Non è il lavoro accessorio, noto
come voucher, di per sé né l’origine di tutti i mali del mercato del lavoro in
Italia, né uno strumento in linea astratta il cui fine è la precarizzazione del
lavoro. Il problema consiste nell’utilizzo e nel fine concreto perseguito.
Certo, occorre sottolineare che,
contrariamente a quanto affermato da gran parte degli osservatori in questi
giorni, è stato proprio il cosiddetto Jobs Act, con l’articolo 48 del d.lgs
81/2015 a disporre la liberalizzazione più spinta possibile dell’utilizzo del
lavoro accessorio.
Vediamo nella tabella che segue
l’evoluzione normativa dell’istituto, per dimostrare la progressiva
liberalizzazione fino al punto estremo vigente oggi:
Articolo 70 d.lgs 276/2003 – testo originario
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Articolo 70 d.lgs 276/2003 – testo dell’ultima
modifica prima dell’abolizione
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Articolo 48 d.lgs 81/2015
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1. Per
prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative di natura meramente occasionale rese da
soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel
mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne, nell’ambito:
a) dei
piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa la assistenza
domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con handicap;
b)
dell’insegnamento privato supplementare;
c) dei
piccoli lavori di giardinaggio, nonché di pulizia a manutenzione di edifici e
monumenti;
d) della
realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli;
e) della
collaborazione con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo
svolgimento di lavori di emergenza, come quelli dovuti a calamità o eventi
naturali improvvisi o di solidarietà.
2. Le
attività lavorative di cui al comma 1, anche se svolte a favore di più
beneficiari, configurano rapporti di natura meramente occasionale e
accessoria, intendendosi per tali le attività che coinvolgono il lavoratore
per una durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno
solare e che, in ogni caso, non fanno complessivamente luogo a compensi
superiori a 3 mila euro sempre nel corso di un anno solare.
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1. Per
prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative che non
danno luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi
superiori a 5.000 euro nel corso
di un anno solare, annualmente rivalutati sulla base della variazione
dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati intercorsa nell'anno precedente.
Fermo restando il limite complessivo di 5.000
euro nel corso di un anno solare, nei confronti dei committenti imprenditori
commerciali o professionisti, le attività lavorative di cui al presente comma
possono essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi
non superiori a 2.000 euro, rivalutati annualmente ai sensi del presente
comma. Per gli anni 2013 e 2014,
prestazioni di lavoro accessorio possono essere altresì rese, in tutti i
settori produttivi, compresi gli enti locali, fermo restando quanto previsto
dal comma 3 e nel limite massimo di 3.000 euro di corrispettivo per anno
solare, da percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al
reddito. L'INPS provvede a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa
alle prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito gli
accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni di lavoro accessorio.
2. Le
disposizioni di cui al comma 1 si applicano in agricoltura:
a) alle
attività lavorative di natura occasionale rese nell'ambito delle attività
agricole di carattere stagionale effettuate da pensionati e da giovani con
meno di venticinque anni di età se regolarmente iscritti a un ciclo di studi
presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente
con gli impegni scolastici, ovvero in qualunque periodo dell'anno se
regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l'università;
b) alle
attività agricole svolte a favore di soggetti di cui all'articolo 34, comma
6, del decreto del Presidente della Repubblica
3. Il ricorso
a prestazioni di lavoro accessorio da parte di un committente pubblico è
consentito nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in
materia di contenimento delle spese di personale e, ove previsto, dal patto
di stabilità interno.
4. I compensi
percepiti dal lavoratore secondo le modalità di cui all'articolo 72 sono
computati ai fini della determinazione del reddito necessario per il rilascio
o il rinnovo del permesso di soggiorno.
