Ora che il caso Consip è
deflagrato anche su tutta la stampa nazionale dopo che per mesi ne aveva
parlato solo Il Fatto Quotidiano, emergono come inevitabile considerazioni di
natura più generale.
L’analisi si sposta dalla
cronaca e porta ad affrontare temi giuridici ed organizzativi rilevantissimi,
anche grazie all’intervista rilasciata dall’amministratore delegato della
Consip, Luigi Marroni, al Corriere della sera del 4 marzo scorso.
Partiamo dalla risposta all’ultima
domanda, con la quale l’intervistatore gli chiede se vi possa essere qualcosa
da cambiare in Consip per aumentare il presidio del rischio corruzione. Marroni
risponde: “Certo, lo stiamo già facendo.
Le gare diventeranno più piccole e mirate, aumenteremo ancora di più la
divisione dei poteri interni. L'azienda è sana ma se poi un dirigente, fuori
dall'orario d'ufficio, parla con un fornitore per aiutarlo in una gara... su quello
io cosa posso fare?”.
In questa domanda evidentemente
retorica se ne concentra un’altra, molto più importante: sono efficaci le
misure previste dalla ormai amplissima disciplina derivante dalla legge
anticorruzione, la legge 190/2012?
La risposta è già nella domanda
retorica dell’AD di Consip: no, non sono sufficienti.
La dimostrazione, del resto, è
data proprio dalla vicenda all’attenzione di tutti in questi giorni. Nessuna
delle misure di autocontrollo contro la corruzione adottate dalla Consip ha
avuto il minimo effetto di evitare i tentativi di condizionare gli esiti della
gara da 2,7 miliardi di euro sul facility
managemet. Se questi tentativi sono emersi, è stato per opera della
magistratura e della polizia giudiziaria, che allo scopo possono utilizzare
metodi di indagine efficaci: pedinamenti, ricostruzioni di “pizzini” stracciati
dalla spazzatura, intercettazioni telefoniche ed ambientali. Non è un caso che
il tutto sia scoppiato proprio dopo una fuga di notizie, proveniente certamente
dagli ambienti che svolgevano queste indagini, grazie alla quale la Consip ha
appreso dell’installazione di “cimici” nei propri uffici, eliminandole e
rovinando così l’indagine. Sicchè questa si è dirottata sul traffico di
influenze e sulla rivelazione di segreti istruttori.
Ma questa è cronaca. E’, invece,
un problema organizzativo e tecnico gravissimo la circostanza che la normativa
anticorruzione, quella amministrativa, quella, dunque, sorretta dalla legge
190/2012 e che impone alle varie amministrazioni di istituire la figura del
responsabile della prevenzione della corruzione ed impone di adottare ed
aggiornare una mole voluminosissima di atti (il piano triennale della
prevenzione della corruzione, il piano della trasparenza, centinaia di
adempimenti per la pubblicazione spesso ripetuta molte volte di dati vari), nel
caso di specie non è servita a nulla. Ed il caso di specie, per capirsi,
trattandosi del più grande appalto d’Europa per valore, era di quelli che
avrebbero dovuto imporre l’allarme rosso ed interventi di prevenzione di massima
portata ed efficacia.
Così non è stato. Addirittura,
si è avuta una fuga di notizie sull’esistenza delle intercettazioni (arma
micidiale contro la corruzione, della quale può disporre, però, solo la
magistratura e nessun responsabile della prevenzione della corruzione…), che ha
determinato una prevenzione della prevenzione contro la corruzione, colpendo al
cuore l’inchiesta dei giudici.
Ma, torniamo alla domanda
retorica del Marroni: se un dirigente, fuori dall'orario d'ufficio, parla con
un fornitore per aiutarlo in una gara, cosa si può fare?
Purtroppo, è proprio questo il
problema. Anche il migliore dei piani triennali anticorruzione, modificato ed
aggiornato ogni anno, attentissimo all’imprescindibile ed essenziale “analisi
del contesto” (è noto che i corruttori ed i corrotti si terrorizzano davanti
alle analisi del contesto), pieno di dati ed intriso di tabelle che richiedono
migliaia di pubblicazioni di milioni di dati, non serve a nulla, se poi le
trame vengono svolte tra corruttori e funzionari di gara corrotti al di fuori
degli uffici.
