia avuto valutazioni positive nel corso dell’incarico, l’amministrazione ha facoltà, una sola volta e con decisione motivata, di rinnovare l’incarico per ulteriori due anni».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
La tematica del rinnovo degli incarichi deve essere inserita nel complessivo quadro della riforma che ha radicalmente modificato il regime generale della durata degli incarichi.
Nel sistema vigente, gli incarichi sono rinnovabili da parte della stessa amministrazione nel cui ruolo è iscritto il dirigente. L’art. 9, comma 32, del d.l. n. 78 del 2010 ha previsto che qualora le amministrazioni, «anche in dipendenza dei processi di riorganizzazione, non intendono, anche in assenza di una valutazione negativa, confermare l’incarico conferito al dirigente, conferiscono al medesimo dirigente altro incarico, anche di valore economico inferiore». Parte della dottrina ha espresso critiche, alla luce sempre del principio di distinzione tra politica e amministrazione, in ordine alla portata di detta disposizione che consente il non rinnovo anche in assenza di una valutazione negativa.
Nel sistema prefigurato dallo schema di decreto, gli incarichi sono rinnovabili (rectius: prorogabili) una sola volta per una durata dimezzata rispetto a quella del primo incarico. La scelta è coerente con un’impostazione complessiva della riforma fondata su una maggiore mobilità dei dirigenti conseguente alla previsione del ruolo unico nonché di regole più rigide di conferimento degli incarichi. Si vuole, infatti, evitare che il rinnovo da parte della stessa amministrazione degli incarichi al medesimo dirigente possa incidere sulle suddette mobilità dirigenziali con una sostanziale vanificazione delle nuove procedure selettive.
Indicato il contesto di riferimento, la disposizione presenta i seguenti profili di criticità.
In primo luogo, sul piano sistematico, il legislatore della riforma manifesta un chiaro disfavore per il rinnovo dell’incarico, senza, però, considerare che sarebbe proporzionato rispetto all’obiettivo perseguito già la sola previsione, quale regola generale e in assenza di valutazione negativa, di un rinnovo “dimezzato” per una sola volta. Questa sarebbe la regola che, realizzando un equilibrato bilanciamento degli interessi, maggiormente risponde al modello costituzionale composito. La rigidità della legge delega non consente questa soluzione, salvo una modifica della stessa.
In secondo luogo, la norma in esame, prescrivendo accanto al limite oggettivo dei due anni, la necessità che vi sia una «valutazione positiva» e l’obbligo di motivare la decisione di rinnovo, non appresta adeguate garanzie al dirigente nel caso in cui l’amministrazione decida di non procedere al rinnovo dell’incarico.
Il Consiglio di Stato ritiene necessario che il precetto normativo venga completato mediante la previsione dell’obbligo di motivazione da parte dell’amministrazione anche nel caso in cui essa decida di non rinnovare l’incarico.
Tale obbligo assume una valenza non formale-procedimentale ma sostanziale, rappresentando «il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo» (Corte cost. n. 92 del 2015).
Si deve, pertanto, iniziare, su istanza del dirigente interessato, un apposito procedimento nell’ambito del quale sia consentito al dirigente di esporre il proprio punto di vista in ordine all’attività svolta nel corso dei quattro anni e all’amministrazione di tenere conto delle osservazioni formulate nell’atto finale adeguatamente motivato (cfr. Corte cost. n. 103 del 2007).
Nè varrebbe rilevare che tale ulteriore prescrizione non sarebbe consentita dalla legge delega, la quale contiene una disposizione sostanzialmente analoga a quella riportata nello schema di decreto. Il legislatore delegante ha posto un criterio direttivo che deve guidare la “decisione positiva” dell’amministrazione che conferisce l’incarico ma ciò non esclude, anzi impone, al legislatore delegato di completare questo precetto con la regolazione della “decisione negativa” dell’amministrazione di non conferire l’incarico.
Si potrebbe, pertanto, aggiungere la seguente disposizione:
«Nel caso in cui l’amministrazione decida di non rinnovare l’incarico al dirigente deve adottare, in assenza di valutazioni negative, un provvedimento motivato che, all’esito di un procedimento amministrativo assicuri il rispetto delle regole del contraddittorio, indichi le ragioni della decisione assunta».
La questione appena esposta rappresenta anch’essa una delle condizioni indefettibili per la riforma (I, 5.2).


15. Responsabilità dirigenziale (art. 21).
La legge delega prevede, in relazione alla responsabilità dei dirigenti, il «riordino delle disposizioni legislative relative alle ipotesi di responsabilità dirigenziale, amministrativo-contabile e disciplinare dei dirigenti e ridefinizione del rapporto tra responsabilità dirigenziale e responsabilità amministrativo-contabile, con particolare riferimento alla esclusiva imputabilità ai dirigenti della responsabilità per l'attività gestionale, con limitazione della responsabilità dirigenziale alle ipotesi di cui all'articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165; limitazione della responsabilità disciplinare ai comportamenti effettivamente imputabili ai dirigenti stessi» (art. 8, comma 1, lettera m).
Questa parte della legge delega non è stata attuata.
Il Consiglio di Stato esprime perplessità in ordine a tale scelta che sarebbe stata opportuna in ragione della complessità e non chiarezza, in alcune fattispecie, degli esatti ambiti delle responsabilità del dirigente.
Come è noto, nei confronti del dirigente è configurabile, sussistendone i presupposti, la responsabilità civile e penale. A queste forme di responsabilità esterne e generali si affiancano quelle interne che, per tutti i dipendenti pubblici, sono costituite dalla responsabilità contabile e dalla responsabilità disciplinare. Per i soli dirigenti è prevista la responsabilità dirigenziale.
Il vigente art. 21 del d.lgs. n. 165 del 2001 dispone che integra la responsabilità dirigenziale il «mancato raggiungimento degli obiettivi», nonché «l’inosservanza delle direttive imputabili al dirigente», con indicazione delle misure conseguenti adottabili, che lasciano ferma «l'eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo». Il comma 1-bis, introdotto dal d.lgs. n. 150 del 2009, prevede, considerando il dirigente come organizzatore del lavoro altrui, che: «Al di fuori dei casi di cui al comma 1, al dirigente nei confronti del quale sia stata accertata, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio secondo le procedure previste dalla legge e dai contratti collettivi nazionali, la colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall'amministrazione» conformemente agli indirizzi deliberati dalla Civit (oggi Autorità nazionale anticorruzione), «la retribuzione di risultato è decurtata, sentito il Comitato dei garanti, in relazione alla gravità della violazione di una quota fino all'ottanta per cento».
La responsabilità dirigenziale è, pertanto, una forma di responsabilitàaggiuntiva, che si giustifica in ragione dei poteri gestionali attribuiti alla dirigenza. Tale peculiarità avrebbe imposto una previsione generale che ne definisse, in modo chiaro, i connotati identificativi, soprattutto al fine di tracciare le linee di distinzione rispetto alla responsabilità disciplinare ed evitare rischi di sovrapposizione. Queste criticità sono amplificate dalla mancata attuazione del sistema di valutazione dei dirigenti che inevitabilmente refluisce sulla costruzione di misure di responsabilità dirigenziale ancorate a parametri oggettivi.
