Nei prossimi giorni dovrebbe
andare all’approvazione del Consiglio dei ministri il testo della riforma del
lavoro pubblico, attuativo dell’articolo 17 della legge 124/2015, noto come “riforma
Madia”.
Già se ne conoscono gli elementi
costitutivi essenziali:
-
nuovi poteri ai contratti di derogare le leggi sul
lavoro pubblico;
-
flessibilizzazione del sistema di valutazione, con
eliminazione delle “fasce” di merito;
-
ennesima ondata di stabilizzazioni;
-
nuovo regime delle visite di controllo per le assenze
da malattia;
-
modifiche ed accelerazione del procedimento
disciplinare;
-
norma speciale per la garanzia del reintegro dei
dipendenti che abbiano subito un licenziamento illegittimo.
Il tutto come sempre è per lo più
fatto passare come “riforma epocale” o, come minimo, un sistema per rilanciare
la produttività del lavoro.
Vale la pena di porsi la domanda
se è con questo tipo di riforme, ondeggianti tra l’atteggiamento “da caserma” e
l’accordo con i sindacati per assicurarsi anche consenso elettorale, che
davvero la pubblica amministrazione italiana possa aumentare la propria
efficienza. Francamente, è inevitabile dubitarne.
Si deve innanzitutto affermare
che è giusto e corretto qualsiasi intervento volto a limitare e sanzionare
senza alcuna pietà chi truffa tutti i cittadini, fingendosi presente mentre è a
fare dell’altro.
Non è, però, di minore
importanza l’altro problema: far svolgere a chi è rispettoso dei propri doveri
di dipendente pubblico un lavoro utile e produttivo.
La domanda cui rispondere è:
posto che grazie alle varie “strette” sui “furbetti” si riesca finalmente a
farli stare tutti saldamente accostati alle loro postazioni di lavoro, siamo
sicuri che, poi, detti dipendenti producano in modo utile?
Non si può non sottolineare il
paradosso che in determinati enti le assenze dei “furbetti” erano organizzate e
di massa, eppure sostanzialmente nessuno se ne accorgeva. Un segno non proprio
favorevole all’efficacia dell’attività lavorativa.
Del resto, se un ufficio è sotto
dotato sul piano organizzativo, finanziario, patrimoniale e strumentale, dunque
regolarmente in ritardo o portato ad agire in modo raffazzonato, come
accorgersi di un calo di produttività, se essa è già sotto zero?
La riforma della PA che vorremmo
vedere dovrebbe partire da questi assunti. Scardinare la rassegnata abitudine
alle file infinite nei pronto soccorso o al rinvio alle calende greche degli
appuntamenti fissati dai Cup. In Italia, gli addetti ai servizi per il lavoro
in favore dei disoccupati sono circa 6.000; in Germania, dove i disoccupati
sono quasi la metà dei 3 milioni italiani, gli addetti sono, invece, oltre
100.000: è evidente che, poi, alla fine le attività operative sono sempre in
affanno e di limitata portata.
Non necessariamente i rimedi
alle disfunzioni della PA consistono nel rimpolpare la dotazione del personale,
ricordando, comunque, che in Italia, contrariamente alla vulgata, i 3 milioni
circa di dipendenti sono molto meno di quelli operanti in Paesi competitori
come Gran Bretagna e Francia, dove sono a circa 5 milioni, e la stessa
Germania, che veleggia oltre i 4 milioni.
Riformare la PA dovrebbe
significare in primo luogo rivedere il modo col quale essa offre i propri
servizi ai cittadini. Le riforme sull’ordinamento del lavoro pubblico e la
relativa organizzazione dovrebbero essere successive e conseguenti.
Facciamo solo alcuni esempi di
riforme che vorremmo vedere.
Trasparenza. Abbiamo, finalmente, il Foia, si dice. Bene. Allora,
non è opportuno chiedersi che senso ha avere tre tipologie di accesso, quello “documentale”,
quello “civico” e quello “generalizzato” se, appunto, grazie alla riforma del
d.lgs 33/2013 l’accesso civico generalizzato consente sostanzialmente di
accedere a qualsiasi documento, dato e informazione?
A cosa servono torrenziali Linee
Guida sul tema, che poi consigliano a ciascun ente di agire “caso per caso”,
secondo un “prudente apprezzamento” ed “assumendosene l’esclusiva
responsabilità”?
Sarebbe molto più utile:
a)
abolire la normativa sull’accesso “documentale” di cui
si occupa la legge 241/1990, assorbito da quello “generalizzato”;
b)
abolire le centinaia di obblighi di pubblicazioni varie,
lasciando alle amministrazioni modo di scegliere se, come e quando rendere
pubblici i dati, senza formalismi, dato che comunque l’accesso generalizzato
consente di accedervi;
c)
liberare ingentissime forze lavoro (si veda qui)
da adempimenti solo formali e destinarle ad attività certamente di maggiore e
diretto interesse per i servizi.
Suap. Lo sportello unico per le attività produttive è nato come
idea per rimediare alla dispersione delle procedure tra troppi enti,
concentrando l’istruttoria in un unico ufficio, che si relazioni direttamente
con l’impresa e curi le pratiche con gli altri enti “al posto” del cittadino.
Si tratta, però, all’evidenza,
di un’idea ormai vecchia e, oggettivamente, ormai malmessa.
Ci sono slogan molto
interessanti come “l’impresa in un giorno” e similari, ma è noto a tutti che
presentare istanze o segnalazioni certificate di inizio attività nelle troppe e
troppo diversificate piattaforme di gestione dei Suap è un’impresa titanica,
tra firme digitali, autenticazioni, up-load, down- load, che molte volte, per
altro, riguardano la scansione di moduli redatti a mano!
