martedì 29 novembre 2016

Le ragioni del sì, che fondano invece quelle del no



Su Il Fatto Quotidiano on line del 29 novembre 2016, Mattia Mor, indica le ragioni per il suo “convinto sì”. Utilissime per un’analisi che ne metta in evidenza l’inconsistenza.

In primo luogo, il Mor vota sì “Perché si mette finalmente fine al bicameralismo paritario, di cui si discute da 30 anni, con maggiore velocità nell’approvazione delle leggi, senza la necessità di due camere che le modifichino e votino entrambe, in un momento storico in cui la velocità è fondamentale in ogni decisione, a livello politico come di impresa”.
Si discute da ben più di 30 anni anche della questione omerica o shakespeariana, ma a nessuno viene in mente di dare una soluzione drastica, purchè sia, ad entrambe, solo perché è passato del tempo.
Come faranno, negli Usa, a tenersi un bicameralismo paritario previsto nel lontano 1897? Qualcuno può seriamente immaginare che non si sia mai discusso del tema, in Usa?
Il fatto che di un problema “si discuta da 30 anni” non è per nulla sintomo che la soluzione proposta sia quella corretta.
In effetti, fino a qualche mese fa, per connotare il bicameralismo italiano, nel quale Camera e Senato hanno identici poteri, si parlava di “bicameralismo perfetto”. Ma poi, l’aggettivo “perfetto” è stato sostituito con “paritario”, perché evocava quel che di “perfezione” e compiutezza ha la Costituzione vigente, a differenza del tentativo raffazzonato della riforma.
Che, appunto, trasforma un bicameralismo da “perfetto” a qualcosa di totalmente disordinato, che mantiene per moltissime materie pari competenze tra Camera e Senato, chiamato ad approvare obbligatoriamente le leggi. Mentre, per tutte le altre il Senato potrà continuare ad intervenire. E non si è riusciti a comprendere perché un Senato concepito (solo a parole) come “camera delle autonomie) debba continuare a votare, in sede di Parlamento riunito in seduta comune, il Presidente della Repubblica o alcuni membri del Csm e, autonomamente, 2 membri della Corte costituzionale, poteri che con la rappresentanza locale non hanno ovviamente nulla a che vedere.
E non si capisce a quale titolo rappresentanti non della Nazione, ma degli enti locali, dovrebbero godere dell’immunità parlamentare.
Per realizzare un monocameralismo reale, bastava assegnare al Senato i poteri propri, oggi, della Conferenza Stato-regioni, con poteri più o meno intensi di intervento su norme concernenti l’autonomia regionale e locale, sottraendo tutti gli altri poteri.
In quanto alla “velocità”, legiferare e governare un Paese, consentirà il Mor, è cosa ben più complessa, difficile e alta di gestire un’impresa. Governare un Paese significa assicurare l’interesse generale e diffuso, non perseguire un interesse di lucro per pochi. La differenza è talmente ampia e spaventosa, che non dovrebbe sfuggire a nessuno, anche se imprenditore.
Come seconda motivazione, il Mor ci ricorda che “Viene introdotto il voto a data certa e viene ridotto l’uso dei decreti di urgenza, che di fatto sono stati un modo per decidere su temi strategici senza aspettare le lungaggini del Parlamento. Strumento fin troppo usato, insieme alle fiducie, da governi di ogni colore, a dimostrare il classico italiano per cui sia più comodo trovare un modo per aggirare una norma vetusta e sbagliata piuttosto che cambiarla”.
Si torna a parlare di “lungaggini”, come se legiferare fosse un’opera banale, legata a metriche del lavoro: tanti bottoni da produrre in catena di montaggio, entro un certo lasso di tempo.
Per altro, ignorando il dato che oltre l’80% delle leggi (leggi, non decreti legge, che hanno il percorso accelerato previsto dalla Costituzione) è approvato con due sole letture, una alla Camera e una al Senato, alla velocità di una ogni 4 giorni.
Al Mor, come agli altri sostenitori del sì, poi, sfugge che la riforma non scalfisce nemmeno minimamente il potere del Governo di adottare decreti d’urgenza: i pochi vincoli introdotti, in particolare quello dell’oggetto definito e del divieto di inserire materie non pertinenti, sono già esistenti, perché imposti dalla Corte costituzionale.