15.1. L’art. 5 dello schema di decreto aggiunge taluni periodi al comma 1 dell’art. 21 del d.lgs. n. 165 del 2001, disponendo che: «costituiscono mancato raggiungimento degli obiettivi: la valutazione negativa della struttura di appartenenza, riscontrabile anche da rilevazioni esterne; la reiterata omogeneità delle valutazioni del proprio personale, a fronte di valutazione negativa o comunque non positiva della performance organizzativa della struttura, e in particolare il mancato rispetto della percentuale del personale prevista dalla legge, o della diversa percentuale oggetto di negoziazione, cui attribuire indennità premiali, secondo le indicazioni dei contratti collettivi di lavoro; il riscontrato mancato controllo sulle presenze, e sul contributo qualitativo dell’attività lavorativa di ciascun dipendente; la mancata rimozione di fattori causali di illecito; il mancato rispetto delle norme sulla trasparenza, che abbiamo determinato un giudizio negativo dell’utenza sull’operato della pubblica amministrazione e sull’accessibilità ai relativi servizi; il mancato rispetto dei tempi nella programmazione e nella verifica dei risultati imputabile alla dirigenza».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
La puntuale declinazione delle fattispecie che integrano gli estremi del «mancato raggiungimento degli obiettivi» rappresenta, anche nell’ottica generale sopra riportata, una scelta condivisibile.
La questione critica che si pone attiene alla non chiarezza di alcune prescrizioni e alla dubbia riconducibilità di alcune di esse nell’ambito della forma di responsabilità in esame.
La responsabilità per mancato raggiungimento dei risultati dovrebbe essere configurabile soltanto nel caso in cui il dirigente non sia stato in grado di perseguire gli obiettivi definiti dall’organo politico al momento del conferimento dell’incarico.
La declinazione concreta di talune fattispecie, effettuata dalla norma in esame, non risponde a questo modello.
In particolare, le fattispecie riferite alle relazioni con il personale sembrano riconducibili alla violazione dei doveri di vigilanza sul personale disciplinate dal comma 1-bis dell’art. 21. Altre fattispecie sembrano costruite come violazione di obbligazioni “di mezzi” e non di “risultato”, quale il «mancato rispetto delle norme sulla trasparenza che abbiano determinato un giudizio negativo dell’utenza sull’operato della pubblica amministrazione e sull’accessibilità ai relativi servizi», che prescinde dall’oggettivo mancato perseguimento dei risultati. Altre ancora, infine, appaiono eccessivamente generiche, quali la «valutazione negativa della struttura di appartenenza, riscontrabile anche da rilevazioni esterne», nonché «la mancata rimozione di fattori causali illeciti».
Le riportate osservazioni, afferendo alla fase nevralgica di cessazione del rapporto dirigenziale in cui non devono entrare contaminazioni politiche, costituiscono ulteriori condizioni indefettibili per la riforma (I. 5.2.).


16. Regime transitorio (art. 6 dello schema di decreto).
L’art. 6 detta il regime transitorio.
16.1. Il comma 1 dispone che: «Sono iscritti di diritto, ai ruoli della dirigenza, i dirigenti a tempo indeterminato appartenenti ai ruoli delle relative amministrazioni alla data di entrata in vigore del presente decreto. Gli incarichi dirigenziali, in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, sono comunque fatti salvi fino alla loro naturale scadenza, con mantenimento del relativo trattamento economico».
Il comma 2 prevede che: «nelle amministrazioni statali fino a esaurimento della qualifica dirigenziale di prima fascia, gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale sono conferiti, in misura non inferiore al trenta per cento del numero complessivo di posizioni dirigenziali di livello generale previste nell’amministrazione che conferisce l’incarico, ai dirigenti di prima fascia appartenente ai ruoli dell’amministrazione alla data di entrata in vigore del presente decreto».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
La nuova normativa incide inevitabilmente su posizioni consolidate dei dirigenti iscritti nei ruoli. Per evitare un impatto immediato su tali posizioni è stata prevista una disciplina transitoria che riguarda sia la fase del conferimento degli incarichi sia la fase di accesso alla qualifica dirigenziale.
In relazione al primo aspetto, si prevede, con disposizione conforme al principio di affidamento e di ragionevolezza, che rimangono validi gli incarichi dirigenziali in corso. Sarebbe opportuno che si chiarisca che i dirigenti posti in situazione di aspettativa, di comando ovvero che abbiamo ottenuto un incarico da parte di un’amministrazione diversa da quella di appartenenza vengano iscritti ai ruoli della Dirigenza avendo riguardo all’amministrazione di provenienza.
In relazione al secondo aspetto, non poteva disporsi, sino alla cessazione del rapporto di lavoro dirigenziale, il diritto dei dirigenti iscritti nella prima fascia di ottenere solo essi incarichi dirigenziali generali perché avrebbe implicato un rinvio eccessivamente lungo dell’entrata in vigore della legge. Si è pertanto prevista un’immediata entrata in vigore della riforma con riguardo alla eliminazione delle due fasce ma, al contempo, si è inteso tutelare la posizione dei dirigenti iscritti nella prima fascia riservando solo ad essi una quota di posizioni dirigenziali di livello generale.
Nella costruzione di questo regime transitorio sono, però, riscontrabili almeno due criticità.
La prima riguarda la misura dei posti “riservati” che viene stabilita in misura non inferiore al trenta per cento. Il vigente art. 19, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 prevede che gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale sono conferiti ai dirigenti della prima fascia dei ruoli o, «in misura non superiore al 70 per cento della relativa dotazione», agli altri dirigenti appartenenti ai medesimi ruoli ovvero, con contratto a tempo determinato, ai dirigenti “esterni”. Lo schema di decreto ha, pertanto, riproposto la previsione a regime contemplata nel sistema vigente come previsione transitoria nel nuovo sistema. Ma questo innesto rischia, in ragione della diversità degli ambiti in cui la norma si inserisce, di produrre effetti sistematicamente incoerenti. Le singole amministrazioni statali potrebbero, infatti, decidere di riservare anche tutti i posti disponibili ai dirigenti di livello generale impedendo così la partecipazione alle procedure selettive degli altri dirigenti. Se questa possibilità non crea particolari problemi nell’ambito del vigente regime del ruolo separato in cui è consentito anche il rinnovo dell’incarico, nell’ambito del regime prefigurato dalla riforma, potrebbe pregiudicare in modo non ragionevole gli altri dirigenti. Questi, infatti, vengono inseriti nel ruolo unico senza distinzione di fasce, con possibilità di ottenere un solo rinnovo, a cui potrebbe aggiungersi il divieto di partecipare a procedure per il conferimento delle funzioni dirigenziali di livello generale. Il che si risolverebbe in una sostanziale protrazione della distinzione in due fasce pur nel nuovo sistema che le abolisce e che modifica il contesto di riferimento.
In definitiva, è ragionevole, a tutela dell’affidamento, contemplare una riserva di posti ma questa deve essere determinata in misura fissa per evitare gli esposti inconvenienti Si rimette alla valutazione del Governo l’opportunità di stabilire una soglia superiore al trenta per cento che potrebbe essere individuata nel 50 per cento dei posti disponibili.