Oltre tutto, non di rado i Suap
sono chiamati, più che altro, a fare semplicemente da filtro o fulcro delle
pratiche, senza materialmente istruirle o condurle e limitandosi a mediare tra
uffici o enti competenti e cittadini richiedenti.
Sarebbe, allora, il caso di
rivedere tutto da zero. Vi è stata l’insistenza sullo Spid e la posta
certificata? Si utilizzino, allora, strumenti diversi, come l’obbligo di
gestire le procedure amministrative mediante applicativi internet, nei quali
caricare e tracciare documenti ed iter.
In questo modo, si potrebbe davvero
riqualificare e di molto la professionalità dei dipendenti e garantire istruttorie
concentrate, permettendo accessi alle pratiche a tutti gli uffici ed alle
amministrazioni interessati, ciascuno per il proprio livello di competenza.
Servono soldi? Sì, tanti. Ma, le riforme “senza oneri per la finanza pubblica”
come quelle che negli ultimi anni sono state varate, non possono avere alcuna
efficacia: si modificano processi produttivi solo con investimenti, come le
imprese sanno benissimo. E gli investimenti si fanno anche sul personale, con
aggiornamento, formazione, riqualificazione, interesse e cura.
Controllo e consulenza. La PA è ancora eccessivamente orientata a
fornire un servizio volto a rimuovere ostacoli giuridici al pieno esercizio di
posizioni giuridiche di terzi.
Per moltissime attività
occorrono provvedimenti espressi, contenenti autorizzazioni, nulla osta, atti
di assenso di varia natura, che impegnano le amministrazioni in catene di
montaggio di costruzione di “carta”, montagne di atti non di rado di diniego, a
causa di vizi formali e cavilli.
Non sarebbe il caso di ripensare
drasticamente il tutto? Una PA più efficiente potrebbe essere quella che non
gestisce la formazione di provvedimenti di assenso, ma che, invece, offra una
consulenza preventiva completa a chi la richiede, garantendo così, sotto la
propria responsabilità, della correttezza piena di successive semplicissimi
segnalazioni di inizio attività.
In ogni caso, invece di
considerare gli uffici come un ostacolo all’esplicazione di diritti, in via
estesa sarebbe utile consentire ai cittadini di auto formare sempre il proprio
titolo giuridico, trasformando l’azione della PA da concessoria in controllo.
Prevedendo un controllo diffuso e capillare, con amplissimi poteri di
annullamento e rimessione in pristino per chi abbia dichiarato il falso o
ciurlato nel manico, ma riducendo i controlli nei confronti di chi si avvalso
della consulenza preventiva.
Anche in questo caso i benefici
organizzativi sarebbero evidentissimi e la possibilità di riqualificare l’operato
dei dipendenti pubblici molto ampia.
Telelavoro. E’ vero che in generale in Italia il lavoro da remoto o
il “lavoro agile” non ha riscosso particolare successo o interesse. Meno che
mai, comunque, questo vale per il lavoro pubblico, ove la parola “telelavoro”
pare non si possa neanche pronunciare.
Ma, qualcuno ha mai fatto un
serio censimento di quante potrebbero essere le attività potenzialmente da
svolgere “da remoto”? Non risulta. Eppure, vi sono, eccome.
Si pensi a tutte le attività di
ispezione e controllo svolte in esterno: perché quel lavoratore addetto deve
essere costretto al “ritorno in ufficio” a chiudere i verbali relativi alla
pratica, oppure a concentrare solo nelle 6 ore mattutine quell’attività? Essendo
funzioni facilmente programmabili e standardizzabili (determinando in quantità
di ore necessarie per ciascuna ispezione, in media, e, quindi, fissando budget
giornalieri o settimanali), la produttività potrebbe essere valutata non sulla
base della concezione tayloristica della presenza in fabbrica abbarbicato alla
macchina, ma valutando quante uscite sono state fatte nel corso si una giornata
“liquida” e flessibile, oltre la cornice delle 6 ore mattutine, con caricamento
dei dati anche da remoto: da casa o centri di raccolta informatici.
Per non parlare, poi, di
attività “d’ufficio” di back office, come archiviazione, catalogazione,
registrazioni di varia natura.
Quanta produttività si potrebbe
finalmente misurare davvero, in questo modo, e, dunque recuperare?
Censimento degli adempimenti. Ormai si sono stratificate quantità di
adempimenti procedurali fuori da ogni controllo.
Molto spesso nei giornali le
farraginosità operative sono imputate alla “burocrazia”, lasciando credere che
siano una responsabilità dei dirigenti o dei funzionari, bizantinamente intenti
a creare dal nulla cavilli, passaggi, fasi, adempimenti, al solo scopo di
rallentare e complicare.
Le cose non stanno così. E’ il
legislatore la fonte primaria (anche se non esclusiva) dell’alluvione
burocratica: chiunque ne abbia voglia, dia una lettura al d.lgs 50/2016, il
codice dei contratti, spesso fatto passare per norma di “semplificazione”, per
rendersi conto di quanti adempimenti minuti impone, rendendo una gara qualcosa
di simile alla Parigi-Rubaix del ciclismo.
Un censimento dei troppi
adempimenti volto alla loro eliminazione radicale sarebbe necessario e già di
per sé questo consentirebbe ad enti, organi ed uffici di recuperare di botto
tantissime risorse operative da dedicare ai servizi.
Ci fermiamo qui. Inutile
proseguire con un elenco di cose che non sono presenti nella riforma Madia.
Quando sarà approvata, si farà l’analisi di ciò che contiene, coscienti che
sono, invece, le carenze di questa riforma a farne, certamente, l’ennesima
occasione perduta.
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