Tuttavia, obiettivamente: anche
se non sono mancati e continuano a non mancare clamorosi casi di corruzione con
consegne di mazzette proprio dentro gli uffici pubblici (e il caso di scuola,
se non di storia, fu la mazzetta del Pio Albergo Trivulzio), i corruttori e
corrotti più avveduti in genere si guardano dal negoziare il loro accordo
illecito esattamente dentro gli uffici pubblici, alla luce del sole. La
corruzione richiede necessariamente opacità, incontri riservati, nei boschi, in
ristoranti poco frequentati, in parcheggi pubblici, in stazioni o aerostazioni.
Luoghi e circostanze dove i piani anticorruzione e tutti gli adempimenti
amministrativi che ne conseguono, ivi comprese anche le sanzioni previste per i
casi di analisi di contesto non eccelse o la dimenticanza di uno tra le
migliaia di dati da pubblicare (sanzioni ovviamente non contro i corruttori, ma
contro i responsabili della prevenzione della corruzione), non possono arrivare
e nulla possono.
Perché i veri nemici della
corruzione sono una cultura amministrativa e della legalità diffusa, profonda e
da coltivare con formazione continua ed incoraggiamento al leale servizio dello
Stato e dei cittadini; l’adempimento all’obbligo giuridico di dare immediata
informazione alle autorità di ogni possibile deviazione dalla legalità; le
indagini della magistratura. Il resto è per lo più sovrastruttura, che se
interpretata come in Italia alla luce della solita impostazione burocratica,
diviene solo un inestricabile groviglio di adempimenti, capace solo di
sanzionare chi la corruzione dovrebbe prevenirla se sbaglia un dettaglio, ma
inabile a sventare la corruzione.
Torniamo all’intervista al
Marroni. L’intervistatore chiede: “E le
pressioni che dice di aver subito? Quelle perché non le ha denunciate?”. Le
cronache riferiscono che l’AD di Consip avrebbe ricevuto pressioni, appunto,
per favorire un’impresa nell’appalto del facility
management, basate anche su conseguenze relative alla propria carriera.
Risponde così il Marroni: “Se ti chiedono
un favore non è che ti metti subito a urlare e rovesci il tavolo. L'importante
è non farlo quel favore. E io non l'ho fatto”.
Benissimo che amministratore delegato
di Consip non abbia fatto alcun favore a nessuno, cosa della quale finchè non
vi sia un esito giudiziario diverso non è lecito dubitare.
Tuttavia, non si può fare a meno
di notare che l’approccio suggerito dalla risposta sia totalmente erroneo. Non
basta non fare il favore: il pubblico ufficiale ha esattamente l’obbligo di
denunciare ogni tentativo di pressione. Senza urlare, senza rovesciare alcun
tavolo. Semplicemente, attivando appunto le misure anticorruzione
amministrative o giudiziarie.
Non è da dimenticare che per
quanto il reato di corruzione si perfezioni col patto antigiuridico tra
corruttore e corrotto, in ogni caso il corruttore che prometta denaro o “altra
utilità” al pubblico ufficiale commette reato anche laddove il pubblico
ufficiale (come sarebbe suo dovere) non accetti la “promessa”. A stabilirlo è
con chiarezza estrema l’articolo 322 del codice penale, che punisce l’istigazione
alla corruzione.
Pertanto, le cose non sono così
semplici come le descrive nell’intervista l’AD di Consip. Non c’è da urlare, ma
c’è da denunciare e collaborare con chi ha responsabilità di prevenire la corruzione.
Non basta, dunque, evitare il fatto, ma occorrerebbe perseguire chi ha cercato
in qualche modo di distorcere la legalità.
Al di là, poi, della fattispecie
penale, che per verificarsi realmente deve obbedire a molteplici presupposti di
fatto e diritto, la “pressioni” costituiscono un elemento certo ed obiettivo perché
chi le subisce evidenzi immediatamente un proprio conflitto di interessi.
L’articolo 6, comma 2, del dpr
62/2013, codice di comportamento dei dipendenti pubblici, sul punto è
chiarissimo: “il dipendente si astiene
dal prendere decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in
situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi con interessi
personali, del coniuge, di conviventi, di parenti, di affini entro il secondo
grado. Il conflitto può riguardare interessi di qualsiasi natura, anche non
patrimoniali, come quelli derivanti dall’intento di voler assecondare pressioni
politiche, sindacali o dei superiori gerarchici”.