Semmai, accanto ai decreti legge la riforma inserisce le “leggi a data certa” (come le cambiali o lo yogurt): un incremento immenso del potere del Governo sul Parlamento, che sarà chiamato in continuazione a dare privilegio alle leggi considerate dal Governo come essenziali per il programma. Non vi sarà certo la fiducia per simili leggi, ma nessuno sa che succederebbe se:
1)      la legge “a data certa” venisse approvata al settantunesimo giorno: è un termine perentorio, che priverebbe la legge di efficacia; o solo “ordinatorio”, dunque superabile? Se fosse perentorio, che sorte avrebbe un Governo non sostenuto da una maggioranza capace di approvare le leggi di propria iniziativa nei termini imposti dalla Costituzione? E se fosse solo ordinatorio, cioè un termine non vincolante, che certezza avrebbe, allora, la data? Il termine, più che ordinatorio, in quel caso sarebbe canzonatorio e non altro;
2)      se la proposta di legge fosse direttamente respinta, cosa che in teoria potrebbe avvenire, perché la riforma dà alla Camera la facoltà di attivare la procedura a data certa? Non equivarrebbe a sancire la rottura del rapporto tra maggioranza e Camera, pur in assenza del voto di fiducia? O è un sistema col quale il Governo cercherebbe di coartare il Parlamento, senza addossarsi la responsabilità politica di verificare il persistere della fiducia della Camera?
Ce n’è abbastanza per capire che il fine, forse nobile, di semplificare ed accelerare la procedura, è stato totalmente mancato dalla concreta redazione della riforma, che è quella che cambia l’articolo 70 portandolo dalle 9 attuali parole alle quasi 500 del nuovo testo.
Terzo argomento del Mor: “Siamo il Paese con il numero più alto di politici. Se passerà la riforma voluta dal governo Renzi il Senato diminuirà di 215 unità, risparmiando stipendi e indennità. Lo stesso accadrà con il tetto ai compensi dei consiglieri regionali, a oggi sproporzionati, con l’eliminazione dei rimborsi dei gruppi regionali, con l’abolizione del Cnel. La vittoria del sì non è fondamentale tanto per i risparmi, pur importanti, ma non enormi (se si guarda la spesa pubblica monster), quanto per il significato di una politica che finalmente sfoltisce se stessa e si riduce, di fronte a cittadini che fanno sempre più sacrifici, ma vedono le istituzioni e i loro rappresentanti sempre più lontani”.
Il numero dei parlamentari attuali è certo molto alto: 945. La riforma li porterebbe a 730. Quanti parlamentari vi sono nel Parlamento Ue, che rappresenta 27 Pesi: 751. In Usa? 435. In Francia? 577. In Germania? 622. In Gran Bretagna? 650. In Spagna? 350.
Allora, forse, se si vuole davvero portare l’Italia a non essere più il Paese “col maggior numero di politici” sarebbe il caso di ridurre il numero dei parlamentari così da andare al di sotto dei metri di paragone, e non a restarvi al di sopra.
Per altro, l’informazione che i senatori si riducano è in parte distorta. Il Senato sarà composto di sindaci e consiglieri regionali, che restano, però, in carica, finchè duri il mandato nei comuni e nei consigli regionali. Nel corso di una legislatura, dunque, il numero dei senatori continuerà a cambiare. I senatori in una legislatura saranno più dei 100 indicati, perché il flusso delle elezioni è continuo ed inarrestabile.
Una gran confusione, che riduce in modo non chiaro il numero dei parlamentari: bastava ridurre davvero con regole chiare il numero dei senatori, ma altrettanto occorreva fare, per coerenza, anche alla Camera.
Il tetto ai compensi dei consiglieri regionali non vale nulla, perché resta per le regioni la possibilità di fissare (ed aumentare) i rimborsi spese.
L’abolizione del Cnel vale 0,23 euro l’anno per ogni cittadino: siamo sicuri che l’imprenditore Mor saprà trarre enorme profitto dall’investimento dell’ingente somma che detta abolizione gli permetterà.
Infine, la politica non può e non deve vivere di “segnali”, specie quando sono condizionati dal populismo becero.