La seconda criticità riguarda la mancata previsione di un analogo sistema per i dirigenti regionali e locali qualora la disciplina vigente di riferimento distingua anch’essa, come per i dirigenti statali, la prima e seconda fascia nell’ambito dell’accesso alla qualifica. Si potrebbe, pertanto, rinviare la definizione del regime transitorio, che tenga conto delle posizioni consolidate, all’intesa in sede di Conferenza.
16.2. Sarebbe opportuno che nel testo del decreto venga inserito un cronoprogramma (su cui si potrebbe, se del caso, riferire anche alle Camere) delle attività che il Governo ritiene necessarie per assicurare la piena attuazione della riforma. Si tratta di una forma non solo di trasparenza – perché si abbia contezza di tutto ciò che deve essere messo in atto – ma anche di monitoraggio, essenziale per valutare, alla luce del più volte citato principio di effettività, se le regole scritte siano in grado di tradursi in concreti meccanismi operativi.
16.3. Sempre in quest’ottica potrebbe anche essere prevista, ad esempio, in via sperimentale, un’operatività limitata del ruolo unico facendo funzionare, in via transitoria, autonomamente i ruoli statali, regionali e locali.


17. La unitarietà della disciplina degli incarichi dirigenziali.
Alla luce di quanto sin qui esposto è emerso che la disciplina che riguarda le Commissioni per la dirigenza, le procedure di selezione, i criteri di conferimento, la durata degli incarichi, il sistema di valutazione, la cessazione del rapporto dirigenziale deve essere considerata nella sua unitarietà perché rappresenta garanzia di scelte improntate al rispetto del principio di distinzione funzionale tra politica e amministrazione. E’ sufficiente che singole fasi del procedimento – già indebolite dalla mancanza di un efficace sistema di valutazione – non funzionino correttamente perché l’attuazione complessiva della riforma possa venire pregiudicata. Ed è per questo che tali momenti sono stati indicati come pilastri fondamentali per la solida costruzione del nuovo sistema della dirigenza pubblica (I, 5.2).
Occorre, pertanto, che l’intero Capo dello schema di decreto in esame venga rivisto e corretto alla luce dei rilievi svolti, al fine di assicurarne la legittimità, la piena applicabilità ed evitando, in tal modo, il rischio di possibile proliferazione di contenziosi giudiziali.


Capo IV. Mobilità e dirigenti privi di incarico.
18. Dirigenti privi di incarico (art. 23-bis).
L’art. 23-bis, introdotto dall’art. 7 dello schema di decreto, disciplina i «Dirigenti privi di incarico».
18.1. Il comma 1 dispone che: «Alla scadenza di ogni incarico, il dirigente resta iscritto nel relativo Ruolo ed è collocato in disponibilità fino al conferimento di un nuovo incarico dirigenziale. I dirigenti privi di incarico hanno l’obbligo di partecipare, nel corso di ciascun anno, ad almeno cinque procedure comparative di avviso pubblico di cui all’articolo 19-ter, per le quali abbiano i requisiti».
Il Consiglio di Stato rileva come non siano indicate quali sono le conseguenze derivanti, per il dirigente senza incarico, dalla mancata partecipazione a cinque procedure comparative.
18.2. Il comma 2 prevede che: «In caso di mancata attribuzione di un nuovo incarico dirigenziale, fermo restando quanto previsto dagli articoli 33 e 34, decorso un anno dal collocamento in disponibilità nel Ruolo, le amministrazioni statali possono conferire direttamente, ai dirigenti iscritti al Ruolo della dirigenza statale privi di incarico, incarichi dirigenziali per i quali essi abbiano i requisiti, senza espletare la procedura comparativa ad avviso pubblico, laddove ricorrano le condizioni stabilite in via generale dalla relativa Commissione di cui all’articolo 19».
Il comma 4, secondo inciso, dispone che: «decorsi due anni dal collocamento in disponibilità nel Ruolo, il Dipartimento della Funzione pubblica provvede a collocare i dirigenti privi di incarico, ove ne abbiamo i requisiti, presso le amministrazioni dove vi siano posti disponibili. Tali amministrazioni conferiscono a detti dirigenti un incarico dirigenziale, senza espletare la procedura comparativa di avviso pubblico, secondo i criteri stabiliti in via generale dalla relativa Commissione di cui all’art. 19. In caso di rifiuto dell’attribuzione dell’incarico, il dirigente decade dal Ruolo».
Il comma 6 prevede che «le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle amministrazioni regionali e locali».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
In primo luogo, non è chiaro l’inciso «fermo restando quanto previsto dagli articoli 33 e 34». Tali articoli disciplinano, infatti, le «eccedenze di personale e mobilità collettiva» e la «gestione del personale in mobilità» con procedure non chiaramente coordinabili con quelle di cui alla disposizione in esame.
In secondo luogo, manca una disposizione nella legge delega che dia espressa copertura a questa modalità di conferimento dell’incarico e di eventuale cessazione del rapporto di lavoro dirigenziale.
Infine, le tre norme non sono conciliabili forse per un mero difetto di coordinamento: la prima, infatti, sembra riservata alle sole amministrazioni statali, a cui viene riconosciuto un potere di affidamento diretto dell’incarico; la seconda sembra applicarsi alle altre amministrazioni (regionali o locali) con l’intermediazione del Dipartimento della funzione pubblica; la terza dispone l’applicazione delle prime due anche alle amministrazioni regionali e locali.
In questo quadro, il Consiglio di Stato propone di eliminare dal testo la disposizione contenuta nella prima parte del comma 2 e di mantenere, con modifiche, la sola disposizione di cui al comma 4. In particolare, si dovrebbero prevedere maggiori garanzie, soggettive e oggettive, nella fase di conferimento di questi incarichi per evitare facili elusioni al nuovo e più rigoroso sistema di attribuzione delle funzioni dirigenziali.
In tale ottica, si potrebbe disporre che la collocazione avvenga ad opera del Dipartimento della funzione pubblica, previo parere delle Commissioni per la dirigenza, e soltanto in presenza, presso una determinata amministrazione, di posti rimasti disponibili dopo un determinano numero minimo di interpelli non conclusi con la scelta del dirigente.
18.3. Il comma 4, primo inciso, dispone che: «ai dirigenti privi di incarico viene erogato, a carico dell’ultima amministrazione che ha conferito l’incarico, per il primo anno il trattamento economico fondamentale».
La Commissione speciale rileva che la legge delega prevede, invece, che venga disposta «erogazione del trattamento economico fondamentale e della parte fissa del retribuzione» (art. 11, lettera i).
18.4. Il comma 5 prevede che: «i dirigenti in disponibilità, a seguito di revoca di incarico ai sensi dell’articolo 21, decadono dal relativo Ruolo della dirigenza decorso un anno senza che abbiamo ottenuto un nuovo incarico. Il termine è sospeso in caso di aspettativa per assumere incarichi in altre amministrazioni, ovvero in società partecipate, o per svolgere attività lavorativa nel settore privato».
Questa previsione solleva talune criticità.
La norma, in attuazione della legge delega, disciplina la decadenza dal ruolo. Essa realizza una sovrapposizione tra rapporto di servizio e rapporto di ufficio disponendo che una vicenda legata all’espletamento delle funzioni dirigenziali possa comportare una cessazione del rapporto di lavoro. Il binomio responsabilità dirigenziale/mancato incarico per un anno viene sostanzialmente equiparato ex lege ad un vero e proprio licenziamento. Questo Consiglio prende atto del fatto che comunque la norma in esame è conseguenza obbligata di quanto previsto dalla legge delega (art. 11, comma 1, lettera h), la quale prevede la «decadenza dal ruolo unico a seguito di un determinato periodo di collocamento in disponibilità successivo a valutazione negativa».
