Non c’è dubbio che la riforma
della Costituzione fin qui abbia ottenuto l’unico risultato che assolutamente
si doveva evitare: la spaccatura, non di rado livorosa, dell’Italia in due.
Già solo questa evidenza, che
nulla ha di strettamente tecnico giuridico, ma è molto riferita alle dinamiche
sociali e dell’ordinamento giuridico, attesta il fallimento della riforma, sia
che vinca il sì, sia che vinca il no.
La Costituzione dovrebbe essere
il collante ideale di tutto un popolo e frutto, dunque, di un’elaborazione
complessa, difficile, lunga, mirante a coinvolgere il più ampio consenso
possibile delle forze politiche. Questo avvenne con l’Assemblea Costituente.
Questo non avviene più dal 2001, quando le forze di centro-sinistra fecero
passare con una maggioranza di 4 voti la pessima riforma del Titolo V (sono le
stesse forze che, adesso, vogliono modificare il Titolo V da esse riformato 15
anni fa…).
Il risultato sarà che una parte
della popolazione vivrà la Costituzione che sarà in vigore dopo il referendum
necessariamente come un’imposizione, un peso, un giogo. L’unità sociale,
economica e giuridica del Paese è già molto compromessa.
Una riforma di così ampia
portata di quasi un terzo della Costituzione richiedeva che i proponenti e
favorevoli in Parlamento trovassero la maggioranza dei 2/3 e, in caso
contrario, rinunciare, proprio per evitare l’ordalia del referendum e la
spaccatura in atto, su una riforma di portata troppo ampia, troppo complessa,
troppo specialistica per poter essere riassunta e compresa in modo da portare
ad un si o no consapevoli: non possono e non potevano esserci in Italia 60
milioni di costituzionalisti davvero capaci di comprendere i contenuti della
riforma.
Il risultato, quindi, è l’astio
reciproco ed il rilancio di accuse di “falsità” nell’interpretazione della
norma, il tutto fomentato in particolare da una propaganda che, proprio a causa
della complessità della riforma, non ne affronta il merito, ma si limita a
lanciare slogan ad effetto, ma privi di ogni contenuto verificabile, come la
possibilità di curare meglio il cancro.
Vediamo di mettere a confronto
le argomentazioni bellicose maggiormente in voga.
Fronte del sì
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Fronte del no
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Chi vota no è spesso aggressivo e intollerante. Nel merito
ci sono ragioni per il si è ragioni per il no quindi ciascuno merita rispetto
per le proprie scelte.
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I sostenitori del sì sono quelli che più accusano quelli
del no di aggressività.
Non c’è dubbio che tra il no siano presenti forme
polemiche ed astiose.
Certo, però, è che sicuramente fa parte del fronte del sì
un insieme di appartenenti al Governo, che certamente insistono con il
dividere il Paese.
E’, forse, esempio di tolleranza e non aggressività
affermare che il no è “un’accozzaglia” contro il premier? Oppure, dire che i “veri
partigiani” votano sì, mentre gli altri sono come Casa Pound?
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Il fronte del no non guarda al merito: ha altri motivi che
sono di natura politica
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Probabilmente, a non guardare il merito della riforma o,
meglio, a non avere per nulla gli strumenti tecnici per capirne il merito
sono il 99% degli italiani. Il diritto costituzionale non è il calcio o un
rotocalco di gossip: è una materia complicatissima e difficile.
Non c’è dubbio, quindi, che vi siano ragioni solo
politiche nell’una e nell’altra parte.
Del resto, è stato per primo il premier a connotare
politicamente il referendum, legando al suo esito la prosecuzione del suo
mandato.
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In questo momento una crisi di governo sarebbe poco
opportuna
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Questa affermazione è molto utilizzata. Ma, è facile
dimostrare che essa pecca esattamente della politicizzazione del referendum
che quelli del sì accusano a quelli del no.
Se il “merito” del referendum è la Costituzione, allora
parlare di crisi di governo significa addurre motivi ulteriori, diversi,
fuori dal recinto del quesito referendario.
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E’ una menzogna che nell’articolo 117 cambiando la parola “comunitario”
con “Unione Europea”, si diventa succubi dell'Europa. La riforma cambia solo le
parole perchè una volta c’era la Comunità Europea, che adesso si chiama Unione
Europea.
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L’attuale testo dell’articolo 117, comma 1, della
Costituzione è scritto così: “La
potesta` legislativa e` esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto
della Costituzione,nonche´ dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
Come si nota, non si parla affatto di “Comunità Europea”,
bensì di “ordinamento comunitario”. Del resto, questo testo è stato
introdotto nel 2001, quando la Cee da moltissimi anni era divenuta già Unione
Europea.
A seguito della riforma, il testo dell’articolo 11, comma
1, diverrebbe il seguente: “La potestà
legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della
Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea e dagli obblighi internazionali”.
Nel diritto le parole sono importanti, non si tratta di
semplici sinonimi dall’identico valore e peso. Quando si parla di “ordinamento
comunitario”, vuol dire che la potestà legislativa nazionale viene
influenzata da principi generali ordinamentali, con ampia libertà di
traduzione nelle leggi interne. Se, invece, si afferma che le leggi nazionali
sono soggette ai vincoli dell’ordinamento dell’Unione europea, vuol dire che
le normative della UE sono qualificate dalla Costituzione come immediatamente
vincolanti per il legislatore italiano: non c’è più una possibilità di
riferimento ai principi generali.
