Tra
i moltissimi difetti, illegittimità, incoerenze, malfunzionamenti, grossolanità
della riforma della dirigenza ne spicca una in particolare: l’errata ed
impossibile configurazione della successione degli incarichi dirigenziali come
mobilità per cessione del contratto.
L’articolo
2 dello schema di decreto legislativo attuativo della riforma Madia intende
sostituire l’articolo 13 del d.lgs 165/2001. Il nuovo comma 3 di detto articolo
13 novellato delinea il sistema di costituzione e gestione del rapporto di
lavoro dei dirigenti pubblici, per effetto della riforma: “Il rapporto di
lavoro di ciascun dirigente è costituito con contratto di lavoro a tempo
indeterminato, stipulato con l’amministrazione che lo assume, all’esito delle
procedure di cui agli articoli 28, 28-bis e 28-ter, con contestuale iscrizione
nei Ruoli di cui all’articolo 13-bis. Il successivo conferimento di incarico
dirigenziale, da parte di altra amministrazione, comporta la cessione a
quest’ultima del contratto di lavoro a tempo indeterminato, ferma restando
l’iscrizione nel Ruolo. Lo scioglimento del rapporto di lavoro comporta la
decadenza dai Ruoli dirigenziali. Resta ferma la disciplina vigente in materia
di facoltà assunzionali.”.
La
fattispecie giuridica creata dalla norma, semplicisticamente riferita ad una
mobilità mediante cessione del contratto utile a creare il “mercato del lavoro
della dirigenza” finalizzato, come propagandato dagli autori della riforma, a
permettere ai migliori di competere per accedere a incarichi dirigenziali più
prestigiosi, è, in realtà, estremamente complicata e, come si dimostrerà,
totalmente fuori dai canoni delle norme che regolano gli istituti ivi previsti.
1. Datore di lavoro.
Spezzettiamo la previsione in più parti. Trattandosi della regolazione di un
rapporto di lavoro, occorre individuare chi è il lavoratore subordinato: in
questo caso, la situazione è chiara, perché si tratta di ciascuno dei dirigenti
appartenenti ai ruoli unici.
Ma,
chi è il datore di lavoro? Molti, ricordiamo in particolare Giovanni Valotti,
avevano indicato di utilizzare il modello (fallimentare) della riforma dei
segretari comunali: un’Agenzia nazionale quale datore di lavoro con cui i
dirigenti avrebbero condotto il rapporto organico, per poi attivare il rapporto
di servizio con gli enti presso i quali avrebbero ottenuto gli incarichi.
La
legge 124/2015 e il decreto attuativo, come si nota, non hanno seguito questa
indicazione. Non vi sarà un unico datore di lavoro, un’agenzia o un soggetto
gestore del ruolo unico (e trino). Il ruolo, a ben vedere, sarà poco più che un
elenco (nemmeno un albo, perché la riforma continua ad ammettere la possibilità
di assegnare incarichi a soggetti non inseriti nel ruolo): non sarà una persona
giuridica con la qualità di datore di lavoro dei dirigenti.
Lo
schema di decreto attuativo, dunque, pone rimedio all’assenza di un datore di
lavoro unico, con l’idea secondo la quale vi sarà una pluralità di datori di
lavoro: ciascuna singola amministrazione che assegni gli incarichi ai dirigenti
appartenenti al ruolo.
2. Costituzione del rapporto. Le parole, in una legge, contano. Moltissimo. Abbiamo individuato chi
sarebbe il datore di lavoro nel post riforma. Ora occorre capire come si
costituisce il rapporto di lavoro.
Poiché
il ruolo unico non è un datore, il rapporto non può costituirsi, cioè nascere,
a seguito dell’iscrizione nel ruolo (a sua volta successiva ad un
corso-concorso o concorso).
Dunque,
la riforma espressamente prevede che “Il rapporto di lavoro di ciascun
dirigente è costituito con contratto di lavoro a tempo indeterminato,
stipulato con l’amministrazione che lo assume”.
