Le elezioni di 38 province tenute in questi giorni dovrebbero essere, al contempo, un monito e un monumento.
Un monito sugli effetti che avrebbe potuto determinare l’entrata in vigore della riforma costituzionale, per quanto riguarda il diritto di voto dei cittadini. Le elezioni delle province, riservate
solo a sindaci e consiglieri, perchè si tratta di enti “di secondo grado” sono una vera espropriazione del diritto di voto dei cittadini. E’ vero che la Costituzione non stabilisce espressamente l’obbligo
di far costituire gli organi rappresentativi mediante elezioni dirette. E’ altrettanto vero, però, che poichè le province sono comunque espressione della popolazione amministrata, la “mediazione”
sul programma politico dovrebbe passare attraverso il rapporto diretto tra partiti e corpo elettorale. Al contrario, le elezioni sono semplicemente un’alchimia del peggior politichese da prima Repubblica: tatticismi
dei partiti, che pur dicendosi all’unisono favorevoli all’eliminazione delle province, si mostrano disponibili a qualsiasi compromesso e mediazione pur di accaparrarsi comunque scranni, anche se “gratuiti”,
visto che una concezione erronea del “potere” rende ben chiaro che in realtà nessun incarico è davvero gratuito, se esercitato per il vantaggio proprio.
Le elezioni provinciali, ancora, sono un monumento: alle riforme raffazzonate e mal fatte. Basti pensare che la riforma Delrio (a parte ogni altro gravissimo difetto di impostazione tecnica, giuridica
ed ordinamentale):
- prevede l’assurda sfasatura della durata del mandato dei consigli (due anni) rispetto a quella del presidente (quattro anni); perchè? Ciò è tipico degli ordinamenti “presidenziali”,
nei quali la durata breve delle assemblee legislative favorisce la differenziazione tra orientamento politico dell’esecutivo e del legislativo; ma, nelle province questa previsione è totalmente priva di senso;
- prevede che la durata del mandato dei consiglieri, già brevissima, tale da non consentire loro nemmeno di capire esattamente di cosa occuparsi, sia condizionata a quella del mandato presso il
comune di provenienza: se cade anticipatamente il mandato comunale, cade anche quello provinciale. Un piccolo caos, che si è già verificato decine e decine di volte in questi due anni di sperimentazione del disastro
della riforma Delrio che la riforma della Costituzione avrebbe inteso estendere, con meccanismo simile, anche al Senato;
- prevede una sorta di “golden share” a vantaggio dei comuni capoluogo: il sistema, farraginosissimo e bizantino, delle elezioni, infatti, è lontanissimo dal principio di rappresentanza.Attribuisce un peso molto maggiore ai consiglieri dei capoluoghi, relegando di fatto le province ad una sorta di “succursale” amministrativa del comune capoluogo (cosa ancora più visibile nelle
città metropolitane, ove il sindaco metropolitano coincide col sindaco del capoluogo). La provincia, così, viene snaturata: da organo rappresentativo appunto del “contado”, del territorio soprattutto
non coincidente con quello del capoluogo, si trasforma in un’emanazione indiretta del comune capoluogo, a detrimento delle necessità di un governo e di scelte politiche connesse alla tanto citata “area vasta”,
molte volte non solo per nulla coincidente con le esigenze del capoluogo, ma perfino confliggente. La riforma priva i cittadini residenti nei tanti borghi e paesini della possibilità di contare su un ente intermedio
che possa rappresentarli con forza contrattuale nei confronti del capoluogo e della regione.
Il disastro, ovviamente, si completa con le devastanti scelte finanziarie, che hanno privato le province di una capacità di spesa di quasi il 40%. Qualcuno dice che si tratta di “tagli”.
Non è così. E’ una pura propaganda, per far credere ai cittadini che la riforma abbia comportato una riduzione della spesa pubblica e delle tasse. Le province, invece, continuano a riscuotere tutte le tasse
delle quali sono titolari (in particolare l’addizionale sull’assicurazione RC auto), ma invece di spendere le risorse a beneficio dei cittadini del territorio, sono costrette a riversare 3 miliardi allo Stato,
che poi le sperpera spende per i propri fini (per altro, la sentenza 205/2016 della Consulta afferma che le risorse sottratte alle province dovrebbero essere integralmente girate agli enti loro
subentrati nella gestione delle funzioni non fondamentali).
Nel quadro di questo disastro assoluto, desta quasi tenerezza l’inaridirsi della vena ironica del maggior “cantore” degli straordinari benefici che avrebbe comportato l’abolizione
delle tanto odiate province: Sergio Rizzo.
Sul Corriere della sera del 6 gennaio 2017, nell’articolo “Province redivive E chiedono soldi” il Rizzo voleva essere caustico, ironico e spiritoso,
cercando di affrontare in modo “leggero” appunto il tema delle elezioni e della sorte delle province. Ma, si assiste, invece, ad uno scritto piatto, privo di qualsiasi verve. Influenzato dalla profonda inquietudine
del Rizzo per non aver visto compiuta la propria “opera”. Pensiamo a quanto possa essere gratificante per un giornalista proporre, come panacea (falsa) dei mali della politica l’abolizione di una tipologia
di ente, di 107 province; essere ascoltati dalla politica più populista ed attenta ai messaggi rivolti alla pancia del Paese; vedere che la proposta è attuata (male e con disastri alcuni dei quali visti sopra)
con una legge dello Stato; vedere che la proposta, addirittura potrebbe sublimarsi nella riforma della Costituzione. E poi. E poi, un no al referendum blocca tutto. Un duro colpo. Allo spirito. E alla prosa.