Il quarto motivo: “Con la vittoria del Sì, si torna a una separazione chiara tra Stato e Regioni perché con l’eliminazione delle competenze concorrenti si evitano quelle dispute sulla competenza centrale o locale che per 15 anni hanno ingolfato la Corte costituzionale. Lavorando tanto in varie parti del mondo, trovo assurdo che se si parla di elementi strategici come le reti di trasporto e navigazione, la formazione professionale, il trasporto e distribuzione dell’energia, e soprattutto la promozione turistica nel mondo, ci possano essere 15 diverse politiche regionali a scapito di un’unica strategia centrale che faccia l’interesse dell’Italia tutta. Non ne posso più, sinceramente, di Regioni minuscole nel panorama globale che si auto promuovono nel mondo (spendendo, e tanto) senza riuscire però ad attrarre quei turisti che si preferiscono per la loro vacanza la Francia e la Spagna, nazioni che hanno politiche strategicamente centralizzate”.
Il Titolo V, riformato 15 anni fa dalle stesse forze politiche che adesso voglio nuovamente cambiarlo, insegna che riforme a colpi di maggioranza (nel 2001 la riforma passò per 4 voti) frettolose portano solo a guai. Né il corpo elettorale, che incautamente 15 anni fa espresse il proprio sì alla riforma, può essere in grado di esprimere un giudizio ponderato e fondato sugli effetti.
Infatti, la riforma del 2001 si è dimostrata una mezza catastrofe. Sarebbe, dunque, benvenuta una nuova riforma del Titolo V. Molto meglio sarebbe, però:
1)      se si trattasse di una riforma specifica e puntuale, non inserita in uno stravolgimento complessivo della Costituzione vigente, tale da esercitare un potere costituente e non più costituito, abusando dei chiari limiti imposti dall’articolo 138 della Costituzione, pensato per revisioni puntuali e limitate, non per riscrivere la Costituzione da capo;
2)      se la riforma del Titolo V riuscisse davvero nell’intento evocato dal Mor. Purtroppo, è l’esatto contrario: riconduce alcune potestà legislative allo Stato, ma non riesce ad eliminare la fonte di incertezza maggiore, cioè la potestà legislativa esclusiva “residuale” delle regioni, né la potestà concorrente. Inoltre, la pari dignità istituzionale di regioni e Stato lascerebbero totalmente in piedi i problemi di carattere procedurale delle norme, che hanno causato la “fucilazione” della riforma Madia da parte della sentenza 251/2016, della Consulta.
Quinto motivo: “Con la modifica dell’articolo 97, la trasparenza degli organi locali diventa un obbligo costituzionale. Al di là delle frasi fatte sulla deriva autoritaria il sistema delle garanzie viene rafforzato: i referendum abrogativi avranno un quorum più basso solo se raccoglieranno 800mila firme, le leggi di iniziativa popolare dovranno essere discusse in tempi certi con 150mila firme, vengono introdotti per la prima volta i referendum propositivi o di indirizzo, sarà previsto un quorum più alto sull’elezione del Presidente della Repubblica”.
Il Mor non ha ben inteso; la modifica dell’articolo 97, comma 2, della Costituzione riguarda la pubblica amministrazione intera e non solo gli organi locali e si limita ad accertare che la trasparenza diviene un principio esplicito al quale informare l’attività amministrativa. Anche in questo caso è un’innovazione nulla e solo apparente: la trasparenza è da sempre considerata un principio costituzionale desunto già dall’articolo 97 vigente, anche se non esplicitato nel testo.
In quanto alle altre argomentazioni:
1)      l’abbassamento del quorum per i referendum abrogativi è legato alla condizione, possibile ma improbabile, di un quantitativo di firme per l’indizione oggettivamente di difficilissimo ottenimento; non si vede, comunque, che relazione vi sia tra referendum abrogativi di leggi e l’attività del Governo, che è esecutiva e non legiferativa (ma i molti costituzionalisti in erba italiani questo sembra lo ignorino);
2)      anche per le leggi di iniziativa popolare si triplica il quantitativo di firme oggi richiesto e non vi è alcuna garanzia che siano prese in esame dal Parlamento;
3)      i referendum di indirizzo sono stati sperimentati da anni negli enti locali, ove si è compreso che il loro valore, giuridico e politico, è pari a zero;
4)      l’innalzamento del quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica, infine, è un vero e proprio falso; il quorum aumenta solo per i primi sei scrutini; dal settimo in poi, si abbassa drasticamente, perché sarà sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti del Parlamento riunito in seduta comune. Tre quinti dei votanti, significa non 3/5 dei componenti del Parlamento riunito in seduta comune (438), ma 3/5 dei presenti in aula. Per la maggioranza sarà semplicissimo far andare a monte le prime sei votazioni e dalla settima eleggersi da sé il Presidente della Repubblica.


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