Pertanto,
le parole molto chiare della norma indicano che:
1) il rapporto organico (il
rapporto di lavoro) sorge contestualmente al rapporto di servizio (l’incarico
dirigenziale) a seguito dell’iniziativa della singola amministrazione-datore;
2) almeno la prima assegnazione
dell’incarico dirigenziale è una vera e propria assunzione in servizio.
3. Cessione del contratto. Andiamo al cuore del problema. Qual è la corretta configurazione del
fenomeno giuridico dell’assegnazione al dirigente di un incarico dirigenziale
successivo a quello della prima “assunzione”?
Il
legislatore non ha dubbi: si tratta di una cessione del contratto. Occorre
capire tuttavia, se le cose stiano davvero così e se l’indicazione edittale sia
corretta o se, nonostante il nomen iuris l’istituto giuridico sia del
tutto diverso.
Richiamiamo,
allora, la disciplina della cessione del contratto dettata dal codice civile,
da applicare al caso di specie, visto che si tratta di rapporti di lavoro
contrattualizzati e, quindi, soggetti al diritto privato per le parti del
rapporto non espressamente oggetto di norme speciali pubblicistiche. Leggiamo,
dunque, quanto dispone l’articolo 1406 del codice civile: “Ciascuna parte
può sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti da un contratto con
prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché
l'altra parte vi consenta”.
Lo
schema astratto proposto dalla riforma è quello secondo il quale il dirigente è
il contraente cedente, che assume l’iniziativa di cedere il contratto ad un
altro datore; l’amministrazione che gli assegna il nuovo incarico dirigenziale
è il contraente cessionario, che subentra nel rapporto; l’amministrazione di
appartenenza è il contraente ceduto, estromesso dal rapporto.
Ma,
il contraente ceduto, dispone il codice civile, deve consentire, deve, cioè,
manifestare il proprio consenso alla fattispecie. L’istituto della cessione del
contratto è necessariamente trilaterale: il contraente ceduto non può subire
l’iniziativa dell’altra parte e di un terzo estraneo al negozio, se non
manifesta il proprio consenso.
3.1 Interpelli.
Tuttavia, come funzionerà il sistema dell’assegnazione degli incarichi
successivi? Come sappiamo, vi saranno gli avvisi pubblici previsti dal nuovo
articolo 19-ter del d.lgs 165/2001, finalizzati ad avviare la procedura
comparativa che si concluderà con l’assegnazione degli incarichi.
A
seguito della pubblicazione degli avvisi, dunque, qualsiasi dirigente
appartenente ai ruoli potrà presentare la propria candidatura, per accedere al
nuovo incarico, nella logica del “mercato” finalizzata a consentire la massima
mobilità (non intesa in questo senso nell’accezione data dall’articolo 30 del
d.lgs 165/2001) possibile e la potenziale soddisfazione dell’aspirazione ad
accedere ad incarichi di maggiore prestigio. Potranno, quindi, candidarsi sia
dirigenti privi di incarico, alla “caccia” di un nuovo rapporto di servizio
così da non perdere il posto di lavoro, sia i dirigenti che conducano ancora un
incarico con un datore di lavoro.
4. Mobilità impossibile. Qui l’impossibilità della mobilità emerge in tutta la sua evidenza,
così come chiarissima è l’antigiuridicità del sistema pensato dal legislatore.
Pensiamo
alla seconda delle ipotesi formulate al termine del precedente paragrafo. Il
dirigente che conduce un incarico con l’amministrazione A, partecipa ad un
avviso pubblico indetto dall’amministrazione B e viene selezionato da questa.
Prende, quindi, servizio e, pertanto, secondo quanto indicato dall’articolo 13,
comma 3, novellato, del d.lgs 165/2001 si darebbe luogo alla “cessione del
contratto”.
