Il
Ministro delle riforme, Marianna Madia, continua a sostenere che dopo la
sentenza della Corte costituzionale 251/2016 non è detto che si riesca a
stipulare il contratto collettivo nazionale di lavoro per il pubblico impiego, perché
per la parte normativa potrebbe essere necessaria l’intesa con le regioni. Proprio
quell’intesa che è mancata per larghe parti della legge-delega di riforma del
lavoro pubblico, da cui è discesa la sentenza della Consulta che ha affossato
in particolare la riforma della dirigenza.
A
stretto giro di posta ha risposto Luca Zaia, presidente della regione Veneto,
autore del ricorso alla Consulta, colpevolmente sottovalutato dal Governo. Sui
giornali del 28 novembre Zaia ha dichiarato con estrema chiarezza: “La
nostra causa davanti alla Corte costituzionale - precisa il governatore - è
stata promossa per l'invasione delle competenze regionali assegnate alle
Regioni, soprattutto riguardanti la sanità, che è appunto materia regionale. Smettiamola
quindi, caro Governo, di dire cose assolutamente false e strumentali sugli
effetti della sentenza della Consulta. Non è vero che se un dipendente non
timbra un cartellino per licenziarlo sia necessaria l'intesa con le Regioni. Su
quello non c'è nessuna competenza regionale e quindi il Governo può fare tutto
quello che vuole: licenziare, adeguare gli stipendi (del tutto
impropriamente il ministro Madia ha detto che per fare gli adeguamenti adesso
ci vorrà l'intesa) o quant'altro”.
Un’intesa
tra Stato e regioni è necessaria, come ha spiegato la Consulta , solo laddove si
rilevi l’esistenza di in intreccio inscindibile tra la potestà legislativa
dello Stato e la potestà legislativa concorrente delle regioni.
Di
conseguenza, nessuna intesa occorre quando il Parlamento sia chiamato a
legiferare su materie riservate esclusivamente alla potestà legislativa dello
Stato.
Concentriamo,
dunque, l’attenzione sul rinnovo dei contratti collettivi di lavoro. Se vi sono
contratti collettivi di lavoro, la ragione è molto semplice: ciò si deve alla
circostanza che larga parte del rapporto di lavoro dei dipendenti dell’amministrazione
pubblica è stata appunto “contrattualizzata” (spesso si legge “privatizzata),
cioè soggetta ad una disciplina non più solo di diritto pubblico, ma di diritto
civile.
Ciò
è disposto in maniera chiarissima dal testo unico sul lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche, il d.lgs 165/2001, all’articolo 2, comma 2: “I
rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono
disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice
civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve
le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono
disposizioni a carattere imperativo. Eventuali disposizioni di legge, regolamento
o statuto, che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui
applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a
categorie di essi, possono essere derogate da successivi contratti o accordi
collettivi e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili, solo
qualora ciò sia espressamente previsto dalla legge”.
Dunque,
è facile comprendere che la regolamentazione contrattuale del rapporto di
lavoro dei dipendenti pubblici entra nell’ambito della disciplina del diritto
civile.
Allora,
la conclusione è una sola: potrebbe essere necessaria un’intesa tra Stato e
regioni, ai fini della sottoscrizione del Ccnl, solo laddove si potesse
evincere una potestà legislativa concorrente delle regioni in merito al diritto
civile.
Ma,
tale conclusione è impossibile. Infatti, l’articolo 117, comma 2, lettera l),
della Costituzione vigente assegna alla potestà legislativa esclusiva dello
Stato proprio la materia dell’ordinamento civile. Potestà legislativa “esclusiva”
significa che appartiene allo Stato e solo allo Stato: né alla potestà
esclusiva delle regioni, né a quella concorrente disciplinata nel dettaglio, ai
sensi dell’articolo 117, comma 4, della Costituzione, in un elenco nel quale l’ordinamento
civile non è ovviamente ricompreso.
Dunque,
semplicemente guardando alle disposizioni della Costituzione ed all’articolo 2,
comma 2, del d.lgs 165/2001 si deve concludere senza dubbio alcuno che la
sentenza 251/2016 non introduce nessun tipo di ostacolo, né giuridico né di
altra natura, alla stipulazione dei contratti di lavoro, dal momento che le
regioni su questa materia non dispongono di nessun genere di potestà
legislativa.
La
cosa è resa ancor più chiara, poi, dall’articolo 40, comma 1, sempre del d.lgs
165/2001: “La contrattazione collettiva determina i diritti e gli
obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le
materie relative alle relazioni sindacali. Sono, in particolare, escluse
dalla contrattazione collettiva le materie attinenti all'organizzazione degli
uffici, quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell'articolo 9,
quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma
2, 16 e 17, la materia del conferimento e della revoca degli incarichi
dirigenziali, nonché quelle di cui all'articolo 2, comma 1, lettera c), della
legge 23 ottobre
1992 , n. 421. Nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla
valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento
accessorio, della mobilità e delle progressioni economiche, la contrattazione
collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge”.
Come
si nota, la contrattazione collettiva:
1)
si interessa di diritti ed obblighi relativi al rapporto di lavoro: dunque,
fa naturalmente parte della disciplina contrattuale la determinazione del
cosiddetto sinallagma, la precisazione degli obblighi lavorativi del prestatore
di lavoro e dell’onere retributivo del datore;
2)
non si può interessare dell’organizzazione del lavoro, materia sulla
quale potrebbe scattare un coinvolgimento delle regioni, che dispongono di
potestà legislativa residuale sul merito della propria organizzazione.
Occorre,
poi, riferirsi all’articolo 47 del d.lgs 165/2001, contenente la disciplina del
procedimento finalizzato alla stipulazione dei contratti collettivi: ci vuol
poco a rendersi conto che la norma citata non prevede in alcun modo nessuna
intesa, ma nemmeno nessun parere, delle regioni sui contratti collettivi. L’unico
coinvolgimento del comparto delle regioni è quello del “comitato di settore”,
chiamato a fornire all’Aran gli indirizzi generali per la contrattazione.
La
conclusione, allora, è una sola: non è in nessun modo corretto affermare che la
sentenza della Corte costituzionale 251/2016 incida in misura anche solo minima
sulla contrattazione nazionale collettiva.
Poiché
le norme richiamate sopra sono chiarissime ed esplicite, appare davvero
difficile che il loro contenuto possa sfuggire tanto all’inquilina di Palazzo
Vidoni, quanto, soprattutto, ai tecnici degli staff legislativi. Risulta,
dunque, inspiegabile come sia possibile che il Ministro paventi difficoltà
nella stipulazione dei contratti, a meno che esse difficoltà, lungi dal
derivare da disposizioni normative e cavilli tecnici, non siano evidenziate a
scopi di propaganda referendaria. Sebbene per convincere gli elettori verso una
specifica scelta nelle urne la propaganda sia normale, tuttavia basarla su
letture delle norme del tutto difformi dalla realtà non rende certamente
giustizia alla legittima volontà del Governo di indurre i cittadini a sostenere
la riforma della Costituzione.
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