Il legislatore delegato potrebbe, nondimeno, anche per evitare possibili declaratorie di incostituzionalità della norma, circondare la previsione da un più forte sistema di garanzie.
In primo luogo, pur essendo apprezzabile che il criterio direttivo riferito alla mera «valutazione negativa» sia stato attuato con la previsione della responsabilità dirigenziale, è necessario che essa venga accertata in modo rigoroso, il che implica, come sottolineato, che sussista un efficiente sistema di valutazione dell’attività dirigenziale.
In secondo luogo, potrebbe essere previsto un termine di disponibilità, più ampio, di due anni.
Infine, dovrebbe essere evitata una forma di decadenza ex lege e automatica attraverso la previsione dell’obbligo per l’amministrazione di comunicare all’interessato l’avvio di un apposito procedimento che si deve concludere con l’adozione di un provvedimento finale motivato.
18.5. Il comma 6 prevede che: «le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle amministrazioni regionali e locali».
La Commissione speciale dubita della conformità a Costituzione di questa previsione.
Il Capo IV, nel dettare norme di generale applicazione con riferimento ai dirigenti privi di incarico, incide, per le amministrazioni regionali e locali, in materie che sono, ai sensi dell’art. 117, comma 4, Cost., di competenza legislativa esclusiva delle Regioni (I, 2.3). E’, pertanto, necessario che la fase di attuazione della disciplina, che comprende, ad esempio, l’esercizio delle funzioni amministrative di individuazione dei posti disponibili, si svolga di intesa con il sistema della Conferenza.


Capo V. Trattamento economico.
19.Trattamento economico dei dirigenti (art. 24).
L’art. 24, introdotto dall’art. 8 dello schema di decreto, disciplina il «trattamento economico dei dirigenti».
Il comma 1 dispone che: «la retribuzione del personale con qualifica di dirigente è determinata dai contratti collettivi per le aree dirigenziali, e si compone dei trattamento economico fondamentale e del trattamento economico accessorio correlato alle funzioni attribuite, alle connesse responsabilità e ai risultati conseguiti (…)».
Il comma 2 dispone che: «il trattamento economico accessorio complessivo deve costituire almeno il 50 per cento della retribuzione complessiva del dirigente (…) e la parte di tale trattamento collegata ai risultati deve costituire almeno il 30 per cento della predetta retribuzione complessiva». Si aggiunge che «per i dirigenti titolari di incarichi dirigenziali generali, le predette percentuali devono costituire, rispettivamente, il 60 e il 40 per cento della retribuzione complessiva come sopra determinata».
Le nuove disposizioni confermano che la retribuzione del personale dirigenziale è composta dal trattamento economico fondamentale e dal trattamento economico accessorio rappresentato dalla retribuzione di posizione e di risultato.
La Commissione speciale formula i seguenti rilievi.
Il primo riguarda le nuove percentuali di definizione del rapporto tra trattamento economico fondamentale e accessorio.
Il vigente art. 24, comma 1-bis, dispone che «il trattamento accessorio collegato ai risultati deve costituire almeno il 30 per cento della retribuzione complessiva del dirigente».
Il successivo comma 1-quater aggiunge che «la parte della retribuzione collegata al raggiungimento dei risultati della prestazione non può essere corrisposta al dirigente responsabile qualora l'amministrazione di appartenenza (…) non abbia predisposto il sistema di valutazione» disciplinato dallo stesso d.lgs. n. 165 del 2001.
Nello schema di decreto si innalza al 50 per cento la complessiva parte accessoria, di cui almeno il 30 per cento deve essere correlata ai risultati. Tali percentuali, per gli incarichi generali, sono ulteriormente innalzate al 60 e 40 per cento.
Il Consiglio di Stato mette in rilievo un possibile dubbio di conformità alla legge delega che, nel contemplare i criteri direttivi, non indica anche di modificare le soglie previgenti.
Al di là di questo aspetto, si rimette al Governo la decisione in ordine alla possibile rimodulazione verso il basso delle previste percentuali connesse al trattamento accessorio. Il secondo rilievo attiene alla necessaria definizione degli obiettivi da parte dell’organo politico nel rispetto dei criteri già indicati al fine di potere ancorare effettivamente al loro raggiungimento la corresponsione della relativa parte della retribuzione. A ciò si aggiunga che le deficienze connesse alla mancanza di un sistema efficace di valutazione dei dirigenti si riflettano negativamente anche ai fini della previsione di meccanismi retributivi effettivamente corrispondenti alla qualità e quantità del lavoro svolto dai dirigenti.


Capo VI. Disposizioni speciali.
20. Dirigenza degli enti locali (art. 20).
L’art. 27-bis, introdotto dall’art. 9 dello schema di decreto, detta «disposizioni speciali in materia di dirigenza degli enti locali».
Su un piano generale, questa Commissione speciale rileva come sia necessario inserire nel testo una norma di salvaguardia del potere normativo degli Enti locali, avente un fondamento costituzionale (I, 2.3). Si dovrebbe, pertanto, riservare a tali Enti di definire un assetto organizzativo, che stabilisca, ad esempio, quali funzioni debbano essere esercitate con la qualifica dirigenziale, nel rispetto dei principi stabiliti dal decreto legislativo.
Sotto altro aspetto, è necessario modificare le disposizioni del d.lgs. n. 267 del 2000 non compatibili con il nuovo assetto regolatorio.
20.1. Il comma 1 dispone che «gli enti locali nominano, con le modalità di cui all’articolo 19-ter, comma 6, tra i dirigenti appartenenti ai Ruoli della dirigenza, un dirigente apicale a cui affidano compiti di attuazione dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività amministrativa e controllo della legalità dell’azione amministrativa».
La Commissione speciale rileva come la disposizione della legge delega fissi il principio della irrinunciabilità ed indefettibilità negli enti locali della funzione di «attuazione dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività amministrativa e di controllo della legalità dell’azione amministrativa» che, soppressa la figura del segretario comunale, è attribuita alla dirigenza locale.
Poiché gli enti locali non possono fare a meno di tale funzione, la previsione dell’art. 1, secondo cui «gli enti locali nominano…», dovrebbe essere rivista ponendo l’accento sull’obbligatorio esercizio di tale funzione e sulla altrettanto doverosa attribuzione ad un dirigente appartenente ai ruoli della dirigenza, da nominarsi secondo le norme del decreto legislativo.
20.2. Il comma 2 prevede che: «Le città metropolitane e i comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti possono nominare, in alternativa al dirigente apicale di cui al comma 1, un direttore generale ai sensi dell’articolo 108 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000. In tale ipotesi, tali enti affidano la funzione di controllo della legalità dell’azione amministrativa e la funzione rogante a un dirigente appartenente a uno dei Ruoli della dirigenza, in possesso dei requisiti prescritti».