Tuttavia,
l’amministrazione A, ceduta, non può prestare alcun eventuale dissenso al
passaggio del dirigente che con essa conduce l’incarico: la cessione del
contratto appare obbligata. La controprova? L’ultimo periodo dell’articolo
19-ter, comma 3, del d.lgs 165/2001 come risulterebbe introdotto dallo schema
di decreto di riforma, dispone: “Gli avvisi possono indicare un periodo
minimo di permanenza nell’incarico, non superiore a tre anni, durante il quale
l’assunzione di un successivo incarico da parte del dirigente è subordinata al
consenso dell’amministrazione che ha conferito il precedente incarico”. Si
deve quindi concludere che:
1)
se gli avvisi non indicano il periodo minimo di permanenza, il
dirigente incaricato potrà assumere un incarico diverso quando vuole, senza che
ciò possa essere subordinato al consenso dell’amministrazione che gli ha
conferito l’incarico precedente;
2)
se gli avvisi indicano il periodo minimo di permanenza, superato detto
periodo, comunque il dirigente potrà andare via senza che alcuna subordinazione
della “cessione del contratto” al consenso dell’amministrazione che ha
conferito il precedente incarico.
Pertanto,
si deve necessariamente concludere che la previsione della riforma è qualcosa
di diverso dallo schema civilistico della cessione del contratto, disciplinato
dall’articolo 1406 del codice civile. Ma, se così è, allora, non si tratta di
“cessione del contratto”, bensì di altro istituto.
Vedremo
quale, analizzando l’altra e più delicata situazione del dirigente privo di
incarico che partecipi agli avvisi.
L’articolo
23-bis che verrebbe inserito nel d.lgs 165/2001 al comma 1 dispone: “Alla
scadenza di ogni incarico, il dirigente resta iscritto nel relativo Ruolo ed è
collocato in disponibilità fino al conferimento di un nuovo incarico
dirigenziale. I dirigenti privi di incarico hanno l’obbligo di partecipare, nel
corso di ciascun anno, ad almeno cinque procedure comparative di avviso
pubblico di cui all’articolo 19-ter, per le quali abbiano i requisiti”.
La
collocazione in disponibilità è un istituto peculiare del lavoro pubblico. Si
tratta di un misto tra:
a)
cassa integrazione ordinaria: ai sensi dell’articolo 33, comma 8, del
d.lgs 165/2001, infatti, “Dalla data di collocamento in disponibilità restano
sospese tutte le obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro”, come
appunto accade per i lavoratori collocati in Cig, che vengono considerati
“sospesi” perché non più tenuti a prestare (integralmente, se in Cig a zero
ore, o parzialmente) l’attività lavorativa; di conseguenza il trattamento
economico modifica la sua natura, da stipendiale a indennità, per altro
significativamente decurtata. I dirigenti privi di incarico avranno diritto al
solo trattamento fondamentale, con una riduzione, quindi, del trattamento
economico complessivo che può giungere al 70% ed essere mai inferiore al 50%.;
b)
mobilità: non si tratta della mobilità pubblicistica, ma di quella
privatistica, cioè il licenziamento del lavoratore, successivamente al decorso
di un periodo di qualche mese, nel quale percepisce una certa indennità quale
ammortizzatore sociale, commisurato all’anzianità lavorativa ed alla
retribuzione percepita prima del licenziamento.
Perché
la “disponibilità” è un misto tra i due istituti visti sopra? La risposta è
semplice: la cassa integrazione comporta solo la sospensione del rapporto di
lavoro, cui consegue necessariamente il rientro del lavoratore nello
svolgimento dell’attività lavorativa (a meno che, la crisi aziendale non si
aggravi e porti alla chiusura e, quindi, al licenziamento collettivo; ma nel
caso della Cig ordinaria questo non è consentito). La mobilità, invece, è
conseguenza del licenziamento.
La
disponibilità implica, a differenza della cassa integrazione, la necessaria
risoluzione del rapporto di lavoro, ove nei 24 mesi disponibili il lavoratore
non sia ricollocato presso un altro ente.
