Che le “raccomandazioni
vincolanti” previste dall’articolo 211, comma 2, del codice dei contratti fossero
un istituto ad altissimo sospetto di illegittimità di vario tipo era abbastanza
chiaro.
Residui eventuali dubbi sono
stati eliminati dal parere
del Consiglio di stato comm. spec., 28 dicembre 2016, n. 2777: Palazzo
Spada ha letteralmente fatto a pezzi lo schema di regolamento in materia di
attività di vigilanza sui contratti pubblici di cui all’art. 211, comma 2, e
213 del decreto legislativo 18 aprile 2016 , n. 50, sottopostogli dall’Anac e, con
esso, lo stesso articolo 211, comma 2, che l’Anac stessa ha contribuito ad
introdurre nel testo del codice.
Non ci si sofferma qui a
commentare i condivisibili e circostanziati, oltre che numerosissimi, rilievi
esposti dal Consiglio di stato. Ci si limita a ricordare tre dei più rilevanti:
1)
la
procedura attuativa delle “raccomandazioni vincolanti” immaginata dall’Anac
richiede un tempo di 390 giorni, se non oltre;
2)
l’articolo
211, comma 2, del codice rischia di introdurre l’inusitata categoria della “responsabilità
da fatto lecito”;
3)
il
sistema espone tutti gli appalti ad esposti artati di chi abbia tutto l’interesse
a scatenare polveroni sulle procedure di gara, col rischio di incrementare all’infinito
il contenzioso.
Se qualcuno era realmente
convinto che il codice dei contratti è davvero in grado di semplificare le
procedure di gara, eliminare il contenzioso e rilanciare gli appalti, il
Consiglio di stato elimina ogni residua incertezza: man mano che prosegue l’attuazione
della riforma degli appalti, si rendono sempre più evidenti le tantissime,
troppe disfunzioni che porta con sé, alle quali sarebbe necessario porre un
rimedio radicale, col ripensamento profondo di molte parti del nuovo codice.
Una delle necessità prioritarie
appare proprio quella di modificare radicalmente ruolo e funzioni dell’Anac,
eliminando drasticamente dall’ordinamento giuridico la cosiddetta “soft law”. Tra
linee guida, regolamenti dell’Anac, comunicati del Presidente e vari altri modi
con i quali l’Autorità incide sull’ordinamento, il quadro complessivo delle
norme si sta complicando moltissimo, anche per la non felicissima modalità di
redazione in particolare delle linee guida, il cui periodare organizzato non
per articoli e precetti, ma attraverso una prova troppo spesso infarcita di
periodi al condizionale con contenuti probabilistici, produce l’effetto di “guidare”
ben poco, così accrescendo i già troppi margini di incertezza operativa ed
applicativa.
Le “raccomandazioni vincolanti”,
vero e proprio ossimoro[1] e
paradosso giuridico: una raccomandazione però obbligatoria, tanto che, se non
rispettata, produce l’applicazione di una gravosa sanzione amministrativa.
Ecco, infatti, quanto dispone l’articolo
211, comma 2, del codice dei contratti: “Qualora
l’ANAC, nell’esercizio delle proprie funzioni, ritenga sussistente un vizio di
legittimità in uno degli atti della procedura di gara invita mediante atto di
raccomandazione la stazione appaltante ad agire in autotutela e a rimuovere
altresì gli eventuali effetti degli atti illegittimi, entro un termine non
superiore a sessanta giorni. Il mancato adeguamento della stazione appaltante
alla raccomandazione vincolante dell’Autorità entro il termine fissato è punito
con la sanzione amministrativa pecuniaria entro il limite minimo di euro 250 e
il limite massimo di euro 25.000, posta a carico del dirigente responsabile. La
sanzione incide altresì sul sistema reputazionale delle stazioni appaltanti, di
cui all’articolo 36 (sarebbe da intendere l’articolo 38 nda) del presente codice. La raccomandazione è
impugnabile innanzi ai competenti organi della giustizia amministrativa ai
sensi dell'articolo 120 del codice del processo amministrativo”.
E’ opportuno riportare qui uno
stralcio del parere del Consiglio di stato, riferito proprio all’articolo 211,
comma 2, per comprendere quanto sia extra
ordinem la previsione ivi contenuta: “5.2.
Quello delle raccomandazioni vincolanti è un istituto nuovo, di difficile inquadramento nel nostro sistema.