Questa norma deve essere esaminata unitamente all’art. 1-quater dell’art. 16 del d.lgs. n. 165 del 2001, introdotto dall’art. 11 dello schema di decreto in esame, il quale stabilisce che: «è denominato dirigente apicale il dirigente al quale sono attribuiti compiti di attuazione dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività amministrativa ed esercizio della funzione rogante, già esercitata dai segretari comunali e provinciali di cui all’art. 98 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, che non può essere coordinato da altra figura di dirigente generale».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
In primo luogo, si segnala la necessità di meglio chiarire i rapporti tra dirigente apicale di cui al comma 1 e il direttore generale di cui al comma 2 della disposizione in esame.
Quest’ultima norma scinde, per il direttore generale, la funzione di garanzia della legalità da ogni possibile commistione gestionale. La prima, invece, sembra ammettere, per il dirigente apicale, entrambe le funzioni.
In secondo luogo, il possibile frazionamento delle originarie funzioni dei segretari comunali e provinciali tra direttore generale e dirigente apicale potrebbe seriamente incrinare il funzionamento della struttura ordinamentale dell’ente e creare gravi ragioni di inefficienza ed inefficacia dell’azione amministrativa. Per queste ragioni dovrebbe prevedersi che le originarie funzioni dei segretari comunali, indicate nell’art. 98 del d.lgs. n. 267 del 2000, esclusa ogni altra e diversa funzione di carattere gestionale, vengano esercitate da un unico dirigente in posizione di staff rispetto all’organo di vertice politico dell’amministrazione.
20.3. Il comma 2 dispone che: «I Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti o a 3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità montane, esclusi i comuni il cui territorio coincide integralmente con quello di una o più isole, e il comune di Campione d’Italia, hanno l’obbligo di gestire la funzione di direzione apicale di cui al comma 1 in forma associata».
Nel silenzio della legge di delega e di qualsivoglia altro riferimento contenuto nel decreto legislativo, gli enti disciplinati dalla norma in esame devono essere considerati «enti locali di minori dimensioni demografiche» (anche con riferimento alla previsione di cui all’art, 16, comma 1-quater, del d.lgs., n. 165 del 2001, secondo le modifiche introdotte dall’art. 11 dello schema di decreto in esame).
La Commissione speciale rileva che nel silenzio della legge di delega e di altro riferimento contenuto nello schema di decreto, gli enti disciplinati dalla norma in esame devono essere considerati «enti locali di minori dimensioni demografiche» (anche con riferimento alla previsione di cui all’art, 16, comma 1-quater, del d.lgs., n. 165 del 2001, secondo le modifiche introdotte dall’art. 11 dello schema di decreto in esame).
In relazione ad essi, la ragionevole previsione dell’ «obbligo di gestire la funzione apicale di cui al comma 1 in forma associata» deve essere accompagnata dalla fissazione di un termine massimo ragionevole, che potrebbe essere di sessanta giorni, entro cui gli enti, proprio in ragione della peculiarità ed indefettibilità della predetta funzione, devono provvedere associandosi, rinviando al regolamento di cui all’art. 28-sexies la disciplina concreta idonea a superare le eventuali resistenze o inadempimenti degli enti locali.
20.4. L’art. 16, comma 1-quater, seconda parte, dispone che «per gli enti locali di minori dimensioni demografiche, nei quali non sia prevista la posizione dirigenziale, la funzione di direzione apicale è svolta in forma associata (…) salva la possibilità di attribuire le funzioni dirigenziali ai responsabili degli uffici e dei servizi (…)».
Il Consiglio di Stato rileva che la norma appare ambigua e contraddittoria dichiarando nell’incipit di far riferimento ad enti privi di posizione dirigenziale e poi prevedendo l’attribuzione di funzioni dirigenziali ai responsabili degli uffici dei servizi.
In ogni caso deve chiarirsi, in coerenza con quanto osservato in relazione alle previsioni di cui all’art. 27-bis ed ai principi che da esso derivano, che i compiti già propri dei segretari comunali e provinciali non possono essere esercitati dai responsabili degli uffici e servizi (trattandosi nella quasi totalità dei casi di Comuni addirittura sforniti di funzionari) e che comunque la possibilità di conferire ai predetti responsabili funzioni dirigenziali deve intendersi nel senso che si considerano eccettuate quelle di attuazione dell’indirizzo politico, di coordinamento e controllo della legalità dell’azione amministrativa e di ufficiale rogante.


21. I segretari comunali e provinciali.
L’art. 10, commi 1-4, disciplina il regime transitorio dei segretari comunali e provinciali, già iscritti nell’Albo nazionale e collocati nelle fasce professionali A e B.
20.1. Il comma 1 prevede che: «Nel ruolo dei dirigenti locali confluiscono i segretari comunali e provinciali già iscritti nell’albo nazionale, di cui all’art. 98 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e collocati nelle fasce professionali A e B previste dalle disposizioni contrattuali vigenti all’entrata in vigore del presente decreto. Gli incarichi in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto sono comunque fatti salvi fino alla loro naturale scadenza, con mantenimento del relativo trattamento economico».
Il comma 2 dispone che: «i soggetti di cui al comma 1 vengono assunti dalle amministrazioni che conferiscono loro incarichi dirigenziali, nei limiti delle dotazioni organiche».
La peculiarità della figura del segretario comunale e provinciale è costituita dal fatto che ancora oggi è retribuito dall’ente in cui esercita le funzioni pur avendo un rapporto di servizio con il Ministero dell’Interno. Ne consegue che le dotazioni organiche degli Enti locali presso cui dette figure prestano servizio non prevedono la figura del segretario.
Si potrebbe, pertanto, porre una questione di concreta attuazione della norma, nel senso che l’assunzione di quei funzionari presso gli enti locali che conferiscono loro incarichi dirigenziali – proprio perché si tratta di una disposizione transitoria e non già a regime – non può avvenire nei limiti delle dotazioni organiche, perché, altrimenti, la soppressione della figura del segretario comunale e provinciale coinciderebbe con il loro licenziamento immediato, mancandone la previsione nelle attuali dotazioni organiche degli Enti locali. E’ necessario, pertanto, prevedere che l’assunzione avvenga nei limiti della spesa, elemento che, allo stato, già comprende il pagamento del loro trattamento economico presso gli enti ove prestano servizio.
21.2. Il comma 3 dispone che «a decorrere dall’effettiva costituzione del ruolo dei dirigenti locali, la figura del segretario comunale e provinciale è abolita, e il relativo albo nazionale è soppresso. Lo stato giuridico e il trattamento economico dei soggetti di cui al comma 1, privi di incarico, rimangono comunque disciplinati dalle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto e il Ministero dell’interno, con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, provvede alla corresponsione dello stesso».
La Commissione speciale si limita ad un rilievo formale: sarebbe opportuno che il primo inciso del comma in esame venga inserito come primo inciso del primo comma.
La norma potrebbe, pertanto, essere così riformulata:
«1. A decorrere dall’effettiva costituzione del ruolo dei dirigenti locali la figura del segretario comunale e provinciale è abolita e il relativo albo nazionale, di cui all’articolo 98 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, è soppresso.
2. I segretari comunali e provinciali già iscritti nell’albo nazionale e collocati nelle fasce professionali A e B previste dalle disposizioni contrattuali vigenti all’entrata in vigore del presente decreto confluiscono nel ruolo dei dirigenti locali.
3. Gli incarichi in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto sono comunque fatti salvi fino alla loro naturale scadenza, con mantenimento del relativo trattamento economico.
