La riforma Madia disporrà la
tutela della reintegra per i dipendenti pubblici licenziati illegittimamente.
Lo schema di decreto legislativo
attuativo dell’articolo 17 della legge 124/2015 aggiunge alla fine dell’articolo
63, comma 2, del d.lgs 165/2001 le seguenti disposizioni: “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il
licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore
nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata
all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine
rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello
dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per
lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato,
altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e
assistenziali”.
Secondo le prime indicazioni
della stampa generalista, la norma sarebbe la “conferma” dell’applicazione dell’articolo
18 dello Statuto dei lavoratori al lavoro pubblico, così come sempre sostenuto
dal Ministro Madia e di recente affermato dalla Cassazione.
Occorre precisare che la
presunta “conferma” non sarebbe riferita al testo dell’articolo 18 riformato,
in modo farraginoso e confuso dalla legge 92/2012 (legge “Fornero”), bensì al
testo originario della legge 300/1970.
Questa è, infatti, la
conclusione cui è giunta la Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza 9
giugno 2016, n. 11868. Una decisione, per la verità, discutibile e da
considerare non corretta, che tuttavia ha dato fiato alle teorie dottrinali,
secondo le quali, appunto, le modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori non sarebbero applicabili al lavoro pubblico.
In ogni caso, l’indicazione dei
media secondo la quale la riforma Madia sarebbe una “conferma” che al lavoro pubblico
si applica l’articolo 18 nel testo originario è un evidentissimo travisamento
dei datti. La norma prevista dallo schema di riforma del lavoro pubblico non è
affatto una conferma dell’articolo 18. Per due ragioni.
La prima è facilmente rilevabile
dal confronto tra il testo originario dell’articolo 18 e quello visto sopra,
previsto dalla riforma:
Articolo 18, testo
originario
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Nuovo testo dell’art. 63,
comma 2, d.lgs 165/2001
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Ferma restando l'esperibilità
delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice, con la sentenza con cui
dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della legge
predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o
giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa,
ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.
Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno subito per il licenziamento
di cui sia stata accertata la inefficacia o l'invalidità a norma del comma
precedente. In ogni caso, la misura del risarcimento non potrà essere
inferiore a cinque mensilità di retribuzione, determinata secondo i criteri
di cui all'articolo 2121 del codice civile. Il datore di lavoro che non
ottempera alla sentenza di cui al comma precedente è tenuto inoltre a
corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto
di lavoro dalla data della sentenza stessa fino a quella della
reintegrazione. Se il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento
dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso servizio, il rapporto si
intende risolto. La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo
comma è provvisoriamente esecutiva. Nell'ipotesi di licenziamento dei
lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del
sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato
e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga
irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di
lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. L'ordinanza di
cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice
medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo
178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il
datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero
all'ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice
che l'ha pronunciata, e' tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al
pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari
all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore.
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Il giudice, con la sentenza
con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna
l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al
pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione
di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente
al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva
reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo
svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è
condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi
previdenziali e assistenziali
|
Non è chi non veda le rilevanti
differenze tra i due testi. Abbiamo evidenziato in grassetto nel testo
originario dell’articolo 18 il passaggio più simile a quello che la riforma
Madia intende introdurre nell’articolo 63, comma 2, del d.lgs 165/2001. Salta
immediatamente all’occhio il sistema molto differente di determinazione del
risarcimento, rispetto all’indennità risarcitoria. Al di là della reintegra,
insomma, le due norme non hanno niente che le renda identiche, ma sono solo
simili.
La seconda motivazione è data
dalla circostanza che quella della riforma Madia non è una norma di
interpretazone, tanto meno di interpretazione autentica. Lo sarebbe stato se il
legislatore avesse formulato una disposizione dal contenuto come “ai lavoratori
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche si applica l’articolo 18 della
legge 20 maggio 1970, n. 300, nel testo antecedente alla riforma disposta dall’articolo
1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92”. Invece, come si nota, non è
così.