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1. Per
prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative che non
danno luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi
superiori a 7.000 euro nel corso di un anno civile, annualmente rivalutati
sulla base della variazione dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per le
famiglie degli operai e degli impiegati. Fermo restando il limite complessivo
di 7.000 euro, nei confronti dei committenti imprenditori o professionisti,
le attività lavorative possono essere svolte a favore di ciascun singolo
committente per compensi non superiori a 2.000 euro, rivalutati annualmente
ai sensi del presente comma.
2. Prestazioni
di lavoro accessorio possono essere altresì rese, in tutti i settori
produttivi, compresi gli enti locali, nel limite complessivo di 3.000 euro di
compenso per anno civile, rivalutati ai sensi del comma 1, da percettori di
prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito. L'INPS provvede
a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle prestazioni
integrative del salario o di sostegno al reddito gli accrediti contributivi
derivanti dalle prestazioni di lavoro accessorio.
3. Le
disposizioni di cui al comma 1 si applicano in agricoltura:
a) alle
attività lavorative di natura occasionale rese nell'ambito delle attività
agricole di carattere stagionale effettuate da pensionati e da giovani con
meno di venticinque anni di età se regolarmente iscritti a un ciclo di studi
presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente
con gli impegni scolastici, ovvero in qualunque periodo dell'anno se
regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l'università;
b) alle
attività agricole svolte a favore di soggetti di cui all'articolo 34, comma
6, del decreto del Presidente della Repubblica
4. Il ricorso
a prestazioni di lavoro accessorio da parte di un committente pubblico è
consentito nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in
materia di contenimento delle spese di personale e, ove previsto, dal patto
di stabilità interno.
5. I compensi
percepiti dal lavoratore secondo le modalità di cui all'articolo 49 sono
computati ai fini della determinazione del reddito necessario per il rilascio
o il rinnovo del permesso di soggiorno.
6. E' vietato
il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio nell'ambito dell'esecuzione di
appalti di opere o servizi, fatte salve le specifiche ipotesi individuate con
decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sentite le parti
sociali, da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del
presente decreto.
7. Resta fermo
quanto disposto dall'articolo 36 del decreto legislativo n. 165 del 2001.
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Si nota molto facilmente che il
lavoro accessorio passa da uno strumento straordinario di avvicinamento al lavoro
per categorie di soggetti lontani dal mercato[1],
ad una disciplina aperta ad ogni settore produttivo, a qualsiasi tipo di datore
di lavoro e a qualsiasi tipologia di destinatario-lavoratore, con una crescita
progressiva del tetto annuo dei compensi percepibili.
Nella sostanza, attualmente il
lavoro accessorio finisce per sostituire:
1)
sia le
mini collaborazioni coordinate e continuative, regolate nel previgente
ordinamento dall’articolo 61, comma 2, del d.lgs 276/2003, come “prestazioni
occasionali”, intendosi per tali rapporti di durata complessiva non superiore a
trenta giorni nel corso dell'anno solare[2]
con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel
medesimo anno solare sia superiore a 5 mila euro;
2)
sia le
vere e proprie collaborazioni coordinate e continuative, se come tali si
intendano prestazioni non occasionali e, dunque, di durata prolungata,
superiore al limite di 30 giorni fissato dal precedente ordinamento.
Poiché l’articolo 1 del d.lgs
81/2015 ha introdotto indicatori molto rigorosi per ricondurre le co.co.co. a
vere e proprie prestazioni di collaborazione autonoma, utilizzare il lavoro
accessorio al posto delle co.co.co. può rivelarsi molto utile per evitare di
incorrere nell’eventuale sanzione “reale” della trasformazione del rapporto in
lavoro subordinato.
Inoltre, l’utilizzo del lavoro
accessorio, se male applicato, può anche condurre alla conseguenza della
riduzione molto forte non solo degli oneri “burocratici” connessi alla
sottoscrizione di contratti di lavoro, ma anche degli oneri economici. Infatti,
si tende a far coincidere il valore del voucher, 10 euro lordi (dei quali 1,3
euro come versamento contributi all’Inps, 0,7 euro come assicurazione Inail e
0,5 euro come rimborso spese al concessionario), cioè 7,5 euro netti, con il
compenso orario della prestazione prevista.