Leggiamo l’incipit dell’articolo: “Poteva essere più triste la prossima domenica, per le 38 Province che 1'8 gennaio dovranno rinnovare i consigli.
Poteva esserlo, se il 4 dicembre fosse passato il referendum costituzionale”. Forse, voleva essere un tono spiritoso e ironico: poteva essere il “funerale” delle province. E, invece, guarda caso, ogni tanto la democrazia e le scelte dei cittadini si rivelano più forti anche delle pretese populiste della stampa. Poteva essere la domenica più triste delle province: sembra proprio, invece, che sia il Rizzo
ad ammantarsi di tanta tristezza.
E dalla tristezza, al rosicamento, sulla “richiesta di soldi” evocata nel titolo. Scherza, il Rizzo, sullo “straziante grido di dolore” delle province che, per bocca del presidente dell’Upi, Variati (compresso tra l’essere filo-Delrio e il dover fare il pasdaran delle province) evidenziano
la follia della manovra finanziaria sulle province, come ricorda l’articolo in commento: “«Siamo allo stremo, senza soldi andremo tutte in dissesto dal primo gennaio 2017»”.
Un grido, commenta il Rizzo sempre nel tentativo fallito di essere molto spiritoso, “seguito dall'elenco delle ferite inferte loro in questi due anni, grondanti di sacrifici. Ben 650 milioni
tagliati nel 2015, un miliardo e trecento evaporati nel 2016, fino ai quasi due miliardi pronti a spiccare il volo quest'anno”. E, poi, la “stoccata populista per far credere, ancora, che le province siano delle sanguisughe: “Nemmeno una parola, però, sugli aumenti a raffica delle tasse sulle polizze Rc-auto, che pressoché tutte le Provincie hanno nel frattempo portato al livello massimo consentito. Ed ecco qualche giorno
più tardi la richiesta di un decreto legge per ripristinare i finanziamenti perfidamente soppressi dal governo di Matteo Renzi”.
Il Rizzo, ovviamente, nel suo articolo che ,da ironico si trasforma in stizzito per riconfermarsi la solita ritrita filippica contro le province, non ricorda che le province sono state costrette ad incrementare
le tasse esattamente dalla riforma Delrio, nè informa i lettori sul fatto che quelle tasse le intasca lo Stato e non le province.
Meno che mai il Rizzo ha chiaro a se stesso, nè rende chiaro ai lettori, che le province non “chiedono soldi” per se stesse, ma per gestire le funzioni loro assegnate: l’immensa
rete stradale provinciale, 5000 edifici di scuole superiori, programmazione urbanistica, ambiente e tutte le altre funzioni non fondamentali che in modo frastagliato sono rimaste di loro competenza a seguito della disordinatissima
e sgangherata attuazione della riforma Delrio. I soldi, dunque, sono chiesti per dare servizi ai cittadini, non per tenerseli.
Informiamo il Rizzo di uno scoop: se quei soldi non li spendessero le province, comunque li dovrebbe spendere un altro ente, perchè le province possono sparire, ma le strade e le scuole no. Non
sappiamo se Rizzo viaggi in elicottero ed abbia scelto di far studiare i propri figli in scuole private. Sappiamo, però, che milioni di cittadini viaggiano su quelle strade e mandano i propri figli nelle scuole pubbliche:
hanno il diritto ad asfalti di velluto e a plessi scolastici sicuri, province o non province.
Continuare a rosicare sul tema dell’abolizione delle province è totalmente inutile e paradossale. Occorrerebbe, al contrario, prendere atto che il premier dimessosi avrebbe probabilmente
potuto ottenere l’obiettivo se invece di fare la mega riforma costituzionale si fosse limitato a pochi interventi specifici: la sola eliminazione della parola “province” dalla Costituzione sarebbe passata
in Parlamento a larghissima maggioranza, visto che anche le opposizioni sul tema sono sulla medesima lunghezza d’onda populista.
Invece, l’ex premier ha voluto tutto ed ha perso tutto. Come anche i “cantori” delle riforme. Sarebbe più utile se la stampa si cominciasse a porre il problema di come ricostruire
un livello di governo comunque essenziale e come garantire i servizi ai cittadini, a partire proprio dalle affermazioni della Corte costituzionale sui “tagli” imposti alle province, con la sentenza 205/2016, che
sarebbe consigliabile Rizzo e tutti i media leggessero con molta attenzione: “si deve ritenere – e in questi termini la disposizione va correttamente interpretata – che tale allocazione
sia destinata, per quel che riguarda le risorse degli enti di area vasta connesse al riordino delle funzioni non fondamentali, a una successiva riassegnazione agli enti subentranti nell’esercizio delle stesse funzioni non fondamentali (art. 1, comma 97, lettera b, della legge n. 56 del 2014).”.
E’ comprensibile rosicare. La vittoria del no al referendum è un rospo. Cominciamo, però, a digerirlo e anche a modificare la “narrazione”.
Mi scusi se parto dalla teoria dei comportamenti umani. Lei ipotizza la buona fede di chi scrive e ipotizza anche che ragioni da adulto, dimenticando che il giornalista è pagato dall'editore e se non ha una personalità sufficientemente forte, ragiona da bambino, scrivendo quel che piace all'editore papà, per motivi commerciali o solo per esercitare un'influenza indiretta sulla politica e averne dei ritorni concreti. Infatti nessun commento critico (e come poteva essere diversamente con quel che ci ritroviamo) si è levato contro gli sperperi e le regalie alla stampa mascherate da inutili obblighi di pubblicità sui giornali. In altri termini nei giornali è molto più facile per un giornalista criticare giustissimamente la camorra e molto più difficile criticare il governo sugli atti concreti.
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