Questo Consiglio di Stato, nel parere n. 855 del 2016, ha già espresso
motivate riserve sull’introduzione del nuovo istituto,
segnalandone la natura di «annullamento
mascherato», non facilmente compatibile con il riparto delle competenze
riconosciute alle singole amministrazioni e con il sistema delle autonomie, e
ne ha evidenziato in particolare l’anomalia della portata effettuale, sul piano
della ragionevolezza e della presunzione di legittimità degli atti
amministrativi sino a loro annullamento, in quanto la sanzione amministrativa, prevista dall’art. 211, comma 2, del codice
colpisce il rifiuto di autotutela e, cioè, un provvedimento di cui deve
presumersi la legittimità, sino a prova contraria, quasi a prefigurare una
inedita «responsabilità da atto legittimo».
Nel medesimo parere la
Commissione speciale ha raccomandato al legislatore una
formulazione della disposizione in chiave di vigilanza collaborativa – pure
prevista, in via generale, dall’art. 213 del codice – non dissimile da quella
prevista dall’art. 21-bis della l. n. 287 del 1990 per l’Antitrust, compatibile
con i principî fissati dalla Costituzione e con i limiti della legge delega,
che nella lettera t) parla di «controllo» al fine di giustificare il potere
dell’ANAC, usando una nozione coincidente con la qualificazione adoperata dal
giudice delle leggi con riguardo alla legittimazione conferita dall’art. 21-bis
all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Corte cost., 14 febbraio 2013 ,
n. 20).
Il legislatore ha tuttavia mantenuto la previsione originaria, che
conferisce all’ANAC il potere di incidere, con efficacia vincolante, sulla
legittimità degli atti di gara, secondo una nozione dinamica della vigilanza
che, come ricorda la relazione illustrativa dell’ANAC (p. 1), sfocia in un provvedimento
incidente sull’assetto degli interessi, che «è stato interpretato quale atto di
amministrazione attiva, ovvero diretto a soddisfare un interesse della pubblica
amministrazione».
5.3. Questa Commissione deve ribadire le criticità già evidenziate nel
precedente parere ed evidenziarne di ulteriori che emergono dalla concreta
attuazione dell’istituto.
5.3.1. In primo luogo, la legge delega – l. n. 11 del 2016 – al comma
1, lett. t), ha previsto l’attribuzione all’ANAC «di più ampie funzioni di
promozione dell’efficienza, di sostegno allo sviluppo delle migliori pratiche,
di facilitazione allo scambio di informazioni tra stazioni appaltanti e di
vigilanza nel settore degli appalti pubblici e dei contratti di concessione,
comprendenti anche poteri di controllo, raccomandazione, intervento cautelare,
di deterrenza e sanzionatorio».
La lett. t) viene evidentemente considerata la base fondante del potere
di raccomandazione vincolante.
Si può tuttavia dubitare che la
legge delega, pur nella sua generica formulazione, abbia concepito il potere di
“raccomandazione” come una forma, anche indiretta, di annullamento
d’ufficio ed abbia consentito, quindi, di introdurre una nuova fattispecie di
autotutela doverosa, dai connotati peculiari, come meglio si dirà nel § 6.
Al riguardo, infatti, non si può trascurare il principio generale che
vige in materia di annullamento d’ufficio e, cioè, che il relativo potere, come
prevede l’art. 21-nonies, comma 1, della l. n. 241 del 1990, può essere
esercitato solo «dall’organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge», mentre la legge
delega non contiene alcuna espressa attribuzione all’ANAC di un sostanziale
potere di annullamento, seppure nella forma della “raccomandazione vincolante”.
5.3.2. In secondo luogo, suscita perplessità la stessa collocazione del
potere di raccomandazione vincolante nell’ambito di un articolo – il 211 –
rubricato «pareri di precontenzioso», perché il nuovo istituto delle
raccomandazioni vincolanti di cui al comma 2 è differente, per finalità,
presupposti ed effetti, dal parere di precontenzioso di cui al comma 1. Lo
stesso rapporto tra i due istituti, nell’applicazione pratica, genera problemi
di coordinamento (come si vedrà, infra, § 8.2).
5.3.3. In terzo luogo, la raccomandazione vincolante si inserisce in
una fattispecie complessa, a formazione progressiva, che culmina nell’esercizio di un’autotutela doverosa,
che deve tuttavia essere ricondotta al paradigma generale dell’art. 21-nonies
della l. 241 del 1990 se si vuole preservarne, al di là delle criticità di
fondo sopra evidenziate, la coerenza con l’ordinamento nel suo complesso.
Il legislatore delegato, nell’assenza di una disposizione di delega
inequivocabilmente attributiva all’ANAC, sul piano sostanziale, del potere di
annullamento d’ufficio, ha attuato solo in parte il suo disegno innovatore, facendo della “raccomandazione vincolante”
– quasi un ossimoro – il motore della revisione, ma mantenendone in capo alle
singole stazioni appaltanti il veicolo formale, attraverso l’emanazione
dell’atto conclusivo di tale inedita sequenza procedimentale”.