Si tratta di un travisamento. Il
voucher è sia un sistema di regolazione del rapporto di lavoro, sia un mezzo di
pagamento: non è affatto, invece, la determinazione del costo orario della prestazione.
Se un’attività prevista normalmente nel mercato come collaborazione tra
committente e prestatore fosse stata fissata in 15 euro netti l’ora, le parti,
accordandosi per un pagamento mediante voucher dovrebbero prevedere che ogni
ora venga retribuita con due buoni, mantenendo il valore di 15 euro orari.
Spessissimo, invece, non avviene
così: il valore facciale del voucher viene fatto coincidere con il pagamento
dell’ora di lavoro.
Qui cominciamo a vedere i difetti
molto gravi nell’impiego dei voucher da parte delle amministrazioni pubbliche,
come nel cattivo esempio dato dal comune di Torino, nell’ambito del progetto
“Giovani per l’integrazione”.
L’articolo 3 del bando
dell’iniziativa evidenzia i compiti dei soggetti coinvolti, che verranno pagati
appunto con voucher:
“I prestatori di lavoro accessorio individuati a seguito del presente
avviso svolgeranno principalmente la propria attività nei seguenti ambiti:
-
accoglienza, orientamento e prima
informazione agli utenti di uffici e sportelli pubblici (Ufficio Immigrazione
della Questura di Torino e altri uffici della Città di Torino);
-
affiancamento ai dipendenti pubblici per
comunicare con l’utenza straniera e superare le difficoltà nel far comprendere
i contenuti linguistici e le procedure;
-
diffusione ampia ed aggiornata delle
informazioni riguardanti i servizi offerti sul territorio cittadino,
utilizzando anche la guida Torino è la mia città”.
Come si nota, si tratta di
attività lavorative qualificabili come straordinarie, sì, dal momento che fanno
parte di un progetto di durata limitata; manca, tuttavia, il requisito
dell’occasionalità “mera”, comunque non più richiesta dalla normativa, dal
momento che le prestazioni sono certamente continuative e ripetitive.
Lo conferma il successivo
articolo 4 del bando: “L’orario di
lavoro, da svolgersi esclusivamente presso la sede assegnata, sarà definito dal
coordinatore del progetto secondo le esigenze di servizio e sarà
orientativamente di 4 ore giornaliere da effettuarsi nella fascia oraria
mattutina o pomeridiana, fino al raggiungimento di un tetto massimo di 500 ore”.
E’ semplicissimo notare che:
1) si parla di “orario di lavoro” da prestare;
2) di “esigenze di servizio”;
3) di limite orario giornaliero (anche se
flessibile) entro fasce orarie.
Se il tutto fosse disciplinato
mediante co.co.co. e se il decreto “mille proroghe” non avesse rinviato
l’applicazione alle PA dell’articolo 2 del d.lgs 81/2015, si rientrerebbe
facilmente in un’ipotesi di collaborazione che dissimula un rapporto di lavoro
subordinato, consistenti, ai sensi dell’articolo 2, comma 1, citato in “rapporti di collaborazione che si concretano
in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui
modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento
ai tempi e al luogo di lavoro”.
Possiamo, quindi, trovare
conferma nell’osservazione proposta sopra: la disciplina “liberalizzata” del
lavoro accessorio si ponga come alternativa piena alle collaborazioni,
sollevando i committenti dai rischi connessi alla regolazione delle prestazioni
come co.co.co.. Se, attualmente, questo alle PA non è utile, visto che potranno
ancora per il 2017 utilizzare le “vecchie” co.co.co., ciò si può rivelare
utilissimo nel lavoro privato, qualora la collaborazione prevista rimanga contenuta
entro i tetti massimi di percezione dei compensi previsti dalla norma.
Ovviamente, poiché il tetto
massimo comunque non potrebbe superare i 7.000 euro, la spinga verso il dumping dei compensi è molto forte.