Tra l’altro, è l’unica norma di
tutto il complesso della disciplina anticorruzione che prenda di mira, sia pur
indirettamente, gli organi politici. Infatti, occorre ricordare che la
normativa “anticorruzione” di natura amministrativa, quella cioè derivante
dalla legge 190/2012 è monca: è rivolta solo ai dipendenti pubblici, ma non
contiene nessuna regola specifica nei riguardi dei componenti degli organi di
governo (con la sola eccezione delle regole scritte nel d.lgs 39/2013 sulle
inconferibilità ed incompatibilità per gli incarichi politici e dirigenziali).
Chi riceve, dunque, “pressioni”
deve:
a) astenersi
dal compiere atti oggetto degli interessi indebiti di chi le pressioni le
compie;
b) attivare
immediatamente le contromisure: non basta sottrarsi alla pressione negando “il
favore” richiesto; la “pressione” rivela l’esistenza di un apparato che ha
interessi particolari e ghiotti nei confronti dell’attività amministrativa,
tali da poter distorcere il perseguimento dell’interesse pubblico.
E’ la rilevazione stessa dell’esistenza
di “pressioni” che dovrebbe far scattare immediatamente l’allarme ed imporre a
chi le ha subite non solo di non accettarle, ma di attivare gli strumenti per
sanzionare e colpire gli autori delle pressioni.
Nel caso di specie, comunque,
occorre osservare che l’AD di Consip non è tecnicamente un dipendente pubblico,
sicchè le disposizioni del d.pr 62/2013 non si applicano. Anche questo è un
altro bel buco del sistema, per quanto comunque si tratta di principi generali
che dovrebbero considerarsi applicabili all’intera sfera amministrativa, sia
riferita al mondo dell’amministrazione e del lavoro pubblico propriamente
detti, sia riferita alla galassia dei soggetti con personalità giuridica di
diritto privato chiamati, tuttavia, a svolgere funzioni operative e gestionali
di natura ed interesse pubblici. Per altro, un soggetto come la Consip deve
applicare le regole della legge 231/2001, in parte analoghe a quelle della
normativa amministrativa dell’anticorruzione.
Qui è il caso di richiamare un’ulteriore
dichiarazione dell’amministratore delegato, riferita alla bonifica delle “cimici”,
che ha infranto l’inchiesta in corso sul mega appalto del facility management. Marroni afferma che ha “fatto fare dei controlli di
routine: a questo tavolo vengono discusse cose delicate. Molte aziende
fanno bonifiche periodiche e dal mio staff mi dicono che in Consip si fa almeno
dal 2005”.
Si comincia ad entrare in
argomenti molto delicati e scivolosi. Nessuno nega che sui tavoli della Consip
si discutano cose delicate: si tratta di una società del Tesoro chiamata a
gestire miliardi di euro di appalti e, dunque, a programmare, progettare e
gestire gare d’appalto complesse per l’impatto economico molto forte capaci di
generare.
Tuttavia, sorgono alcuni
quesiti: scontata la delicatezza delle cose discusse, non si dovrebbe trattare
di “delicatezza tecnica” e basta? Se sì, come normalmente dovrebbe essere,
allora quale sarebbe la ragione per una bonifica “di routine” di cimici? Risulta,
dunque, alla Consip un rischio elevato che imprese partecipanti alle gare
piazzino cimici periodicamente per carpire segreti d’ufficio relativi agli
appalti, così da giustificare “bonifiche periodiche” da oltre 10 anni? E se sì,
nessuno allora ha pensato che gli uffici della Consip risultino molto insicuri perché
eccessivamente sovraesposti a rischi di “spionaggio” immensi? Nessuno ha mai
pensato, oltre alle bonifiche periodiche, di rimediare a questa situazione che
potenzialmente potrebbe scatenare problemi gravissimi sulle decine di miliardi
movimentati da una società così esposta ad ingerenze illecite di terzi, da
essere costretta a fare controlli di routine sulla presenza di cimici?
Ma, una domanda risulta ancor
più delicata: poiché le “pressioni” sull’appalto del facility management in effetti ci sono state, anche perché esplicitamente
ammesse anche sulla stampa, nel caso di specie non sarebbe stato il caso di
dare l’ordine contrario alla realizzazione della bonifica “di routine” delle
cimici e, invece, lasciare lì, piazzate esattamente dov’erano proprio allo
scopo di mettere in piedi le azioni imposte dalle norme e principi citati
sopra, per consentire di cogliere corruttori e corrotti, così da colpirli e
sanzionarli?
