sabato 18 febbraio 2017

Licenziamenti, non serve la velocità ma la certezza dei tempi


Per i procedimenti disciplinari, specie quelli delicatissimi che possono condurre al licenziamento, non occorrono procedure “sprint” (come scrivono i giornali), ma al contrario semplicemente tempi certi.

Invece, la riforma Madia riesce nell’intento di restringere eccessivamente i tempi della procedura, ma al contempo anche a rendere i tempi del tutto incerti, tanto da poter pregiudicare il diritto al contraddittorio ed al giusto procedimento, costituzionalmente garantito, mettendo in pericolo la tenuta dei procedimenti disciplinari, che invece si vorrebbero semplificare.
In effetti, la parola “semplificazione” nel lessico del Legislatore è, da sempre, estremamente pericolosa. Essa dà all’esterno l’immagine di qualcosa che diventa più esile, facile, appunto, semplice. Qualsiasi operatore sa bene che, invece, accade l’esatto contrario: i procedimenti si spezzettano, i tempi si sovrappongono e avviluppano, le competenze si confondono, le relazioni con i cittadini divengono frammentate o guidate male da piattaforme telematiche improbabili e tutto si appesantisce, opacizza, deteriora.
Ma il Ministro della funzione pubblica è fortunato perché elogiato ed esaltato dalla stampa.
Come tutti i predecessori che si sono seduti alla scrivania ministeriale di Palazzo Vidoni ed abbiano trattato del problema della riforma del lavoro pubblico esclusivamente dal punto di vista della lotta a “fannulloni” e “furbetti” o dell’assegnazione dei “premi” mediante le “valutazioni”, ricevendo prime pagine, interviste, ospitate in televisione, pur avendo dato vita a “riforme epocali” senza porsi minimamente il problema di come cambiare l’organizzazione del lavoro, in un mondo nel quale la prestazione lavorativa è sempre meno legata al posto fisico dell’ufficio e della fabbrica, al rispetto di un orario contenuto entro una cornice fissa, all’utilizzo di strumentazioni presenti solo nel luogo del datore di lavoro, grazie alla telematica e a sempre più potenti (ma leggeri) strumenti di connessione. In altre parole, mentre le aziende pensano al “lavoro agile”, come modalità per “de materializzare” la logistica e riorganizzare totalmente tempi e modi (basti pensare alle consegne di pacchi e corrispondenza dei privati: finalmente si fanno anche il pomeriggio o in recapiti utili, mentre il vecchio sistema prevede la consegna in orari in cui il destinatario non c’è mai), la discettazione nell’ambito pubblico riguarda ancora un modo di intendere il lavoro, come organizzazione in parte da caserma.
Chi siede a Palazzo Vidoni è fortunato ed ha facile popolarità, perché i giornali non prendono minimamente in considerazione quanto inadeguato ed antiquato sia questo approccio, e guardano al dito invece che alla luna, esaltando la riforma che “finalmente” consente di licenziare i dipendenti pubblici, evidenziando che nel 2015 ne sono stati licenziati solo 280, dunque “pochi”. Come se esistesse un parametro fisso per determinare una quantità da considerare normale dei licenziamenti; come se non si sapesse che occorre licenziare chi deve essere licenziato ricorrendo cause e circostanze che non possono essere previste, sicchè è evidente che di anno in anno il numero dei licenziamenti può variare e di molto e non è minimamente possibile affermare che i licenziati siano pochi o molti.
Passare dalla popolarità al populismo, però, è molto facile e se e quando questo avviene, le norme scritte allo scopo di alimentare il meccanismo della presenza mediatica (scambiata per consenso di popolo, anche se il referendum del 4 dicembre 2016 ha dimostrato che l’ossessiva presenza nei media non implica per nulla la certezza di un risultato elettorale) si rivelano, appunto, buone solo per i titoli dei giornali, ma, eufemisticamente parlando, di “dubbia efficacia”.
Si prendano le modifiche che il Governo ha pensato di apporre al d.lgs 116/2016, marchiato per sempre come norma sui “licenziamenti sprint” o “anti furbetti del cartellino”.
Come è noto, occorre un decreto legislativo correttivo, per evitare che il decreto, adottato senza ottenere l’intesa con le regioni, chiamate ad esprimere invece solo un parere, possa essere impugnato per illegittimità costituzionale, alla luce della sentenza 251/2016 della Consulta.
La revisione del d.lgs 116/2016 poteva essere l’occasione per ripensarne i contenuti, fortemente condizionati dal clamore mediatico della vicenda del comune di San Remo, che ne ha costituito la spinta, come è noto.
Ovviamente, non è andata così. L’impianto del decreto viene sostanzialmente confermato, ma con alcune modifiche perfettamente emblematiche di come le “riforme” siano ad un tempo frutto di frenesia mediatica e di assenza di coordinamento e valutazione di impatto normativo. Vediamo il perché.
1.      Per i dipendenti colti in flagrante nella loro azione infedele di millantare la presenza in ufficio, si lascia un termine finale del procedimento disciplinare di soli 30 giorni. In più, la riforma del d.lgs 165/2001 contenuta nell’altro schema di decreto facente parte del pacchetto Madia, estende questo rito celerissimo a tutti gli altri casi nei quali altre cause di licenziamento siano accertate nella situazione di flagranza. Ebbene, l’abbreviazione del rito, che ante riforma poteva giungere a 120 giorni, ai 30 previsti, avrebbe assolutamente impedito al comune di San Remo di chiudere le istruttorie e giungere ai licenziamenti disposti, perché non avrebbe mai fatto in tempo a disporre le audizioni e redigere i provvedimenti per gli oltre 200 dipendenti implicati. Il legislatore immagina che le procedure riguardino un singolo dipendente. Eppure, dovrebbe essere chiaro che in particolare l’assenteismo è quasi sempre organizzato e di massa: se qualcuno timbra al posto di altri, è perché c’è un accordo diffuso, che può essere attivo, ma anche passivo, in quanto la semplice tolleranza ed omertà possono essere utili quando serva millantare la presenza in qualche caso. Gestire, allora, congiuntamente decine di procedure di licenziamento nel termine breve di 30 giorni è impossibile. Sarebbe stato auspicabile che questa semplicissima osservazione fosse compresa e recepita e si rimediasse ad un punto estremamente dolente. Ma, evidentemente, non si poteva tornare indietro sul messaggio mediatico dato a suo tempo.