Teoricamente, un rapporto di collaborazione regolato con voucher, sulla base
della rappresentazione erronea che il valore del voucher corrisponda al costo
orario, può comportare una collaborazione continuativa tra committente e
prestatore di ben 700 ore l’anno: quasi un part-ime al 50%.
Il progetto del comune di Torino
non è lontanissimo da questi valori, perché, come visto sopra, prevede un
limite annuo di 500 ore, poco meno di un terzo della prestazione lavorativa
prevista dai contratti collettivi.
L’articolo 5 del bando del comune
chiarisce: “Il prestatore sarà retribuito
attraverso buoni lavoro (voucher) per un valore netto massimo di 3.750,00 euro
per 500 ore di prestazione effettuata”. Poiché 500 ore moltiplicate per 7,5
euro netti a voucher dà, come risultato, 3.750 euro, si ha la riprova che il progetto
considera la prestazione lavorativa del valore orario appunto di 7,5 euro, con
la corrispondenza piena tra valore facciale del voucher e costo orario.
Osserviamo, ora, alcuni dei
requisiti professionali richiesti dal bando in capo ai candidati:
- avere una buona conoscenza parlata e scritta della lingua italiana;
- avere una buona conoscenza parlata e
scritta della lingua araba, ovvero della lingua cinese, ovvero di ambedue le
lingue inglese e francese.
Date le prestazioni richieste e
le competenze previste, le “mansioni” assegnate dal progetto possono facilmente
farsi rientrare in quelle proprie della categoria B[3]
dei dipendenti degli enti locali.
Rifacendosi ai parametri
tabellari e contrattuali, se il comune di Torino assumesse i mediatori culturali
inquadrandoli nella categoria che più pare adeguata, vista la necessità di
conoscere le lingue e di relazionarsi col pubblico, cioè la categoria di
ingresso nella posizione economica B3, il costo orario lordo sarebbe di circa
14 euro e quello netto di circa 10 euro. Di poco inferiori gli oneri, se
l’inquadramento fosse nella posizione economica B1: lordo 13,25, netto 9,45.
L’effetto “dumping” è evidente.
Se si applicassero i costi orari contrattuali, il tetto massimo netto sarebbe
di euro 4.725 o di euro 5.000
a seconda del tipo di inquadramento.
C’è da chiedersi: l’utilizzo del
lavoro accessorio, specie se riferito a prestazioni per le quali il datore
richiede un impegno continuativo e dispone di un forte potere organizzativo
sostanzialmente pari a quello del lavoro subordinato, giustifica non solo il
mezzo, il lavoro accessorio, ma, soprattutto, una forte riduzione della
retribuzione che spetterebbe se si utilizzasse il contratto di lavoro
subordinato?
Poniamo attenzione ad un altro
aspetto: il comma 7 dell’articolo 48 del d.lgs 81/2015 dispone, con indicazione
pleonastica ma tutto sommato utile, che “Resta fermo quanto disposto
dall'articolo 36 del decreto legislativo n. 165 del 2001” . In particolare, poiché
il lavoro accessorio è certamente una forma di lavoro flessibile, si applica il
disposto iniziale del comma 2: “Per
rispondere ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale le
amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili
di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle
leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, nel rispetto delle
procedure di reclutamento vigenti”.
Nulla impedirebbe, allora, al
comune di Torino di regolare le prestazioni richieste mediante contratto di
lavoro subordinato a tempo determinato: infatti, l’esigenza cui fare fronte ha
carattere sicuramente temporaneo, tale da giustificare l’impiego (nella PA il
contratto a tempo determinato è rimasto “causale”, soggetto alle
giustificazioni richieste proprio dall’articolo 36, comma 2, del d.lgs
165/2001).
Allora, essendo possibile per il
comune attivare la prestazione mediante contratto a tempo determinato, che ben
può essere previsto con un part-time di 4 ore al giorno, resta da comprendere
il perché della scelta del lavoro accessorio.