Oppure, la “delicatezza” sta
nella circostanza che risulti normale una sorta di “mediazione” tra Consip
appaltante e ditte appaltatrici nella scrittura delle regole per gli appalti?
Non si vorrebbe che la risposta
a quest’ultima domanda fosse positiva. Un conto è consultare il mercato per
comprenderne la composizione e le caratteristiche, così da realizzare
capitolati e bandi davvero in grado di ottenere poi offerte serie e,
soprattutto, prestazioni efficienti e corrette sul piano dei requisiti tecnici
ed amministrativi, col pieno rispetto della concorrenza e dei contratti di
lavoro. Ma, per questo tipo di cose, sicuramente “delicate”, non sembra affatto
che debba esservi nessuna specifica riservatezza, anzi appare corretto il
contrario. Altro conto sono incontri per parlare di “cose delicate” che
sfuggano ai confini tracciati poco sopra: allora, la “riservatezza” appare
comprensibile; peccato che, però, sarebbe del tutto contraria e confliggente
con ogni regola e principio anticorruzione.
Uniamo, allora, a questo punto,
due domande che l’intervistatore pone all’amministratore delegato della Consip:
“non è inopportuno che il capo di
un'azienda che controlla 50 miliardi di spesa pubblica incontri il padre del
premier?”; “forse le pressioni
dipendono dal fatto che l'amministratore di Consip viene nominato in via
diretta dalla politica. Non sarebbe meglio una selezione pubblica?”.
Uniamo anche le risposte, unite
da un chiaro filo conduttore: “Conosco
tante persone. Da quando sono qui non ho smesso di incontrarli, anche perché
non vedrei più nessuno. Capita che ti
chiedano un favore, io di solito faccio finta di prendere un appunto e poi lo
butto via. L'importante è non superare quella linea che ti porta a compiere
un illecito. Io non l'ho mai fatto, nessuno mi accusa di averlo fatto”; “Ma perché, i vertici delle Ferrovie, di Eni
o di Enel come vengono scelti? Nemmeno
loro vivono chiusi in un monastero tibetano e vengono alimentati a distanza.
La procedura non mi sembra il problema: già adesso la scelta viene fatta
all'interno di una rosa di nomi indicata da esperti”.
Bisogna ricordare che le “pressioni”
rivolte all’amministratore delegato di Consip sono state da egli stesso
rivelate alla magistratura, come emerso dai giornali (si veda Il Fatto
Quotidiano on line del 3 marzo 2017, articolo “Inchiesta Consip, l’ad Luigi Marroni: “Così Lotti e co. mi avvertirono
di indagini e intercettazioni”). In sintesi, l’amministratore delegato
della Consip ha detto di aver ricevuto indirettamente dal padre dell’ex premier
e da un imprenditore suo amico, Russo, pressioni appunto perché si impegnasse a
condizionare gli esiti dell’appalto, ricordandogli che l’incarico in Consip gli
era stato concesso dal figlio di Tiziano Renzi; il Marroni ricorda di essere
stato molto tubato dalla “pressione” ricevuta, in quanto resosi conto che non
assecondandola avrebbe anche potuto rischiare il posto.
Ora, spetta all’inchiesta
giudiziaria accertare la realtà dei fatti. Di sicuro, non appare né prudente, né
rispettoso della normativa anticorruzione nel suo complesso:
1) ricevere
una richiesta di “favori” e fare finta di prendere appunti su di essa, per poi,
comunque, non fare il favore;
2) ricevere
pressioni, anche in questo caso senza adempierle, senza informare nessuno sull’esistenza
di interessi poco consoni ad una gara;
3) bonificare
gli uffici da cimici utili proprio a scovare gli autori delle possibili azioni
fraudolente per condizionare l’appalto;
4) immaginare
che l’impossibilità di vivere in ascesi da monaco tibetano debba
necessariamente comportare riunioni riservate, nelle quali trattare “cose
delicate”, fingendo anche di dare ascolto a chi chiede “favori”.