Per altro, non è mai stato sufficientemente spiegato perché mai il termine ante riforma di 120 giorni fosse da considerare eccessivamente lungo, nel Paese nel quale i processi durano all’infinito e le procedure spesso hanno tempo più che lunghi, inconoscibili.
2.      Tuttavia, mentre si conferma una compressione oggettivamente eccessiva dei tempi procedurali (occorre ricordare che dei 30 giorni, 20 se ne vanno solo per l’audizione, che appunto non può essere disposta prima di 20 giorni dalla contestazione), mettendo in estrema difficoltà gli uffici dei procedimenti disciplinari, composti, nella gran parte degli enti, da funzionari che ordinariamente fanno altro ed hanno altre pratiche e scadenze da rispettare, contestualmente invece si porta da 120 a 150 giorni la scadenza per esercitare l’azione di responsabilità erariale nei confronti del dipendente.
Dunque, uffici non specializzati debbono correre a perdifiato per chiudere il procedimento in termini troppo ridotti, ma la Corte dei conti, composta da chi per mestiere fa il magistrato, gestisce procedimenti e si avvale di un’organizzazione rivolta proprio a questo fine, ottiene una dilatazione dei propri termini procedurali. Qualcosa non funziona.
3.      Pochi hanno fatto caso ad un altro paradosso. Tutti concentrano l’attenzione sul procedimento “sprint”, ma non hanno fatto caso che il decreto di riforma del d.lgs 165/2001 modifica radicalmente l’intera normativa sui procedimenti disciplinari e nel ridurre il potere sanzionatorio dei dirigenti al solo rimprovero verbale, riconnette tutte le altre sanzioni (conservative ed espulsive) agli uffici per i procedimenti disciplinari, fissando un termine generale di 90 giorni. Dunque, il legislatore allunga da 60 a 90 giorni tutti i procedimenti per applicare le sanzioni che vanno dalla censura fino alla sospensione dal rapporto di lavoro con privazione della retribuzione fino a 10 giorni.
Dunque, mentre si impone la frettolosità sulla sanzione più grave, che meriterebbe necessaria ponderatezza nell’istruttoria, si allungano i termini per le sanzioni minori. Quale sarebbe la coerenza di tutto ciò?
4.      Ancora, poiché la previsione del termine di 90 giorni per la conclusione dei procedimenti riguarderà anche quelli finalizzati all’eventuale licenziamento disciplinare non caratterizzato da fatti commessi in flagranza, comunque la riforma Madia determinerebbe una riduzione dei termini per le procedure fino ad oggi gestibili in 120 giorni appunto a 90. Non sarebbe stato più utile trovare una composizione e ricondurre anche i provvedimenti connessi alla flagranza al termine di 90 giorni? Anche per evitare l’ingestibilità di casi di assenze di massa?
5.      La riforma Madia, comunque, mentre da un lato riscrive in modo davvero incoerente ed al limite della pura casualità termini e procedure, nega anche la loro stessa utilità. Si vuole introdurre, infatti, la disposizione a mente della quale “La violazione dei termini e delle disposizioni previste dal presente articolo (il 55-bis del d.lgs 165/2001, nda), fatta salva l'eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall'azione disciplinare né l'invalidità della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente”.
Dunque, come si nota, i termini e le procedure finiscono per non servire a nulla, se non a complicare al parossismo il tutto. Infatti, il procedimento disciplinare andrebbe egualmente avanti, ma occorrerebbe:
a.       attivare una procedura di responsabilità disciplinare, dirigenziale e forse anche erariale per il dipendente che abbia comunque violato i termini (ma, se finiscono per essere solo ordinatori, perché dovrebbero determinare responsabilità?);
b.      porre in essere una complessa delibazione, volta a dimostrare che la violazione dei termini non abbia compromesso “irrimediabilmente” il diritto di difesa; operazione che, oggettivamente, può compiere in modo esaustivo e, soprattutto, facente “stato” solo il giudice. E c’è da scommettere sul potenziale deflagrante del contenzioso di simile disposizione.
In conclusione, la ricerca del facile plauso di una stampa solo a caccia di notizie da sparare per fare contente le tricoteuse come “finalmente licenziabili i dipendenti pubblici”, conduce sempre verso riforme confuse e causa di contraddizioni e complicazioni. Il vero assente finisce per essere il buon senso.
Per l'efficacia delle azioni di repressione, non serve correre, non è utile la "velocità" per la velocità, che ha troppo caratterizzato un triennio di governo poco produttivo di risultati: occorrono tempi certi, certezza del diritto, certezza che i mezzi a disposizione risultino efficaci. Il resto vale solo per le arene televisive di chi si parla allo specchio.

1 commento:

  1. E' il risultato di giornalisti e consulenti incompetenti o, peggio, pagati per scrivere quel che vuole il governo che finanzia il proprio editore. Mi chiedo, come faremo ad uscire da questo circolo vizioso e ad avere buone, semplici e trasparenti leggi?

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