Detto in altri termini, più
pedestri, l’articolo 211, comma 2, fa dell’Anac e dei poteri da questa
esercitati, un miscuglio giuridico informe. Molto efficace è il parere di
Palazzo Spada quando parla di “annullamento mascherato”. Nella sostanza,
infatti, per effetto dell’articolo 211, comma 2, si può affermare che:
1) si assegna all’Anac una vera e propria
funzione di controllo di legittimità sugli atti;
2) tale funzione di controllo, tuttavia, risulta
solo eventuale: attivabile d’ufficio dall’Anac stessa, oppure su esposti
presentabili (secondo lo schema di regolamento pesantemente censurato da
Palazzo Spada) non solo dagli operatori economici interessati alla gara, ma
sostanzialmente da qualsiasi soggetto, anche associativo, interessato; tuttavia,
una funzione di controllo dovrebbe riguardare o tutte le procedure, oppure
dovrebbe essere realizzata sulla base di un campione estratto con criteri
predeterminati;
3) si tratta di un controllo successivo e non
preventivo: infatti, l’iniziativa dell’Anac volta ad ottenere dall’amministrazione
il provvedimento di annullamento in autotutela giungerà su un provvedimento già
adottato ed efficace; ma, controlli di tale natura dovrebbero precedere l’adozione
dell’atto, allo scopo di scongiurare le possibili violazioni alle norme sull’anticorruzione
ed il conflitto di interessi e limitare il contenzioso;
4) l’Anac non assume, comunque, il ruolo di ente
competente all’esercizio di una funzione amministrativa di controllo; rimane
nella propria posizione di “autorità indipendente”, che adotta atti di imperio
e non provvedimenti di controllo veri e propri;
5) infatti, l’Anac non adotta né provvedimenti
di “visto” favorevole, né di annullamento diretto, come farebbe un vero e
proprio organismo di controllo, ma “invita”, con la propria raccomandazione, la
stazione appaltante ad agire in autotutela e a rimuovere altresì gli eventuali
effetti degli atti illegittimi, entro un termine non superiore a sessanta
giorni;
6) pertanto, l’annullamento dell’atto deve
essere posto in essere dalla medesima stazione appaltante e non dall’Anac; ecco
perché il Consiglio di stato parla di “annullamento mascherato”, intendendo
come tale l’esercizio di una vera e propria funzione di controllo, tuttavia
posto in essere non dall’ente controllante, ma da quello controllato;
7) il quale ente soggetto al controllo spurio,
per altro, lungi dall’essere “invitato” a rimuovere l’atto dalla “raccomandazione”
è praticamente obbligato: non a caso si parla di raccomandazione “vincolante”;
8) la norma non prevede alcuna possibilità, per
l’ente, di discostarsi con una congrua motivazione dalla “raccomandazione” dell’Anac;
9) l’unico sistema assegnato alla stazione
appaltante per mettere in discussione la raccomandazione dell’Anac è impugnarlo
davanti al Tar; per altro, come nota il Consiglio di stato, per l’impugnazione
il termine è di 30 giorni, mentre l’attuazione forzosa della raccomandazione
prevede 60 giorni, una discrasia oggettivamente inaccettabile;
10) anche laddove l’amministrazione intenda
proporre ricorso contro la raccomandazione, comunque scatterà necessariamente l’applicazione
della sanzione amministrativa da 250
a 25.000 euro, in quanto tale sanzione si applica
automaticamente per il fatto oggettivo del mancato adeguamento della stazione
appaltante alla raccomandazione medesima;
11) l’elemento della “responsabilità da atto
legittimo” viene in evidenza allorchè il Tar accolga il ricorso proposto dalla
stazione appaltante, che, dunque, risulterebbe essere stata sanzionata
nonostante avesse posto in essere un atto legittimo.
Insomma, come si nota, l’Anac:
a)
svolge
di fatto funzioni di organi di controllo, ma restando ammantata dello status speciale
di autorità indipendente;
b)
nei
fatti, l’Anac, come mostra lo schema di regolamento censurato da Palazzo Spada,
svolge una vera e propria funziona inquisitoria, anche con rilevanti ed
ingiustificate compressioni del diritto al contraddittorio, come evidenzia
sempre il parere del Consiglio di stato;
c)
al tempo
stesso, svolge anche una funzione giudicante senza appello: la raccomandazione
produce effetti obbligatori, rimuovibili solo da un procedimento contenzioso
davanti al Tar.