Pertanto,
occorre trarre una conclusione: per quanto la “disponibilità” sia qualificata
come evento sospensivo del rapporto di lavoro, nella sostanza essa comporta,
invece, una risoluzione del rapporto di lavoro, differita nel tempo.
Anche
qui possiamo fornirne la prova. Lo schema di decreto legislativo approvato dal
Governo dispone che l’indennità al dirigente privo di incarico sia “a carico
dell’ultima amministrazione che ha conferito l’incarico”, cioè quella con
la quale il dirigente ha condotto il rapporto organico insieme con quello di
servizio. L’accollo dell’onere di pagare al dirigente privo di incarico
l’indennità di disponibilità a carico dell’ultima amministrazione che lo ha
incaricato potrebbe confermare che si tratti di una sospensione del rapporto di
lavoro.
Ma,
in realtà, sul piano sostanziale si tratta di una vera e propria interruzione
del rapporto di lavoro. Infatti, l’ultimo periodo del comma 2 dell’articolo
23-ter che si aggiungerebbe al d.lgs 165/2001 recita: “In ogni caso, il
dirigente privo di incarico è tenuto ad assicurare la presenza in servizio, e
rimane a disposizione
dell’amministrazione per lo svolgimento di mansioni di livello dirigenziale”.
Una corveè non retribuita, che dimostra non una semplice sospensione del
rapporto, ma la sua drastica risoluzione. Se, infatti, si trattasse di una
disponibilità a svolgere mansioni nell’ambito di un rapporto sospeso ma
destinato a ripristinarsi, sarebbe come la chiamata che un’azienda in Cig fa ai
propri lavoratori, facendo espletare loro attività lavorativa, dal che discende
il ripristino pieno del diritto sinallagmatico alla percezione della
retribuzione connessa. Invece, nel caso dei dirigenti, la disponibilità
richiesta non si accompagna al ripristino della retribuzione: v’è una
disconnessione totale, quindi, del rapporto contrattuale tra datore di lavoro e
lavoratore.
Per
altro, esattamente perché consapevoli di ciò, gli enti locali hanno ottenuto
dal Governo l’impegno a prevedere una modifica al testo della riforma, per
introdurre un “fondo” di solidarietà, volto ad evitare che sia l’ultimo comune
ad aver incaricato il dirigente in disponibilità ad accollarsi il costo
dell’indennità di disponibilità: il che conferma ulteriormente che in via
sostanziale, lo spirare del termine dell’incarico (sia a conclusione del primo
quadriennio senza prolungamento eventuale di due anni, sia all’eventuale sesto
anno) comporti non una sospensione, ma una risoluzione del rapporto di lavoro.
Stando
così le cose, a ben vedere, nel caso del dirigente in disponibilità, visto che
il ruolo non è datore di lavoro, e visto che con l’amministrazione ultima ad
avergli assegnato l’incarico il rapporto di lavoro si è risolto, non è
materialmente possibile il prodursi della cessione del contratto, poiché manca
del tutto il terzo contraente ceduto!
5. Reclutamento pubblico. La riforma, come si dimostra, non regola in alcun modo la successione
degli incarichi alla stregua di una cessione del contratto per mobilità
volontaria. Se così fosse, non vi sarebbe stata la necessità di cancellare l’articolo
23, comma 2, del vigente d.lgs 165/2001, ai sensi del quale “È assicurata la
mobilità dei dirigenti, nei limiti dei posti disponibili, in base all’articolo
30 del presente decreto. I contratti o accordi collettivi nazionali
disciplinano, secondo il criterio della continuità dei rapporti e privilegiando
la libera scelta del dirigente, gli effetti connessi ai trasferimenti e alla
mobilità in generale in ordine al mantenimento del rapporto assicurativo con
l'ente di previdenza, al trattamento di fine rapporto e allo stato giuridico
legato all'anzianità di servizio e al fondo di previdenza complementare. La Presidenza del
Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica cura una banca
dati informatica contenente i dati relativi ai ruoli delle amministrazioni
dello Stato”. Tale norma era ed è di per sé sufficiente ad assicurare
esattamente quella flessibilità e competitività tra dirigenti, obiettivo della
riforma: sarebbe bastato puntellarla, prevedendo, ad esempio, che il ruolo
unico sia una sorta di ranking dei valori dei dirigenti, realizzato però
solo a seguito della fissazione di criteri nazionali univoci di valutazione, da
utilizzare per creare una graduatoria automatica vincolante per ciascuna
amministrazione, ogni qualvolta si desse vita ad una procedura di mobilità
propedeutica ad un concorso pubblico, così da ordinare, senza arbitrio e
discrezionalità, le graduatorie tra quei dirigenti che, di propria volontà e
non perché costretti da una durata transeunte del proprio rapporto di lavoro,
intendano partecipare agli avvisi di mobilità, la quale sarebbe, dunque,
realmente “volontaria” e soggetta al consenso dell’amministrazione ceduta.
