Uno dei contenuti maggiormente
significativi dell’accordo “preferenderario” Governo-sindacati del 30 novembre 2016
è l’intento di riportare dalla legge alla contrattazione significativa parte
della disciplina del rapporto di lavoro pubblico.
L’accordo prevede che “Il Governo, nell'esercizio della delega di
cui all'articolo 17 della legge 124 del 2015, si impegna alla definizione di un
intervento legislativo volto a promuovere il riequilibrio, a favore della
contrattazione, del rapporto tra le fonti che disciplinano il rapporto di
lavoro per i dipendenti di tutti i settori, aree e comparti di contrattazione,
per una ripartizione efficace ed equa delle materie di competenza e degli
ambiti di azione della legge e del contratto. A tal fine il Governo si impegna
a rivedere gli ambiti di competenza, rispettivamente, della legge e della
contrattazione, privilegiando la fonte contrattuale quale luogo naturale per la
disciplina del rapporto di lavoro, dei diritti e delle garanzie dei lavoratori,
nonché degli aspetti organizzativi a questi direttamente pertinenti”.
L’intesa, dunque, mira a
sovvertire la scelta operata col d.lgs 150/2009 di ricondurre alla legge la
fonte principale di regolazione del rapporto di lavoro, per tornare ad una
seconda e più spinta fase di “contrattualizzazione” del lavoro pubblico. Le
organizzazioni sindacali non nascondo di intendere l’impegno del Governo
contenuto nell’accordo del 30 novembre 2016 come obbligazione a prevedere una diffusa
e trasversale forza derogatoria dei contratti sulla legge, un po’, come
avviene, del resto, nell’ambito del lavoro privato.
Il punto di vista delle
organizzazioni sindacali è comprensibile e giustificabile e, d’altra parte,
coerente con l’idea, abbracciata ormai 25 anni fa, di “contrattualizzare” il
lavoro pubblico.
I rischi di ciò, però, derivano
dalla tendenza mai abbandonata dal legislatore in questo quarto di secolo a
predisporre riforme “ibride”, che mescolano istituti tra loro incompatibili o
modelli molto eterogenei, dando vita, spesso, a risultati inapplicabili o molto
negativi, proprio perché si tratta di aggregazioni di norme e previsioni fatte
in laboratorio, senza tenere conto dei tanti, troppi aspetti, tecnici e pratici
necessari per una regolazione omogenea e coerente.
La “contrattualizzazione” del
lavoro pubblico è e resterà sempre un ossimoro, qualcosa di impossibile, se non
si compiono scelte decise. Quella più coerente con l’intento di lasciare ai
contratti collettivi la regolazione del rapporto di lavoro consisterebbe nel
dare massimo rilievo possibile all’autonomia di diritto privato del datore di
lavoro pubblico. La conseguenza di ciò, allora, consisterebbe nel ricondurre l’intera
disciplina del rapporto di lavoro alla sola giurisdizione, in via esclusiva,
del giudice ordinario, senza alcuno spazio di intervento né per la magistratura
contabile, né per servizi ispettivi, che, in quanto terzi e non coinvolti nel
rapporto contrattuale, non potrebbero avere alcuna legittimazione ad ingerirsi
nelle pattuizioni. E’ esattamente ciò che accade nel lavoro privato.
Tuttavia, il Governo, prima di
sottoscrivere il gravoso impegno con i sindacati, avrebbe dovuto contare fino a
dieci e tenere conto dell’elemento che fin qui ha sempre impedito di giungere
ad una reale riconduzione del lavoro pubblico alla sola disciplina di diritto
comune: gestire il personale pubblico, significa anche (e nella situazione
finanziaria attuale, soprattutto) parlare di spesa pubblica.
La spesa per il lavoro pubblico
si aggira intorno ai 163 miliardi di euro, che su una spesa complessiva di
circa 830 miliardi, significa il 19,6%; per garantire l’incremento medio di 85
euro mensili al quale si è, ancora, impegnato il Governo nell’accordo del 30 novembre 2016 ,
occorrono almeno 5 miliardi.
Insomma, parlare di lavoro
pubblico, significa muovere risorse molto significative e, quindi, significa
anche parlare di finanza pubblica.
Dunque, a meno di far finta di
non vedere la correlazione strettissima tra regolazione del lavoro pubblico e
politica economica, puntare su una contrattualizzazione del rapporto di lavoro
che tagli fuori la Corte
dei conti ed i servizi ispettivi appare irrealistico.
Occorrerebbe, allora, essere più
concreti. Il Governo sa benissimo che il datore di lavoro pubblico è un pessimo
negoziatore: il rapporto con i sindacati è fin troppo condizionato anche da
elementi di ricerca di consenso politico, pesantemente presenti nelle
trattative. Lo stesso accordo del 30 novembre 2016 non si può negare sia stato
fortissimamente condizionato dall’intento del Governo di ottenere consensi
sindacali al referendum costituzionale che si sarebbe tenuto pochi giorni dopo.
Immaginare, dunque, di lasciare
solo alla contrattazione la regolazione del rapporto di lavoro, specie se vi
dovessero essere ampliamenti anche agli spazi della contrattazione decentrata,
significa esporre la finanza pubblica a rischi molto forti di spesa in eccesso,
oltre che ad ondate di promozioni, assunzioni, incrementi premiali e
stipendiali incontrollati e soggetti a dinamiche non esattamente coincidenti
con le buone pratiche della sana gestione “aziendale”.
Per non tradire, allora, l’impegno
a dare maggior rilievo alla contrattazione, la strada parrebbe una sola:
trasformare il potere di intervento della Corte dei conti. Non serve a nulla
che la magistratura contabile intervenga attivando azioni di responsabilità a
seguito di verifiche ispettive, su contratti già stipulati, eventualmente
produttivi di danno. Questo implica solo contenziosi infiniti, cui seguono
leggi di sanatoria, in un flusso senza fine.
Il maggior peso dei contratti
decentrati di secondo livello, poiché occorre comunque tenere conto delle
esigenze di equilibrio dei conti, va necessariamente controbilanciato con un
intervento della magistratura contabile preventivo: i contratti debbono essere
sottoposti al vaglio della Corte dei conti prima che divengano efficaci, non
dopo. E il controllo della Corte dei conti deve estendersi non solo alla
verifica degli equilibri economici, ma anche al merito delle norme “in deroga”
alla legge, tanto a livello di controllo sui contratti nazionali, quanto nell’ambito
del controllo dei contratti decentrati, allo scopo di evitare voli pindarici. Il
tutto, imponendo sessioni contrattuali agili e veloci in termini strettissimi,
col chiarimento definitivo e inequivocabile che in assenza di nuovo contratto,
continua a produrre effetti l’ultimo non disdettato.
Ancora, il controllo di tipo
finanziario della magistratura contabile dovrebbe essere limitato alla verifica
della sola corretta quantificazione dei fondi, ma escludere ogni valutazione di
merito su come essi sono utilizzati, così da eliminare parte molto
significativa dell’immenso contenzioso.
Qualunque altra scelta priva di
una revisione profonda della funzione della Corte dei conti e di un sistema di
controlli preventivi risulta potenzialmente foriera solo di fortissimi
squilibri e danni finanziari che il Paese non può permettersi.
Condivido in pieno.
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