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Non è vero che i senatori verranno nominati dai partiti.
Se passerà il sì, una futura legge preciserà come eleggere i senatori.
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In effetti, che i senatori saranno nominati dai partiti è
solo una congettura di fatto, non sorretta da una previsione giuridica.
Tuttavia, è errato sostenere che i senatori saranno “eletti”
dai cittadini.
L’articolo 57, comma 2, nel nuovo testo della riforma,
dispone chiaramente: “I Consigli regionali e i Consigli delle
Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono,
con metodo proporzionale, i senatori
tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci
dei Comuni dei rispettivi territori”. Basta soffermarsi su quanto
enfatizzato in grassetto: i consigli regionali eleggono i senatori. Nessuna
legge, a meno di non rivelarsi incostituzionale, potrà mai attribuire ai
cittadini il potere di eleggere i senatori.
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La riforma è solo tecnica, non intacca la prima parte,
quella dei diritti fondamentali dell’uomo.
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Le cose non stanno proprio così. Un solo esempio. L’articolo
1, comma 2, della Costituzione prevede: “La
sovranita` appartiene al popolo,
che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Operando
come prevede la riforma, cioè creando un Senato che non si limiterà affatto
ad interessarsi solo delle norme riguardanti regioni ed enti locali, ma
continuerà ad estendere la propria funzione su tutte le materie possibili,
stabilendo, però, che non siano più i cittadini ad eleggere il Senato
medesimo, si vulnera esattamente proprio il primo articolo della
Costituzione. Infatti, si conculca la sovranità al popolo, impedendogli di
esercitarla con la scelta diretta dei propri rappresentanti in Senato.
La riforma avrebbe dovuto, allora, o abolire del tutto il
Senato, oppure restringerne notevolmente le competenze e renderlo di fatto
qualcosa di simile alla Conferenza Stato-Regioni.
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Il fronte del no sbaglia ad urlarle alla “svolta
autoritaria”. Non si aumentano i poteri del Governo.
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Anche in questo caso occorre dare atto che parlare di
svolta autoritaria è eccessivo.
Ma, non è per nulla corretto sostenere che i poteri del
Governo non aumentino.
In primo luogo c’è un’argomentazione di “fatto”: molti
sostenitori del sì ritengono giusta la riforma perché consente la “governabilità”.
E come potrebbe mai garantirsi una maggiore “governabilità” se non si
rafforza il Governo?
Andando al contenuto della riforma, essa lascia intatto il
potere del Governo di adottare decreti legge. Sappiamo bene come negli ultimi
30 anni, nonostante i piagnistei sulla “scarsa governabilità” il Governo
abbia di fatto preso il sopravvento sul Parlamento aumentando
parossisticamente il numero dei decreti, spesso accompagnandoli col voto di
fiducia, paralizzando di fatto l’azione di iniziativa legislativa
parlamentare.
La riforma aggiungerà a questo potere di decretazione d’urgenza,
un ulteriore immenso potere: “il Governo
può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni
dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per
l'attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all'ordine
del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei
deputati entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione”. Non
sarà, quindi, nemmeno più necessario che ricorrano casi di urgenza, come
previsto per i decreti-legge, perché il Governo paralizzi il lavoro del
Parlamento: sarà semplicissimo qualificare le leggi come essenziali per il
programma e trasformare il Parlamento da sede di formazione della volontà
politica in mero ratificatore di scelte normative del Governo. Il potere dell’esecutivo,
dunque, cresce a dismisura.
Ah! Negli Usa, presi sempre a modello di efficienza e
governabilità, l’Esecutivo, cioè il Presidente, non dispone dell’iniziativa
di presentare leggi in Parlamento (vedi qui).
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Il no vuole conservare la situazione unica al mondo dell’Italia,
col suo bicameralismo paritario.
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Per eliminare il bicameralismo paritario bastava eliminare
il Senato. Comunque, sarebbe opportuno che i sostenitori del sì, ferma
rimanendo la loro legittima convinzione di voto, prendano atto che il
bicameralismo paritario in altri stati esiste. Ad esempio, negli Usa (vedi qui)
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Insigni costituzionalisti alla Costituente erano
fortemente avversi al bicameralismo perfetto, tra cui Calamandrei
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Queste affermazioni dovrebbero essere corroborate dalla
prova che i richiamati insigni costituzionalisti all’epoca della Costituente
votarono contro la Costituzione.
L’esito finale della votazione fu:
Presenti e votanti............ 515
Maggioranza................... 258
Voti favorevoli............... 453
Voti contrari.................... 62.
Dunque, o si dà la prova che Calamandrei o altri
protagonisti della materiale scrittura fecero parte dei 62 che votarono
contro, oppure questa argomentazione sarebbe delicato non proporla nemmeno.
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Le do ragione che non è corretto chiedere al popolo una modifica della costituzione così articolata. La maggior parte dei voti, sia per il si, sia per il no, sono stati espressi senza sapere di cosa si tratta.
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