4. I soggetti di cui al comma 1 vengono assunti dalle amministrazioni che conferiscono loro incarichi dirigenziali, nei limiti delle risorse finanziarie.
5. Lo stato giuridico e il trattamento economico dei soggetti di cui al comma 1, privi di incarico, rimangono comunque disciplinati dalle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto e il Ministero dell’interno, con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, provvede alla corresponsione dello stesso».
21.3. Il comma 5 prevede che sia coloro che sono iscritti nella fascia C che i vincitori dei concorsi delle procedure concorsuali di ammissione al corso di accesso in carriera già avviate alla data in vigore della legge delega, fatto salvo il caso in cui sia loro conferito l’incarico di direzione apicale ai sensi del comma 6, sono immessi in servizio come funzionari per due anni effettivi, aggiungendo poi una specifica disciplina evidentemente volta a rendere effettiva l’attribuzione degli incarichi dirigenziali a tali soggetti. In particolare, si prevede che «a tale fine, gli enti locali presso i quali nei successivi due anni sarà disponibile un ufficio dirigenziale, possono chiedere alla Commissione di cui all’art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, l’assegnazione dei predetti soggetti, presentando un progetto professionale e formativo di inserimento».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
La legge delega ha previsto una «specifica disciplina che contempli la confluenza nel suddetto ruolo unico dopo due anni di esercizio effettivo, anche come funzionario, di funzioni segretariali o equivalenti per coloro che sono iscritti al predetto albo, nella fascia professionale C, e per i vincitori di procedure concorsuali di ammissione al corso di accesso in carriera già avviate alla data di entrata in vigore della presente legge» (art. 11, lettera b, n. 4).
L’esigenza di una necessaria interpretazione costituzionalmente orientata proprio della disposizione di delega (per altro già ricavabile dal suo stesso tenore letterale) non consente di disciplinare unitariamente e cumulativamente, come nello schema di decreto in esame, situazioni che sono del tutto diverse e disomogenee tra di loro, quali sono quelle: a) dei segretari comunali, collocati in fascia C ed in servizio da almeno due anni effettivi (alla data di entrata in vigore del decreto legislativo in questione); b) dei segretari, collocati in fascia C, ma in servizio da meno di due anni; c) dei segretari collocati in fascia C che alla data di entrata in vigore del decreto legislativo non abbiano ancora assunto servizio; d) dei vincitori delle procedure concorsuali di ammissione al corso di accesso alla carriera avviate alla data di entrata in vigore della legge o del decreto legislativo.
Tale evidente diversità di situazione rende innanzitutto in parte inapplicabile, oltre che non ragionevole, l’unica previsione del decreto che per tutti dispone l’immissione in servizio come funzionari: già alla data dell’entrata in vigore della legge delega ed a maggior ragione alla data di entrata in vigore del decreto legislativo vi erano e vi sono segretari collocati in fascia C già in servizio.
Occorre pertanto in sede di attuazione della delega, tenuto conto dei principi in essa contenuti ed anche delle stesse previsioni di cui allo schema di decreto in esame, distinguere, ai fini del regime transitorio connesso alla soppressione della figura del segretario comunale, le seguenti posizioni.
A) La posizione dei segretari comunali, collocati in fascia C, in servizio da almeno due anni effettivi, alla data di entrata in vigore del decreto legislativo in questione: per essi, in armonia con la stessa previsione della legge delega che prevede la loro confluenza nel ruolo unico della dirigenza dopo due anni di effettivo servizio, deve stabilirsi che l’avvenuto svolgimento per almeno diciotto mesi o due anni di effettivo servizio quale titolare di una segreteria comunale, anche in regime di convenzione, comporta l’automatica iscrizione nel ruolo della dirigenza.
B) La posizione dei segretari, collocati in fascia C, ma in servizio da meno di due anni: per essi, sempre in coerenza con la ricordata norma di delega, deve stabilirsi che, qualora nel termine triennale di cui al successivo comma 6 maturino i diciotto mesi o i due anni di servizio effettivo di servizio di titolarità di una segreteria comunale, anche in convenzione, sono iscritti nel ruolo dei dirigenti degli Enti locali.
C) La posizione di coloro che, pur essendo collocati in fascia C, non siano in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo in questione nonché per i vincitori delle procedure concorsuali di accesso alla carriera al momento di entrata in vigore della legge: solo per essi può ragionevolmente trovare applicazione la previsione di immissione in servizio come funzionari.
Con riferimento alle posizioni dei segretari sub a) e b) del precedente punto la effettiva titolarità di una segreteria comunale, anche convenzionata, per il periodo sopra indicato costituisce in realtà riconoscimento del già avvenuto «conferimento dell’incarico di direzione apicale di cui all’art. 27 bis comma 1» e consente di assicurare sistematicità e ragionevolezza all’attuazione dell’intervento riformatore, garantendo la continuità dello svolgimento delle funzioni e la piena operatività degli Enti locali, soprattutto di quelli di minori dimensioni demografiche.
Quanto alle disposizioni contenute nella seconda parte del comma 5 (con cui si prevede un complesso e articolato procedimento per la sostanziale istituzione di nuovi uffici dirigenziali al fine del collocamento di tutto il personale contemplato) le stesse devono essere coordinate con la corretta attuazione della delega, come sopra indicato: in ogni caso la finalità della norma impone di modificarne la struttura nel senso di obbligare i Comuni a richiedere (e non a conferire loro una mera facoltà) l’assegnazione dei nuovi funzionari ovvero eventualmente anche degli ex segretari di fascia C, transitati automaticamente, per quanto osservato sopra, nei ruoli dirigenziali.
21.4. Il comma 6 dispone che: «In sede di prima applicazione, e per un periodo non superiore a tre anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, gli enti locali privi di un direttore generale (…) conferiscono l’incarico di direzione apicale, di cui all’art. 27-bis, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai soggetti di cui ai commi 1 e 5, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Se l’incarico è conferito a uno dei soggetti di cui al comma 5, quest’ultimo è iscritto nel ruolo dei dirigenti degli enti locali dopo che ha ricoperto tale incarico per una durata complessiva non inferiore a diciotto mesi».
La Commissione speciale rileva come non sia chiaro cosa si intende per «enti locali privi di un direttore generale», cioè se quelli che potendo nominarlo non l’hanno fatto ovvero quelli che non vi sono tenuti per avere meno di 100.000 abitanti. Ciò in quanto non può per un verso imporsi l’assunzione di una tale figura, anche per i compiti che possono essergli attribuiti, ad un ente che abbia deciso autonomamente di non avvalersene e, per altro verso, non può ragionevolmente ammettersi che l’esercizio di tali funzioni possa essere conferito, sia pur solo nell’ambito di una previsione del tutto transitoria, anche ai soggetti di cui al comma 5 (dovendo quanto meno escludersi da tale possibilità coloro che alla data di entrata in vigore del decreto non abbiano prestato almeno due anni di effettivo servizio e coloro che sono stati appena immessi in servizio come funzionari).


22. Modifiche al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
L’art. 11, comma 1, lettera c), ii), aggiunge all’art. 17 del d.lgs. n. 165 del 2001, di disciplina delle funzioni dei dirigenti, la seguente disposizione: «sono titolari in via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività gestionale, ancorché derivante da atti di indirizzo dell’organo di vertice politico».