La previsione contenuta nella
riforma Madia è assolutamente:
1)
nuova: non trattandosi di norma di interpretazione con
efficacia retroattiva, è tipica espressione del potere del Legislatore di
innovare l’ordinamento giuridico, mediante espressione di volontà libera nei
fini, attuativa di un indirizzo politico;
2)
diversa da quella della normativa, sia vigente (l’articolo
18 nel testo risultante dalla riforma Fornero), sia previgente (l’articolo 18
nel testo originario, ante riforma Fornero).
Di fatto, la previsione della
riforma Madia, lungi dall’essere una “conferma” dell’articolo 18 risulta, all’opposto,
essere una clamorosa (ma corretta) smentita proprio alle non condivisibili
conclusioni della Corte di cassazione. La quale, appunto, per considerare
ancora applicabile ai dipendenti pubblici la tutela della reintegrazione nel
posto di lavoro ha dovuto arrampicarsi sugli specchi della teoria secondo la
quale al lavoro pubblico non si sarebbe estesa né la riforma dell’articolo 18
operata con la legge Fornero, né la riforma complessiva delle tutele dei
lavoratori, disposta col d.lgs 23/2015. Introducendo un concetto paradossale:
quello secondo il quale il principio della successione delle leggi nel tempo
non si applicherebbe per via interpretativa, sicchè una norma, sia pure
modificata nel suo testo da una successiva, continuerebbe ad applicarsi, e per
una sola specifica categoria di destinatari (nel caso di specie, i dipendenti
pubblici) nel testo antecedente alla riforma stessa.
Come osservato prima, invece la
riforma Madia introduce una vera e propria specifica tutela, la reintegra, con
una norma ad hoc. Confermando, così, la teoria di chi ha sostenuto che il
Legislatore era ovviamente libero di riservare ai dipendenti pubblici una
disciplina della tutela dal licenziamento illegittimo particolare, ma che allo
scopo avrebbe dovuto introdurre una specifica deroga alle disposizioni
contenute nelle leggi riguardanti la disciplina del lavoro privato, che
altrimenti si estendono automaticamente al lavoro pubblico.
Una delle pecche più clamorose
della dottrina e della giurisprudenza della Cassazione secondo le quali l’articolo
18 continuava ad applicarsi al lavoro pubblico nel testo ante riforma Fornero,
consiste proprio nell’ignorare quanto dispone il testo unico sul lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in particolare:
1), nell’articolo 2, comma 2, ai
sensi del quale “I rapporti di lavoro dei
dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni
del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti
di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni
contenute nel presente decreto”; ma, nessuna “diversa disposizione” è stata
fin qui contenuta nel d.lgs 165/2001, a proposito di tutela del licenziamento;
2) al contrario, l’articolo 51,
comma 2, del d.lgs 165/2001 ha proprio inteso, senza alcun’ombra di dubbio,
estendere automaticamente al lavoro pubblico la disciplina della tutela dei
lavoratori attraverso un indiscutibile rinvio dinamico: “La legge 20 maggio 1970, n.300, e successive modificazioni ed
integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal
numero dei dipendenti”.
Pertanto, per assicurare ai
dipendenti pubblici la tutela della reintegra, non restava che seguire la
strada dell’introduzione di una deroga espressa alla disciplina del lavoro
privato, prevedendo la specifica tutela che, adesso, il decreto attuativo della
riforma Madia indica.
Il che comprova la validità dell’assunto
iniziale: la riforma Madia non conferma affatto l’applicazione dell’articolo 18
al lavoro pubblico, ma, al contrario, introduce una regolazione speciale.
Per altro, lo schema di riforma,
nell’attuale tesato, contiene un errore clamoroso: non abolisce, come sarebbe
assolutamente necessario per evitare ulteriori incertezze interpretative, l’articolo
51, comma 2, che, come visto sopra, prevede l’automatica estensione al lavoro
pubblico delle regole riguardanti il lavoro privato contenute nello Statuto dei
lavoratori.
Infine, non si può non
evidenziare come la scelta del legislatore di apprestare ai lavoratori pubblici
la tutela della reintegrazione, in presenza, invece, di una disciplina del
lavoro privato completamente diversa ed opposta, si presta a concreti rischi di
illegittimità costituzionale, per manifesta disparità di trattamento nelle
tutele del bene primario del lavoro.
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