Le “riforme
Madia” rischiano di diventare, ormai, l'appellativo per tentativi
di modificare l'ordinamento giuridico tendenzialmente fallimentari o,
comunque, privi di risultato.
La più celebre
delle “riforme alla Madia” è quella della dirigenza pubblica,
bocciata dalla Consulta con la sentenza 251/2017, perchè non era
stata richiesta l'intesa con le Regioni, violando la Costituzione.
In generale,
tuttavia, è l'insieme delle riforme effettuate da oltre un quarto di
secolo a questa parte e specificamente quelle inaugurate dall'era
Bassanini che si caratterizzano per il loro sostanziale fallimento.
Si è regolarmente
trattato di tentativi in vitro di applicare forzatamente, senza
alcuna sperimentazione né valutazione di impatto, teorie elaborate
nelle università o in fondazioni politiche, spesso copiando sistemi
esteri, ma senza realizzando regolarmente risultati ibridi, mai
perfettamente calati nella realtà italiana.
Tra gli elementi
di questa realtà c'è, purtroppo, quello del problema immenso
dell'equilibrio dei conti pubblici. Come è noto, il debito pubblico
è circa il 133% del Pil, del quale Pil, inoltre, la spesa pubblica
rappresenta oltre la metà. In assenza di crescita economica, dunque,
qualsiasi minore entrata o qualsiasi incremento di spesa finiscono
per aggravare o il rapporto spesa pubblica/Pil o il debito, o
l'avanzo primario.
Per questa
ragione, da molto tempo a questa parte si assiste a “riforme” che
contengono una clausola non casuale: “senza nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica”.
Cioè, le riforme non debbono (non dovrebbero) comportare maggiori
spese o minori entrate. Pena, bacchettate sonore da Bruxelles e dai
mercati.
Da
qui il florilegio di riforme “a costo zero”, che ovviamente non
possono funzionare: se davvero si vuole modificare un apparato o
un'organizzazione, spese di investimento, di formazioni e di
superamento delle inerzie iniziali sono inevitabili.
Oppure,
l'altro elenco infinito delle riforme “a solo beneficio della
stampa”: utilissime per raccogliere titoloni sui giornali, ospitate
e conferenze stampa dotatissime di slide, che però non producono mai
gli effetti auspicati.
E'
il caso del “documento unico di circolazione”, decantato dalla
grande stampa come uno dei migliori risultati delle “riforme
Madia”, perchè “semplifica” (verbo che ogni operatore della Pa
sa bene che è meglio non sia mai pronunciato, in quanto nasconde
sempre l'esatto contrario) e “fa risparmiare”.
Ecco.
Puntualmente, invece, si
scopre che la riforma, come rivelato da Il Fatto Quotidiano on line
nell'articolo “Riforma Madia, addio al risparmio sui documenti auto
promessi dal Governo. “No a impatti negativi sul bilancio”” non
potrà produrre il risparmio di 39 euro sbandierati. Anche perchè
l'Aci rischierebbe di chiudere. Ed in un Paese che manda a gambe
all'aria un pezzo fondamentale della sua organizzazione, come le
province, per andare appresso ai populismi e realizzare una delle
tante riforme “alla Madia” o “alla Delrio”, come dir si
voglia, di certo non può rinunciare all'Aci. Né alle riforme
inefficaci, che si susseguono, riformate da altre riforme ancora più
inefficaci, perchè le nozze coi fichi secchi saranno parche, sì, ma
non producono esattamente l'effetto voluto.
Le riforme fatte dai politici e dai loro ben pagati e sempre uguali consulenti, dopo tangentopoli e sin dal 1993, non hanno fatto altro che cercare di amentare la loro impunità, scaricando tutto sui dirigenti. E' evidente più il dirigente è precario, più è sotto ricatto, come se avesse una pistola puntata alla tempia. Anche la Madia prosegue sulla stessa strada, eliminando la responsabilità del vertice dell'Amministrazione, che è il Ministro o l'Assessore regionale, provinciale o comunale di turno, è precarizzando sempre più il dipendente pubblico. Specie se è un esterno, il dirigente pubblico "precario" tirerà a campare assecondando qualsiasi illegalità del politico, pena l'allontanamento, senza avere alcun riguardo alla crescita dell'organizzazione e alla qualità del servizio. Tre o quattro anni e poi si cambia casacca. Uno schifo assecondato da alcuni giornalisti di giornali famosi ma di basso livello culturale e da dei consulenti prezzolati.
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