Il bando del comune riserva lo
svolgimento delle attività previste a chi rientri in una fascia ISEE
(indicatore della situazione economica equivalente) non superiore a 25.000
euro, verificata attraverso attestazione ISEE in corso di validità. Sembra,
dunque, che il comune abbia inteso utilizzare il progetto anche per avvicinare
al lavoro persone con uno specifico svantaggio economico. Ma, se si fosse
attivata un’assunzione a tempo determinato per la categoria B1, indubbiamente
questo risultato sarebbe stato ottenuto, poiché vi sarebbe stato un avviamento
da parte dei servizi per il lavoro, utilizzando il sistema dell’articolo 16
della legge 56/1987, la cui applicazione prevede anche il punteggio Isee.
In ogni caso, la “liberalizzazione”
dell’istituto apportata dal 2012
in poi, fa sì che i voucher non rispondano più al fine
inizialmente previsto di creare opportunità reddituali e di incremento della
spendibilità nel mercato del lavoro per categorie particolarmente svantaggiate.
Il bando del comune crea, dunque,
un mixage poco convincente tra politiche attive del lavoro a scopi
sostanzialmente di sostegno al reddito, ed utilizzo di attività lavorative
coordinate e continuative, che potrebbero benissimo essere regolate da contratti
di lavoro subordinato.
Il tutto, col rischio di creare
un “cattivo” precariato. Sia per l’effetto di dumping sul costo orario, sia
perché in ogni caso per i lavoratori interessati non può crearsi alcuna
prospettiva di trasformazione del rapporto in lavoro subordinato a tempo
indeterminato, dal momento che sempre l’articolo 36 del d.lgs 165/2001 vieta
inderogabilmente che lavori flessibili nella PA possano convertirsi in lavoro a
tempo indeterminato.
Progetti come quelli del comune
di Torino, che sotto forme diverse si vanno diffondendo sempre più negli enti
locali, rischiano di creare sacche progressivamente sempre più diffuse di
“precariato” in un ambito, quello del lavoro pubblico, nel quale ciò è vietato
in linea di principio. Torniamo all’articolo 36, comma 2, del d.lgs 165/2001:
il penultimo periodo di tale norma dispone che “Per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel
rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a
tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie
vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato”. Come si nota, si
enuncia un fine molto preciso: prevenire proprio il precariato, imponendo
addirittura di costituire rapporti di lavoro a termine attingendo a graduatorie
per rapporti di lavoro a tempo indeterminato, così da non far insorgere
aspettative ingiustificate nei lavoratori.
Alla luce di questa norma, che ai
sensi dell’articolo 48, comma 7, del d.lgs 81/2015, “resta ferma”, pare assai
discutibile che possano attivarsi attività di lavoro accessorio per quasi un
terzo dell’impiego orario nel comparto e per lo svolgimento di attività
rientranti in profili e mansioni regolati dalla contrattazione collettiva: il
tutto indirettamente, certamente involontariamente, conduce ad un aggiramento
delle regole di contenimento del precariato.
Ma, se l’applicazione di una
norma porta anche solo indirettamente alla vanificazione dei fini complessivi
della disciplina ordinamentale della quale tale norma fa parte, è evidente che
se ne sta dando un’attuazione fuorviante.
Proprio le previsioni
dell’articolo 36 del d.lgs 165/2001, che restano ferme ed obbligatorie nella
PA, dovrebbero lasciar propendere per un utilizzo dei voucher molto ristretto,
molto più vicino a scopi e destinatari propri dell’originaria formulazione
dell’articolo 70 del d.lgs 276/2003. Un impiego estremamente contenuto e per
attività molto semplici e non continuative (con anche limitate esigenze di
coordinamento) può anche essere connesso ad una politica attiva del lavoro,
tale da far considerare il pagamento del voucher non come una vera e propria
retribuzione sinallagmatica, bensì come intervento di sostegno al reddito.