La richiesta di “favori” o,
peggio, le “pressioni” possono costituire presupposto per quell’induzione alla
corruzione che, come visto prima, è reato; come minimo, comunque, rivela un
elevato rischio e, dunque, dovrebbe suscitare l’attivazione di ogni azione
finalizzata non solo ad evitare che il favore sia fatto e la pressione soddisfatta,
ma a colpire chi i favori li chiede e le pressioni le esercita.
L’intervistatore, nel chiedersi
e chiedere se l’incarico dell’amministratore delegato di Consip derivante direttamente
da scelte discrezionali della politica possa favorire pressioni tali da
condizionare, poi, le decisioni operative, coglie nel segno.
La risposta che anche in altre
società a capitale pubblico si agisca nello stesso modo non è ovviamente né esaustiva,
né utile.
La domanda che si pone, allora,
è: occorre essere monaci tibetani, o è, piuttosto, necessario regolamentare l’attività
delle lobby?
Di questo ultimo avviso è
Michele Corradino, componente del consiglio d’amministrazione dell’Anac. Nell’intervista
rilasciata a La Stampa il 5 marzo 2017, il consigliere dichiara: “Questa inchiesta prova che bisogna
regolamentare il fenomeno lobbistico. Non possiamo pensare a una pubblica
amministrazione asettica, isolata dal mondo. Ma servono due condizioni: tracciabilità
dei rapporti lobbistici e par condicio. I grandi gruppi entrano ovunque
senza bussare, i piccoli restano fuori”.
E’ un rimedio possibile, certo.
E l’accento sulla tracciabilità e sulla par condicio si pone su un piano
totalmente inconciliabile con la pretesa che le “cose delicate” di cui la PA
può di volta in volta trattare impongano bonifiche periodiche anti cimici.
Sta di fatto che il presupposto
è sempre lo stesso: qualsiasi regolamentazione, penale o amministrativa, dei
reati, qualunque disciplina dell’attività lobbistica non può annullare, ma
nemmeno ridurre più di tanto, il rischio di corruzione, per una ragione
evidentissima: chi vuole corrompere e chi è propenso a farsi corrompere, lo fa
violando le regole, al buio, negando ogni tracciabilità, in posti lontani da
cimici, coi pizzini o con metodi per non farsi scoprire.
Dunque, le conclusioni da trarre
dovrebbero essere due. La prima: nessuna normativa amministrativa sull’anticorruzione
o sul lobbismo può, da sola, fermare ma anche ridurre in modo significativo la
corruzione, come appunto dimostra l’inchiesta Consip.
La seconda: non c’è bisogno
sicuramente di monaci tibetani, ma di sicuro sistemi di nomina ed incarico di
dirigenti e vertici delle società pubblici lasciati al totale arbitrio della
politica, nell’ambito dei quali la conoscenza personale e la fedeltà prevalgono
sulla competenza e la funzionalizzazione ai servizi, espongono di certo gli
incaricati a “pressioni” vere o solo millantate da parte sia di chi le nomine
le fa, sia di chi fa parte di “cerchi magici” – per parentele, amicizie, ruoli
politici – condizionando così, anche solo in via potenziale, le decisioni sulla
gestione.
L’attenzione non può non
spostarsi, dunque, sul deleterio spoil
system, che lasciando i vertici della PA e delle società pubbliche esposti
all’arbitrio di chi nomina di, certo non rafforza la posizione dei vertici, né li
rincuora contro le “pressioni”, né aiuta a comprendere che non basta non
accettare richieste di “favori”, ma occorre porre in essere le azioni per
perseguire chi detti favori li richiede.
Non si può, allora, che
concordare con l’editoriale del professore Sabino Cassese, dal titolo “Il monaco tibetano inesistente”,
pubblicato sul Corriere della sera del 5 marzo 2017. “Una persona con un curriculum di tutto rispetto, come quello
dell'attuale amministratore delegato della Consip, ha certamente diritto di non
vivere in reclusione”, osserva Cassese. Che, però, correttamente si chiede
se sia giusto che la funzione di amministratore delegato della Consip spetti al
governo, considerando che la società del Tesoro svolge “una funzione eminentemente tecnica”, dovendo deve assicurare acquisti
di beni e servizi ai prezzi più convenienti e con le prestazioni migliori, per
la funzionalità delle amministrazioni statali e locali.
