Soltanto Il Messaggero, testata
legittimamente governativa senza se e senza ma, per voce di Andrea Bassi, sul
giornale del 15 ottobre 2016 poteva restare stupito della sonora bocciatura
pronunciata dal Consiglio di stato nei confronti dello schema di decreto
attuativo di riforma della dirigenza pubblica. L’articolo è intitolato “Doccia
fredda sulla riforma: da riscrivere le norme sui dirigenti”.
Ma, chiunque abbia letto ed
approfondito i contenuti dello schema di decreto attuativo della riforma della
dirigenza sa bene che non si può parlare affatto di “doccia fredda”.
Il parere 14 ottobre 2016, n.
2113, della Commissione speciale del Consiglio di stato incaricata di esaminare
lo schema di decreto era del tutto scontato e largamente aspettato. Ha
evidenziato, infatti, i molti, troppi, vizi di costituzionalità, di
razionalità, di legalità, di logica e di soggezione della dirigenza alla
politica che affliggono lo schema in ogni suo articolo, comma, alinea, virgola.
Vizi perfettamente evidenti, visibili, chiari a chiunque.
Non si può immaginare che gli
estensori del testo non ne fossero consapevoli. Indubbiamente il potenziamento
senza limiti dello spoil system e la
politicizzazione della dirigenza sono intenzionali e volute, perché intenzionali
e voluti in questa direzione sono i criteri di delega contenuti nell’articolo
11 della legge 124/2015. Non a caso, il Consiglio di stato si spinge a
suggerire addirittura proprio la modifica ed il ripensamento esattamente di
alcune disposizioni della legge-delega.
Probabilmente, comunque, gli
estensori dello schema di decreto sono andati anche oltre le comunque evidenti
(e di dubbia costituzionalità) intenzioni, producendo uno schema troppo viziato
per essere “vero”, destinato inevitabilmente alla sonora censura da parte di
qualsiasi organo indipendente, competente alla valutazione tecnico-giuridica
dei contenuti della norma.
La poco commendevole vicenda si
comprende: costruire la riforma della dirigenza sulla base di criteri di delega
ed un’impostazione ideologica improntati allo spoil system più spinto possibile, dunque di difficile se non
impossibile conciliazione con la Costituzione e l’ordinamento giuridico vigente
era opera ardua. In più, la stesura del testo ha vissuto di molti stop and go,
dovuti all’eterna necessità della politica di confrontarsi con scadenze
elettorali di ogni genere. Proprio l’avvicinarsi della scadenza referendaria ha
consigliato al Governo di rinviare a febbraio 2017 la stesura del testo della
riforma complessiva del pubblico impiego, per non inimicarsi 3 milioni di
dipendenti-elettori e tutto l’indotto connesso ed aveva quasi convinto a far
scadere i termini per l’approvazione in Consiglio dei ministri dello schema di
decreto riguardante la dirigenza.
Invece, all’ultimo, si è deciso
di approvare un testo che, al di là dei problemi di compatibilità con
Costituzione ed ordinamento (oltre che di tecnica logico-giuridica), è stato
redatto in fretta e furia, così da accentuare ulteriormente i già gravi vizi,
derivanti dall’impostazione della legge 124/2015.
Le argomentazioni critiche del
Consiglio di stato non possono stupire, perché sono in tutto conformi ai
rilievi critici evidenziati da chiunque si sia approcciato al contenuto dello
schema di decreto in chiave non da “tifoso”, ma di analista tecnico.
Non stupisce, quindi, che
Palazzo Spada abbia sottolineato l’impossibilità che la riforma sia senza nuovi
oneri, né che precarizzi troppo la dirigenza esponendola alla politicizzazione,
né che il sistema di reclutamento risulti irrazionale, né che sia
inconciliabile con i ruoli unici un reclutamento di dirigenti a contratto che
prescinda dalla dimostrazione dell’inesistenza di professionalità nei ruoli, né
che il dirigente apicale degli enti locali mal si concili con la presenza dei
direttori generali, né che non sia possibile esporre i segretari comunali ad un
licenziamento senza causa, dovuto alla pretesa di farli assumere negli organici
degli enti locali, quando tali organici ovviamente non contemplano tale figura,
visto che i segretari dipendono ancora oggi dal Ministero dell’interno.
Il tema vero, dunque, è un
altro: che effetto avrà il parere? Stroncature vere e proprie e senza mezzi
termini a “riforme” di vario genere in questi oltre due anni e mezzo di Governo
se ne sono viste moltissime, da parte di Consiglio di stato, Corte dei conti,
Ufficio parlamentare di bilancio, Eurostat, Istat, ed hanno interessato quasi
ogni legge di stabilità e bilancio, il Jobs Act, le varie sanatorie fiscali, la
“buona scuola” eccetera.
Non c’è stata una riforma che
abbia davvero inciso ed ottenuto gli obiettivi fissati. Si pensi al nuovo
codice dei contratti: era stato affermato che avrebbe rilanciato l’edilizia e
gli investimenti, ma i fatti dimostrano che si tratta, invece, di un Leviatano
burocratico capace solo di asfissiare le stazioni appaltanti e di bloccare gli
appalti.