La Commissione speciale svolge due rilievi.
Il primo, formale, attiene all’impiego dell’espressione “titolarità” riferita alla “responsabilità” nell’ambito di una disposizione che si occupa dei compiti del dirigente.
Il secondo, sostanziale, attiene alla ragionevolezza della previsione che contempla la responsabilità unica del dirigente con esclusione di qualsiasi possibile forma di concorso di responsabilità dell’organo politico. E’ evidente che la spettanza al dirigente di poteri autonomi di gestione implichi che sia il dirigente poi a dovere rispondere in sede di accertamento di responsabilità amministrativo-contabile per gli eventuali danni cagionati al patrimonio pubblico. Ma è altrettanto evidente che non si può escludere che l’organo politico individui un obiettivo che di per sé possa contribuire causalmente a determinare tale danno. Si tratta di accertamenti di merito che in quanto tali mal si prestano ad essere imbrigliati in rigide e preclusive disposizioni normative.
Alla luce di quanto esposto, la norma dovrebbe essere eliminata dal testo o, in via subordinata, si potrebbe mantenerla ma al solo fine di ribadire che per: «per l’attività gestionale, articolata nelle funzioni indicate nel comma precedente, sussiste l’esclusiva responsabilità amministrativo-contabile del dirigente».


23. Le Autorità amministrative indipendenti (art. 27-ter).
L’art. 27-ter, introdotto dall’art. 9 dello schema di decreto, detta norme sui «Dirigenti delle Autorità indipendenti».
23.1. Il comma 1 dispone che: «E’ istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ruolo dei dirigenti delle autorità indipendenti. Al ruolo sono iscritti i dirigenti delle autorità indipendenti, assunti a tempo indeterminato».
La Commissione speciale rileva quanto segue.
La ragione dell’istituzione, in attuazione dell’art. 11, comma 1, lettera b, della legge n. 124 del 2015, del ruolo unico delle Autorità indipendenti è, come già sottolineato, coerente con la loro natura refrattaria all’applicazione dei principi della responsabilità ministeriale di cui all’art. 95 Cost. Per tale Autorità operano soltanto i principi consacrati negli articoli 97 e 98. Ne consegue che il modello della dirigenza di queste strutture organizzative non ha una natura composita ma si struttura secondo le uniche direttrici rappresentate dai principi di imparzialità, intesa come neutralità delle funzioni, e buon andamento.
Chiarito ciò, deve mettersi in rilievo come le Autorità indipendenti presentino, pur nell’unicità della costruzione del modello generale, marcate differenziazioni in ragione della diversità dei compiti, di vigilanza e regolazione, ad esse attribuiti. Sarebbe, pertanto, più funzionale a questa diversificata realtà la previsione di ruoli separati tra le Autorità in modo da valorizzare le competenze tecniche e specialistiche di ciascuna di esse. Tale soluzione rinverrebbe un fondamento anche nella legge delega che, non a caso, prevede l’introduzione «di ruoli unici anche per la dirigenza delle autorità indipendenti, nel rispetto della loro piena autonomia» (art. 11, comma b), n. 1, l. n. 124 del 2015).
Qualora si intenda mantenere il «ruolounico» sarebbe opportuno prevedere che, all’interno di esso, possano essere istituite «sezioni speciali», – analogamente a quanto prevede l’articolo 13-bis, comma 5, introdotto dall’articolo 2 dello schema, con riferimento ai ruoli dei dirigenti dello Stato e degli altri enti – con rinvio ad una apposita convenzione ai sensi dell’articolo 22, comma 4, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, per ciò che attiene alla loro definizione.
Si propone, pertanto, di inserire, nell’articolo 27-ter, al comma 1, il seguente periodo: «Nel Ruolo dei dirigenti delle Autorità indipendenti possono essere costituite sezioni speciali, per le categorie professionali e tecniche, individuate con apposita convenzione ai sensi dell’articolo 22, comma 4, del decreto-legge n. 90/2014».
Analogo riferimento alle sezioni speciali del ruolo andrebbe inserito: a) al comma 4, con riferimento alle procedure concorsuali, del quale si propone di aggiungere, dopo i termini «del ruolo di cui al comma 1», le parole «o delle sezioni speciali»; b) al comma 5, con riferimento al conferimento degli incarichi, aggiungendo dopo i termini «iscritti al Ruolo di cui al comma 1», le parole «o alle sezioni speciali».
Sotto altro aspetto, per evitare che l’istituzione dei ruoli presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, possa, in qualche modo, minare l’autonomia e l’indipendenza dei dirigenti delle Autorità rispetto al Governo, è necessario rimarcare che si tratta di una gestione meramente tecnica.
23.2. Il comma 5 prevede che: «Ciascuna Autorità indipendente disciplina il conferimento degli incarichi dirigenziali nel rispetto dei principi generali di cui ai agli articoli 19-bis, 19-ter e 19-quinquies del d.lgs. n. 165 del 2001, e garantendo comunque la possibilità a tutti gli iscritti al ruolo di cui al comma 1 di partecipare alle relative procedure. E’ fatta salva l’autonomia di ciascuna autorità nella fissazione dei requisiti richiesti per ciascun incarico dirigenziale».
La Commissione speciale rileva come il rinvio agli articoli sopra indicati potrebbe determinare dei dubbi in sede applicativa, non essendo sempre comprensibile il significato dell’ espressione «principi generali».
L’art. 19-bis, contiene norme, quale quella di cui al comma 3, che consente di conferire un incarico dirigenziale agli appartenenti a ciascuno dei tre “macro-ruoli” (dirigenti statali, dirigenti regionali e dirigenti locali). Ma tale norma non potrebbe applicarsi anche alle Autorità amministrative indipendenti perché si porrebbe in contraddizione con la ratio della istituzione di un ruolo unico per la dirigenza delle Autorità indipendenti, che presuppone che la mobilità dei dirigenti possa realizzarsi solo all’interno di esso.
L’art. 19-ter contiene anch’esso disposizioni incompatibili con il sistema della dirigenza delle predette Autorità, con particolare riferimento a tutte le disposizioni che regolano le funzioni della Commissione per la dirigenza statale nel conferimento degli incarichi. Nell’ambito in esame, questa Commissione non dovrebbe operare perché altrimenti, soprattutto nella prevista configurazione, si potrebbe realizzare una incidenza di soggetti collocati in posizione di vicinanza con organi politici nella delicata fase del conferimento delle funzioni dirigenziali a soggetti che si sottraggono, per definizione, a qualsiasi rapporto con il sistema della responsabilità ministeriale.
Alla luce di questi rilievi, sarebbe preferibile rinviare agli articoli sopra indicati «nei limiti della compatibilità» ovvero limitare il rinvio alle disposizioni specifiche che regolano la tipologia degli incarichi, i criteri di conferimento degli stessi e la loro durata, inclusa la norma sul rinnovo.
23.3. Il comma 6 dispone che: «la graduazione delle funzioni e delle responsabilità dei dirigenti, ai fini della retribuzione di posizione, è definita da ciascuna autorità conformemente al proprio ordinamento, ferma restando comunque l'osservanza dei criteri e dei limiti delle compatibilità finanziarie fissate con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all’articolo 24, comma 8».