Correttamente, il Cassese evidenzia
che la Consip “non ha un fine politico,
non deve obbedire a direttive governative”, presupposti che potrebbero
giustificare una dipendenza diretta, financo fiduciaria, tra i vertici di un
soggetto politico e gli organi politici che lo nominano. Ma, quando soggetti
come la Consip svolgono funzioni tecniche e gestionali, le scelte “discrezionali”
(parola eufemistica per non dire “arbitrarie”) portano ad un elevatissimo
rischio di reclutamento di persone per le quali la fedeltà e proprio la
fragilità alle “pressioni” del “clan” siano requisiti da preferire alla competenza
tecnica, accertata con selezioni tecniche oggettive e di alto profilo.
Aggiunge, Cassese: “La Consip è solo uno delle migliaia di
organismi sui quali si allarga la mano della politica, nonostante che la loro funzione
sia eminentemente tecnica e che possa essere svolta anche da persone
sconosciute al governo e al Parlamento. Sono enti pubblici, agenzie, autorità
indipendenti, società per azioni locali e nazionali. La loro attività si svolge
lungo linee che sono fissate dalle leggi, è di carattere gestionale o
amministrativa. Eppure la pervasività della politica li sottopone a scelte di
vertice, talora anche eccellenti, ma compiute secondo criteri vari, quello
della fedeltà, quello della appartenenza allo stesso giro di persone, quello
della stessa fede politica, tutti criteri non funzionali allo scopo di
assicurarsi bravi tecnici indipendenti”.
La corruzione, soprattutto
quella amministrativa, quella cioè non necessariamente costituente reato, ma
sviamento dal perseguimento dell’interesse pubblico primario (disciplinata dal
pacchetto di norme retto dalla legge 190/2012), si nutre esattamente dello spoil system che crea, secondo il
Cassese, una “zona grigia”, nella quale gli appetiti della politica si sposano
con azioni gestionali soprattutto di società in mano pubblica, prestate non di
rado ad intrecci di interessi politico-imprenditoriali in aperto contrasto con
quelli pubblici.
Certifica Cassese: “lo «spoils system» ha proliferato,
moltiplicandosi in forme diverse, ma sempre ispirate al criterio di base: al
vincitore spettano le spoglie. Per una di quelle singolari ambiguità che sono
caratteristiche del nostro Stato, proprio negli stessi anni veniva sancito in
legge un principio capitale, quello di
distinzione tra politica e amministrazione: alla prima spetta di dettare gli
indirizzi, alla seconda di gestire. Si tratta di un principio essenziale di
ogni ordinamento moderno, che non a caso il presidente Trump sta cercando
di sopprimere proprio in questi giorni negli Stati Uniti. Secondo questo
principio, i vertici politi ci non dovrebbero ficcare il naso nella gestione,
ma limitarsi a dare indirizzi, a controllare risultati (ed eventualmente a far
valere responsabilità di chi non ha seguito le direttive)”.
Allora, cosa vogliamo? Esperti
mediatori in attività lobbistica, o monaci tibetani? Cassese risponde con una
provocazione: “non ci dispiacerebbe che vi fosse qualche monaco tibetano, almeno finché non si porrà mano al
riordino di questa zona grigia, per restituire alla buona amministrazione quel
che le spetta”.
Non è il caso di trascurare un
piccolo dettaglio: il precedente Governo ha avviato una riforma della dirigenza
pubblica, contenuta nei decreti Madia, fermata per fortuna dalla sentenza della
Corte costituzionale 251/2016, che più lontana dalla costruzione di monasteri
in Tibet per i dirigenti pubblici non poteva essere. Si trattava di una riforma
che avrebbe legato i dirigenti pubblici di ogni livello mani e piedi all’arbitrio
politico, creando in serie tanti vertici pubblici continuamente assoggettabili
a pressioni di ogni genere, mettendo a rischio il loro posto, esattamente come
raccontato da Marroni. E’ il caso di continuare lungo questa china, come ad
esempio chiede l’Anci nazionale, in una proposta di legge nella quale si torna
a chiedere la sostanziale eliminazione dei segretari comunali nei comuni con
oltre 100.000 abitanti, sostituibili da direttori generali notoriamente
nominati esattamente secondo le logiche “amicali” che colorano di grigio la
zona di allarme evocata dal Cassese?
Ottima analisi, assolutamente condivisibile. Anche la nota sulla "riforma" Madia. Non riesco a vedere una volontà effettiva di trovare una soluzione veramente efficace - Cassese ha ragione e spero che non rimanga una voce isolata.
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