La riforma delle province, come
è noto, subì ripetute stroncature da parte della Sezione Autonomie della Corte
dei conti. Le Sezioni Riunite in sede di controllo della magistratura
contabile, nell’audizione in Senato presso la Commissione affari costituzionali
dell’ottobre 2014 aveva a sua volta disapprovato senza appello la riforma della
dirigenza prevista dal disegno di legge poi sfociato nella legge 124/2015: “La riforma proposta non sembra garantire
questo punto di equilibrio, in quanto aumenta i margini di discrezionalità per
il conferimento degli incarichi; una discrezionalità solo in parte temperata
dalla previsione di requisiti legati alla particolare complessità degli uffici
e al grado di responsabilità che i dirigenti sono chiamati ad assumere. L’abolizione
della distinzione in fasce, l’ampliamento della platea degli interessati, la
breve durata degli incarichi attribuiti, il rischio che il mancato conferimento
di una funzione possa provocare la decadenza dal rapporto di lavoro,
costituiscono un insieme di elementi che potrebbero sacrificare l’autonomia dei
dirigenti”. Argomentazioni, queste, riprese e sviluppate dal Consiglio di
stato nel parere del 14 ottobre 2016.
Eppure, fin qui, di stroncatura
in stroncatura, la maggioranza in Parlamento ed il Governo hanno dimostrato una
sensibilità bassissima a rilievi critici che non provengono, per altro, da
forze di opposizione, bensì da soggetti terzi, organi giurisdizionali o di
controllo deputati proprio ad indicare in posizione di autonomia, anzi
indipendenza, possibili difetti delle norme, allo scopo di fornire agli organi
politici gli strumenti per adottare provvedimenti normativi efficaci.
Lo dimostra, soprattutto, la
tragica scelta di andare avanti comunque con la legge Delrio, che ha prodotto
il disastro finanziario delle province, la nascita di enti asfittici e privi di
qualsiasi capacità amministrativa come le città metropolitane, il cui sistema
elettorale le espone all’ingovernabilità, senza essere minimamente riuscita ad
incentivare l’associazionismo comunale, messo in discussione persino dalla
stessa Anci, che ha chiesto (e pare otterrà) l’abolizione dell’obbligo dei
comuni di gestire le funzioni in forma associata, così seppellendo proprio la
logica che aveva ispirato la disastrosa legge 56/2014.
Anche la riforma della dirigenza
è, lo si deve dire senza infingimenti, un disastro giuridico ed organizzativo.
Auspicare che questa volta il
Governo ed il Parlamento comprendano che non sia possibile proseguire su una
strada sbagliata, con un testo colmo di vizi ed errori tecnici non è possibile
e che il parere del Consiglio di stato, così come le richieste dei sindacati e
delle associazioni dei dirigenti, così come anche le valutazioni critiche della
dottrina non sono lesa maestà, ma spunti per migliorare la riforma.
Non si tratta di essere
favorevoli o contrari alle riforme in sé e per sé. Il lemma “riforma” non vale
niente, se non accompagnato da due possibili aggettivi: “cattiva riforma” o “buona
riforma”.
Che la pubblica amministrazione e,
dunque, chi è posto in ruoli di guida e direzione, richieda una spinta verso la
maggiore efficacia è indubitabile. Ma, le riforme verso questo obiettivo
debbono essere “buone”, efficaci, utili. Non basta riformare per riformare, né è
possibile enunciare fini nobilissimi, come appunto il rilancio dell’efficienza
della funzione dirigenziale, per poi perseguire, invece, l’unico obiettivo di
politicizzare i dirigenti in modo da averne assoluto controllo, a discapito
dell’imparzialità dell’azione amministrativa e dell’interesse generale.
Vedremo se, questa volta, l’auspicio
si tradurrà in realtà e il parere del Consiglio di stato si traduca in uno
spunto per rivedere in profondità il testo. Anzi, per metterlo totalmente da
parte, vista la quantità enorme di emendamenti che sarebbero necessari, solo
per attenersi alle indicazioni di Palazzo Spada. Più utile e proficuo sarebbe
prendere atto che i tempi ed i modi e le intenzioni della riforma sono stati
sbagliati e che occorre ripartire da zero.
Purtroppo questa è la conseguenza di essere nelle mani di un gruppo di pasticcioni, incompetenti e arroganti, e della miopia dei tanti autorevoli opinionisti di più varia estrazione che continuano a ritenere che senza questa gente non ci siano alternative al baratro... Che aprano gli occhi anche loro.
RispondiEliminaIl Governo tira acqua al suo mulino, proponendo norme assurde ma che di fatto renderebbero i dirigenti dei camerieri del ministro,assessore, consigliere comunale, capocondominio, capo bastone, portatore di voti di turno (che il Ministro reputa molto più deteminante del bravo dirigente per aumentare il suo peso nel partito). Ma il problema non è il governo, che ci prova. Potrebbe anche stare nelle cose. Il problema pericoloso, non per noi dirigenti ma per la democrazia, è l'assoluta mancanza di una classe di intellettuali degna di questo nome, professori universitari, giornalisti, commentatori vari, tutti a elogiare gli atti disastrosi del governo (vedi anche il codice dei contratti, la "buona scuola"), perchè al governo legati indirettamente tramite i loro editori, i premi, le comparsate televisive, gli incarichi extra, i mille rivoli del sottobosco politico. Oppure, che forse è peggio, in quanto hanno raggiunto la loro attuale posizione perchè hanno fatto i servi per tutta la vita e non trovano di meglio che continuare a servire il potente di turno. E non ne faccio una questione di colore politico, è che proprio i cosiddetti intellettuali sono di una mediocrità assoluta, cui fa spesso da contrappeso una arroganza infinita.
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