La Commissione speciale rileva che, in forza del principio di autonomia organizzativa e contabile delle Autorità indipendenti, la graduazione del trattamento economico dei dirigenti in funzione delle relative disponibilità dovrebbe continuare ad essere definita autonomamente da ciascuna Autorità, conformemente al proprio ordinamento, nei limiti delle risorse finanziarie di cui dispongono. Si segnala, dunque, l’opportunità di eliminare l’inciso finale «fissate con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui all’articolo 24, comma 8».
23.4. Il comma 7 prevede che: «In sede di prima applicazione sono iscritti ai Ruoli della dirigenza i dirigenti assunti, presso le autorità indipendenti, a tempo indeterminato».
La Commissione speciale rileva come, al fine di tenere conto delle professionalità tecniche esistenti tra i dirigenti delle Autorità indipendenti, sarebbe opportuno prevedere che, in sede di prima applicazione, tali dirigenti possano confluire nelle sezioni speciali, sulla base dei corrispondenti profili tecnici e professionali. Durante il tempo occorrente alla conclusione della convenzione sarebbe, inoltre, opportuno che i suddetti dirigenti possano confluire in una sezione speciale costituita da ciascuna Autorità.
Si propone, pertanto, di riformulare il comma nei seguenti termini: «In sede di prima applicazione i dirigenti assunti, presso le autorità indipendenti, a tempo indeterminato sono iscritti ai Ruoli della dirigenza, anche confluendo nelle corrispondenti sezioni speciali di cui al comma 1, secondo le modalità stabilite con la convenzione di cui al comma 1 e, nelle more della stipula di tale convenzione, sono iscritti nella sezione speciale costituita da ciascuna autorità».


24. Riparto di giurisdizione e forme di tutela.
La riforma non si occupa del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, con le conseguenti forme di tutela, nella nuova configurazione della dirigenza pubblica.
L’art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001, in coerenza con la privatizzazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ha devoluto al giudice ordinario tutte le relative controversie, incluse, tra l’altro, quelle concernenti «il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale».
Per lungo tempo parte della dottrina ha dubitato della conformità di questa previsione a Costituzione, sul rilievo che l’atto di conferimento degli incarichi è un provvedimento amministrativo, incidente su profili di rilevanza organizzativa, a fronte del quale il dirigente è titolare di un interesse legittimo.
La questione è stata definitivamente risolta dalla Corte costituzionale che, con sentenza n. 275 del 2001, pur giudicando della sola conformità alla delega della norma in questione, ha affermato, in generale, come sia conforme al sistema costituzionale delle forme di tutela attribuire al giudice ordinario anche le controversie in esame. In particolare, si è affermato che è «rimesso alla scelta discrezionale del legislatore ordinario – suscettibile di modificazioni in relazione ad una valutazione delle esigenze della giustizia e ad un diverso assetto dei rapporti sostanziali – il conferimento ad un giudice, sia ordinario sia amministrativo, del potere di conoscere ed eventualmente annullare un atto della pubblica amministrazione o di incidere sui rapporti sottostanti, secondo le diverse tipologie di intervento giurisdizionale previste (argomentando dall'art. 113, terzo comma, della Costituzione) ». Si è anche puntualizzato che la questione della qualificazione giuridica dell’atto di conferimento non ha alcuna rilevanza ai fini della giurisdizione (in questo senso Corte cost., ordinanza, n. 525 del 2002).
In tale cornice, la giurisdizione del giudice amministrativo, salvi i rapporti non privatizzati, rimane ferma per le «controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni» (art. 63, comma 4).
Per quanto attiene alle forme di tutela, la Corte costituzionale ha affermato la contrarietà a Costituzione di leggi che si limitino a prevedere modalità di riparazione solo economica per il dirigente ingiustamente privato del suo incarico, in quanto esse «non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela degli interessi collettivi lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi». Il giudice delle leggi, con questa decisione, ha, pertanto, messo in stretta correlazione la regolazione sostanziale del rapporto dirigenziale, ispirato ai più volte menzionati principi costituzionali, con la regolazione processuale delle forme di tutela (Corte cost. n. 351 del 2008).
La Corte di cassazione ha ritenuto che il dirigente che aspira ad un incarico, in ragione dell’esistenza di un potere organizzativo del datore pubblico, sia titolare di un interesse legittimo di diritto privato. Le eventuali forme di abuso nella fase di esercizio di questo potere vengono sanzionate alla luce del principio di buona fede e consentono la possibilità di ottenere soltanto una forma di tutela risarcitoria (Cassazione civile, Sez. lavoro, 30 agosto 2010, n. 18857; sulle modalità di risarcimento del danno conseguente a forme di spoilssystem si v. Cassazione civile, sez. lav., 9 gennaio 2013, n. 355).
Occorre chiedersi se il nuovo sistema delineato dalla riforma possa incidere sull’assetto processuale sin qui, sinteticamente, riportato.
Il Consiglio di Stato si limita a porre in rilievo come l’unica questione meritevole di approfondimento è quella relativa alla effettiva natura delle procedure di conferimento degli incarichi. Nella disciplina vigente, come già sottolineato, il legislatore ha previsto i criteri ma non anche le procedure pubbliche di conferimento degli incarichi. Si tratterà, pertanto, di stabilire se tali procedure hanno connotati tali da poter essere ricondotti al paradigma normativo delle «procedure concorsuali», di cui al quarto comma dell’art. 63. Soltanto in questo caso potrebbero essere sollevati dubbi in ordine alla persistente validità degli attuali criteri di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo.


25. Conclusioni.
La riforma della dirigenza è una riforma di nevralgica rilevanza per il funzionamento dell’intero sistema di diritto amministrativo.
La Costituzione impone che l’attività della pubblica amministrazione si conformi ai principi di imparzialità e buon andamento per consentire che cittadini, utenti e operatori economici possano ricevere prestazioni e servizi di elevato standard quantitativo e qualitativo. Perché l’attività amministrativa possa rispondere a questi parametri è necessario che l’organizzazione degli uffici dirigenziali, che consentono lo svolgimento di quelle funzioni, siano strutturati in modo tale da assicurare il perseguimento di dette finalità.
La riforma della dirigenza all’esame del Consiglio di Stato inserisce nel sistema elementi di forte innovatività attraverso il potenziamento della mobilità nel conferimento degli incarichi e l’ampliamento del “mercato” in cui si potranno muovere i futuri dirigenti.
E’ però necessario che a questa spinta innovativa corrisponda un complesso di regole puntuali e trasparenti in grado di circondare il rapporto dirigenziale di adeguate garanzie nelle fasi, di maggiore delicatezza nella costruzione della relazione tra politica e amministrazione, costituite dal momento iniziale di conferimento degli incarichi e da quello finale di cessazione del rapporto.
Le regole che il Governo ha previsto dovranno essere corrette mediante il loro adeguamento a quanto indicato nel presente parere per consentire che si costruisca una classe dirigente in grado di far fronte, con competenza e imparzialità, alle sfide future cui il nostro Paese è chiamato.
P.Q.M.
Nei termini esposti è il parere favorevole con condizioni e osservazioni della Commissione speciale




L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE
Vincenzo Lopilato
Franco Frattini




IL SEGRETARIO
Gianfranco Vastarella


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