Un ruolo pesantissimo, che
abbinato alla funzione normativa di fatto “subappaltata” dal Parlamento all’Autorità
mediante la previsione della “soft law”, fa dell’Anac un “potere” nuovo e
diverso, trasversale tra quello legiferante, esecutivo e giudiziario, che
travalica di gran lunga le competenze e funzioni delle autorità regolatrici.
Ma, le conseguenze estreme e le
stranezze della normativa in esame non finiscono qui. Come si nota leggendo con
attenzione l’articolo 211, comma 2, nonostante la raccomandazione sia
vincolante per la stazione appaltante, nel caso di mancato adeguamento la
sanzione amministrativa pecuniaria entro il limite minimo di euro 250 e il
limite massimo di euro 25.000, è posta a carico del dirigente responsabile e
non dell’amministrazione alla quale appartiene.
Un’ipotesi di vera e propria
introduzione di responsabilità oggettiva in un campo, quello delle sanzioni
amministrative depenalizzate, nel quale si debbono applicare i principi del
codice penale, tra i quali campeggia esattamente quello della personalità della
responsabilità, col quale la responsabilità oggettiva confligge in modo
irrimediabile.
La cosa non è ovviamente sfuggita
al Consiglio di stato, che, infatti, sul tema così scrive nel parere: “5.4. Al di là delle difficoltà sistematiche
prima evidenziate e di quelle applicative di cui si dirà, debbono ribadirsi in
questa sede alcune perplessità
‘strutturali’ sull’istituto, in termini giuridici ma anche in termini di
efficacia pratica, che si rimettono nuovamente alla valutazione del Governo in
vista di eventuali decreti correttivi, con particolare riferimento:
a) alle perplessità derivanti dalla creazione di una responsabilità oggettiva avulsa dalla gravità (e
dalla stessa esistenza) della violazione che inficia l’atto di gara censurato
dall’Autorità, che potrebbe essere successivamente smentita dal giudice
amministrativo (come si è detto, si è parlato di «responsabilità da atto
legittimo»), che non tiene conto, altresì, della chiarezza del quadro normativo
di riferimento o dalla complessità della procedura di gara, e incentrata unicamente sul rifiuto di
attuare la raccomandazione vincolante a prescindere dal carattere giustificato
o meno, colpevole o meno di esso;
b) al possibile contrasto del
meccanismo con il principio di responsabilità personale dell’illecito
amministrativo, sancito dall’art. 3, comma 1, della l. n. 689 del 1981,
secondo cui «nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa
ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e
volontaria, sia essa dolosa o colposa»: una regola generale, comune in materia
di sanzioni amministrative (art. 12 della stessa l. n. 689 del 1981), «da
applicare in ogni ipotesi in cui si configuri tale tipo di sanzioni» (v., sul
punto, Corte cost., 4
marzo 1999 , n. 49,
in tema di sanzioni irrogate a dirigenti responsabili di
infrazioni nel settore creditizio);
c) alla circostanza che la sanzione amministrativa pecuniaria prevista
a carico del solo dirigente sembra recidere
il rapporto di immedesimazione organica tra la stazione appaltante e il
dirigente, deresponsabilizzando, anche agli effetti contabili, la stazione appaltante,
forse anche con profili che potrebbero essere considerati di dubbia
compatibilità con l’art. 28 Cost.;
d) alla efficacia ‘in concreto’ del meccanismo, il quale non esclude
che la stazione appaltante possa sottrarsi alla raccomandazione, restando inerte
o confermando espressamente l’aggiudicazione ritenuta illegittima, preferendo
andare incontro alle sanzioni suddette, ovvero impugnando la raccomandazione
vincolante, e ciò anche in considerazione della incerta efficacia dissuasiva
sia della sanzione pecuniaria (che appare di modesto importo, se rapportata ad
appalti e concessioni di grande valore), sia della sanzione reputazionale,
perché le misure premiali previste dall’art. 38 (e non dall’art. 36, come
previsto dall’art. 211, comma 2, del codice, con un evidente refuso che si
raccomanda al Governo di emendare in sede di correttivo) potrebbero apparire un
vantaggio lontano, incerto e poco appetibile, per amministrazioni poco
virtuose, rispetto al conseguimento di eventuali vantaggi illeciti immediati;
e) alla distonia tra il termine massimo per adempiere alla
raccomandazione (fissato in 60 giorni) e quello per impugnarla (che è soltanto
di 30 giorni, ai sensi del rinvio all’art. 120 c.p.a.), con la conseguenza che,
trascorso tale secondo termine – ed eccettuate, ovviamente, le ipotesi di
impugnative proposte da terzi o di richiesta di riesame – la raccomandazione si consoliderebbe definitivamente per la stazione
appaltante, che negli ulteriori 30 giorni, indipendentemente dalle sue
ragioni, non potrebbe dissentire dall’ANAC”.