Se, invece, si configura il
voucher come determinazione del costo orario di una prestazione continuativa
nel tempo, con forte integrazione nell’attività ordinaria degli uffici,
determinazione di un orario di lavoro e penetrante coordinamento del datore,
l’elusione delle regole appare evidente, come inevitabile è l’effetto di
contenimento forzoso del costo del lavoro.
Proprio questi appaiono gli
elementi di criticità del lavoro accessorio, che, come si nota, dipendono più
dal modo col quale ad esso si fa ricorso, più che dalla norma che li regola.
Certo, se si tornasse
all’originaria stesura della legge Biagi, magari aggiornata e rivista a
distanza dei quasi 14 anni trascorsi, l’opera di razionalizzazione
dell’utilizzo dei voucher e di contenimento del rischio di un loro improprio
utilizzo risulterebbe più semplice.
Luigi Oliveri
[1] Il testo originario
dell’articolo 71 del d.lgs 276/2003 stabiliva che potevano svolgere attività di
lavoro accessorio:
a) disoccupati
da oltre un anno;
b) casalinghe,
studenti e pensionati;
c) disabili e
soggetti in comunità di recupero;
d) lavoratori
extracomunitari, regolarmente soggiornanti in Italia, nei sei mesi successivi
alla perdita del lavoro.
Questo articolo era stato abrogato dall'articolo 22,
comma 4, del d.l. 112/2008, convertito, con modificazioni, dalla legge
133/2008.
[2] Nell’ambito dei servizi di
cura e assistenza alla persona, si prevedeva un limite non superiore a 240 ore
annue, a seguito dell’articolo 48, comma 7, della legge 183/2010.
[3] Si riporta la descrizione
del profilo e delle mansioni per i dipendenti ascritti alla categoria B dal Ccnl
31.3.1999 :
CATEGORIA B
Appartengono a questa categoria i lavoratori che
svolgono attività caratterizzate da :
* Buone conoscenze specialistiche (la base teorica di
conoscenze è acquisibile con la scuola dell’obbligo generalmente accompagnato
da corsi di formazione specialistici) ed un grado di esperienza discreto;
* Contenuto di tipo operativo con responsabilità di
risultati parziali rispetto a più ampi processi produttivi/amministrativi;
* Discreta complessità dei problemi da affrontare e
discreta ampiezza delle soluzioni possibili;
* Relazioni organizzative interne di tipo semplice
anche tra più soggetti interagenti, relazioni esterne (con altre istituzioni)
di tipo indiretto e formale.
* Relazioni con gli utenti di natura diretta.
Esemplificazione dei profili:
* lavoratore che nel campo amministrativo provvede
alla redazione di atti e provvedimenti utilizzando il software grafico, fogli
elettronici e sistemi di videoscrittura nonché alla spedizione di fax e
telefax, alla gestione della posta in arrivo e in partenza. Collabora, inoltre,
alla gestione degli archivi e degli schedari ed all’organizzazione di viaggi e
riunioni.
* lavoratore che provvede alla esecuzione di
operazioni tecnico manuali di tipo specialistico quali l’installazione,
conduzione e riparazione di impianti complessi o che richiedono specifica
abilitazione o patente. Coordina dal punto di vista operativo altro personale
addetto all’impianto.
* lavoratore che esegue interventi di tipo risolutivo
sull’intera gamma di apparecchiature degli impianti, effettuando in casi
complessi diagnosi, impostazione e preparazione dei lavori.
Appartengono, ad esempio, alla categoria i seguenti
profili: lavoratore addetto alla cucina, addetto all’archivio, operatori CED,
conduttore di macchine complesse (scuolabus, macchine operatrici che richiedono
specifiche abilitazioni o patenti), operaio professionale, operatore socio
assistenziale.
Ai sensi dell’art. 3, comma 7, per i profili
professionali che, secondo la disciplina del DPR 347/83 come integrato dal DPR
333/90, potevano essere ascritti alla V qualifica funzionale, il trattamento
tabellare iniziale è fissato nella posizione economica B3.
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