Invece,
il complicatissimo ed extra ordinem sistema immaginato dai redattori
della riforma, pur senza affermarlo, trasforma di fatto il rapporto di lavoro
da lavoro a tempo indeterminato (pur qualificato tale) in lavoro a tempo
determinato, nel quale l’effetto della risoluzione del rapporto non dipende
però solo dal conseguimento del termine del rapporto di servizio (durata
dell’incarico), ma anche dall’avverarsi di una condizione: la mancata nuova
assegnazione di un incarico entro i 24 mesi dalla collocazione in
disponibilità.
Così
stando le cose, allora, si evince che l’incarico successivo a quello che già il
dirigente conduce, non essendo mobilità mediante cessione di contratto, è,
allora, necessariamente un altro istituto giuridico.
Non
si può che concludere che si tratti di una vera e propria nuova assunzione. Ciò
vale sia per il dirigente che partecipi agli avvisi in costanza di incarico,
poiché l’attuale datore di lavoro è estromesso dalla possibilità di prestare
consenso alla cessione del contratto, il che rende impossibile la cessione. Ma,
vale a maggior ragione per il dirigente in disponibilità, che partecipa a
procedure finalizzate alla vera e propria costituzione di un rapporto di
lavoro, altrimenti già risolto, ma per 24 mesi tenuto in vita ai soli fini
della permanenza nel ruolo unico.
Dunque,
l’incarico non è, come lo si vorrebbe configurare, atto datoriale di diritto
privato col quale il datore di lavoro sceglie discrezionalmente come e se
valorizzare il dirigente, come avviene nell’ambito della dirigenza sanitaria,
tale per cui la giurisdizione è quella del giudice del lavoro, visto che non si
dà vita ad una procedura selettiva finalizzata alla costituzione di un rapporto
di lavoro nuovo. Al contrario, gli avvisi pubblici finiscono per essere dei
veri e propri atti di attivazione di una altrettanto vera e propria procedura
selettiva pubblica, finalizzata alla costituzione di un nuovo rapporto di
lavoro: una forma diversa e particolare di concorso, una procedura
amministrativa che potrebbe, come tale, allora sottrarsi alla cognizione del
giudice civile e passare, coerentemente, a quella del giudice amministrativo.
Davanti al quale tutti i vizi potenziali di eccesso di potere sottesi alla
discrezionalità senza limiti malamente realizzata dalla riforma potrebbero
essere fatti valere con buone possibilità di accoglimento, sì da rendere di
fatto inapplicabile la riforma.
Non
c’è, purtroppo, a quanto si capisce né il tempo, né la volontà perché ci si
fermi a riflettere su questo, come sugli altri gravissimi problemi e difetti
della riforma. Sarebbe, però, altamente necessario per evitare che essa fallisca,
come certamente avverrà, non solo perché sbagliata nel merito in quanto
finalizzata a costruire una dirigenza politicizzata e partitica, ma anche
perché sbagliata nella sua stessa costruzione giuridica.
Nessun commento:
Posta un commento