Il meccanismo è tanto più
perverso e punitivo nei confronti del dirigente, se si pensa ad un’altra
disposizione, esistente anche nel precedente d.lgs 163/2006, ma che nel nuovo
sistema e a causa dell’articolo 211, comma 2, diviene un paradosso giuridico. Ci
si riferisce all’articolo 77, comma 4, del codice, a mente del quale “I commissari non devono aver svolto né
possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo
relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”.
A causa di tale norma, perché il
dirigente possa far parte della commissione di gara (nel sotto soglia) non
dovrebbe aver in alcun modo svolto alcuna funzione se non organizzativa, nell’ambito
della procedura. Cioè, non dovrebbe redigere il capitolato, non dovrebbe se non
limitarsi a firmare la determinazione a contrattare ed il bando, senza entrare
mai nel merito operativo e tecnico. Ma, sono queste le funzioni di un
dirigente? Ai sensi dell’articolo 107, comma 3, del d.lgs 267/2000 si può
affermare con sicurezza che non sia così, perché il dirigente ha la
responsabilità complessiva della procedura.
Ammettiamo, però, che l’articolo
77 del codice, nella lettura che per altro ne propone l’Anac, imponga al
dirigente di nominare il Rup, sottoscrivere alla cieca gli atti e fare poco
altro, ponendo che l’articolo 107, comma 3, del d.lgs 267/2000 sia da
considerare abolito tacitamente. Tutto questo ammesso (ma non concesso), come
può il dirigente, da un lato, non esercitare funzioni amministrative sulla
gara, ma, dall’altro, essere responsabile del mancato adeguamento alle
raccomandazioni dell’Anac di atti che non ha nemmeno personalmente potuto
contribuire a formare?
Il codice dei contratti, come si
nota, pretende davvero tutto ed il contrario di tutto. Fermo restando il
ragionamento assolutamente esatto e condivisibilissimo del Consiglio di stato,
secondo il quale è assurdo ed irragionevole che il dirigente, che agisce nella
veste di organo, sia chiamato direttamente dall’Anac a pagare la sanzione come
se agisse quale libero cittadino, anche a prescindere dalla sua solvibilità ed
in violazione della previsione dell’articolo 28 della Costituzione.
Tra l’altro, visto che a pagare è
il dirigente:
1) chi presenta il ricorso avverso la
raccomandazione dell’Anac? Il dirigente o l’ente?
2) che accade se vi è contrasto, laddove il
dirigente, pur di non incorrere nelle sanzioni personali (ancora non corporali,
ma ci si sta lavorando, forse…) intenda adeguarsi alla raccomandazione, mentre
gli organi di governo intendano ricorrere?
Insomma, è evidente che lo
spirito inquisitorio del codice e dell’Anac parte dalla presunzione di
colpevolezza di una figura parafulmine, forse allo scopo di evidenziare che un
responsabile almeno amministrativamente del pur esistere, prescindendo
totalmente dalla sacrosanta esigenza della verifica del dolo o della colpa dell’azione
personale. Chi potrebbe escludere che il “corrotto” che abbia redatto gli atti
in modo illegittimo sia il Rup, un istruttore, un organo politico e non il
dirigente?
Chi ha redatto l’articolo 211,
comma 2, ed il regolamento oggetto del parere del Consiglio di stato ha troppo
in fretta dimenticato quanto accaduto nel comune di Lodi, dove è stato il
sindaco a modificare direttamente il contenuto di un bando di gara: avrebbe
dovuto pagare, per questo, sul piano amministrativo, il dirigente?
[1] Dal vocabolario Treccani
online: “Figura retorica consistente nell’accostare nella medesima locuzione
parole che esprimono concetti contrarî: lat. concordia discors, festina lente, strenua inertia; ital. una lucida
pazzia, un silenzio eloquente, tacito tumulto, ghiaccio bollente”.
Detto in altri termini, tenuto conto della copertura politica e mediatica dell'ANAC, pur legittima, siamo come ai tempi di Torquemada : anche se si è innocenti, nel senso che non si sono compiute illegittimità, conviene dichiarare di essere colpevoli per non essere condannato a pagare o ad affrontare processi di piazza e mediatici (immaginatevi nei piccoli e grandi comuni cosa comporta una "raccomandazione" non seguita, con le imprese, i faccendieri e i politicanti pronti a scaricare fango sulle persone meno inclini agli imbrogli e più corrette).
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