Pur azzerata dalla sentenza della Corte costituzionale 251/2016, la
riforma della dirigenza avviata dalla legge Madia arde sotto la
cenere ed è sostanzialmente solo rinviata a tempi migliori.
Di per sé ciò non sarebbe un male. Nessuno può oggettivamente
negare che una riforma agli assetti ed alle competenze dei dirigenti
pubblici sia effettivamente utile, ovviamente laddove sia realmente
finalizzata a rendere più efficiente la gestione degli apparati
amministrativi o della composita galassia delle società partecipate.
Un punto dovrebbe essere chiaro: qualsiasi riforma dovrebbe avere
come obiettivo principale la liberazione della dirigenza dal peso
soffocante della politica, anzi dell’appartenenza partitica o della
forte condivisione amicale o, appunto, partitica, come fonte
dell’assegnazione degli incarichi o della valutazione dell’operato
del manager pubblico.
La riforma della dirigenza disposta con diverse “ondate” nel
corso degli anni ‘90 del secolo scorso, fino alle riforme
Bassanini, poi in parte corretta dalle successive riforme Frattini e
Brunetta, è partita dalla necessità di rendere attuali e concreti,
nella gestione, i principi desunti dagli articoli 97 e 98 della
Costituzione: efficienza dell’azione amministrativa, imparzialità,
accesso per concorso e obbligo per i pubblici dipendenti di prestare
fedeltà alla Nazione, non ad una certa formazione partitica.
La traduzione di questi principi è l’ulteriore principio di
separazione tra funzione politica e funzione gestionale, posto
dall’articolo 4 del d.lgs 165/2001, commi 1 e 2. Il primo afferma:
“Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo
politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da
attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di
tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati
dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi
impartiti”. Il secondo completa: “Ai dirigenti spetta
l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti
gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la
gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi
poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e
di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attività
amministrativa, della gestione e dei relativi risultati”.
Pur nella necessaria divisione delle competenze, vi sono almeno tre
modalità con le quali gli organi di governo esercitano la funzione
di indirizzo e controllo, impedendo alla dirigenza di divenire un
corpo estraneo, un potere separato invece che un sistema servente
dotato di autonomia gestionale:
1) la fissazione degli obiettivi politici ed amministrativi, anche
attraverso la negoziazione delle risorse necessarie allo scopo;
2) l’assegnazione degli incarichi dirigenziali ad i soggetti più
idonei alla realizzazione dei programmi;
3) la valutazione dell’operato dei dirigenti, fondamentale ai fini
di un controllo in corso di gestione ed a conclusione della stessa,
anche ai fini delle scelte da compiere scaduti gli incarichi, in
vista della loro nuova assegnazione.
E’ esperienza comune che queste modalità, pur essendo
espressamente regolate in vario modo dalla normativa ed ulteriormente
enfatizzate dalla disciplina dell’anticorruzione, risultino
ampiamente e diffusamente aggirate. Le norme ed i principi posti a
regolare il funzionamento dell’organizzazione ed i rapporti tra
politica e dirigenza, lungi dall’essere applicate, sono spesso
oggetto degli strumenti più vari per eluderle. Perchè al rapporto
stretto tra politica e gestione proprio non si vuole rinunciare.
Finisce, quindi, che gli incarichi per lo più si trasformino in
arbitrarie decisioni, mascherate da scelte selettive, mentre la
valutazione finale proprio non ha alcuna rilevanza. Due esempi.
Nel suo articolo su phastidio.net “Cacciatori di foglie di
fico”, l’attento commentatore di questioni soprattutto
economiche Mario Seminerio si sofferma sulle recenti nomine
governative nelle principali società partecipate del Governo e sulle
risposte del Ministro Padoan nel corso di un question time
richiesto dal Parlamento sul tema.
Il Ministro ha fatto presente che
per selezionare i manager delle società si è attivata “una
procedura di selezione svolta con il supporto di primarie società di
consulenza per la selezione e il reclutamento manageriale, sulla base
di criteri di professionalità e secondo prassi di uso comune di
mercato, in linea con quanto disposto da una specifica direttiva”.
Insomma, il Governo si è rivolto a società di “cacciatori di
teste”.
Fin qui tutto bene: non essendo
obbligatorio effettuare concorsi per i manager delle aziende,
selezionarli mediante sistemi operanti nel mercato privato appare
corretto.
Poi, come rileva il Seminerio,
qualcosa sfugge sulle ragioni delle nomine. Per il vertice di
Leonardo Finmeccanica, Padoan spiega così la nomina: “in
considerazione della peculiarità del settore e della mancanza di
aziende simili in Italia, nonché della natura internazionale
dell’attività, si è ritenuto opportuno privilegiare l’esperienza
nello sviluppo internazionale e la capacità di gestire situazioni di
forte complessità aziendale”.
Non possiamo che fare nostra
l’osservazione di Seminerio: “con simili
“argomentazioni”, è possibile giustificare ex post qualsiasi
nomina”.
Basta in effetti evidenziare che “il dirigente o il manager dispone
delle caratteristiche idonee a rivestire l’incarico affidatogli in
considerazione dei contenuti e degli obiettivi fissati, vista anche
l’esperienza posseduta e la complessità operativa” ed è pronta
la motivazione per qualsiasi incarico, tale da rendere qualsiasi
procedura selettiva, realizzata o meno che sia mediante società di
cacciatori di teste, nulla più se non una cortina fumogena, per far
apparire che una scelta totalmente arbitraria sia guidata, invece, da
una selezione meritocratica. Evidentemente, invece, assente.
Le argomentazioni buone per tutti gli incarichi di cui parla il
Seminerio e riscontrabili praticamente in tutti gli incarichi nei
quali siano maggiori i profili di discrezionalità degli organi di
governo (dunque, le nomine nelle società e gli incarichi dei
dirigenti a contratto) sono, a ben vedere, sostanzialmente solo la
descrizione delle competenze necessarie, gli skills
direbbero quelli che conoscono il latinorum.
Il fatto è che le procedure
selettive non dovrebbero servire per affermare, poi, che il
selezionato possiede quelle competenze, ci mancherebbe pure che non
le avesse; le ragioni delle scelte compiute dovrebbero spiegare
perché mai il selezionato disponga delle abilità necessarie in
misura maggiore rispetto agli altri che abbiano partecipato alla
selezione: ma, questa spiegazione non è praticamente mai dato
reperirla.
Ecco, dunque, che gli incarichi si
traducono in procedure solo apparentemente selettive e complesse
(anche con denari spesi per incaricare gli head hunters,
con dubbia efficacia), utili solo per coprire scelte già
prefabbricate a tavolino. Senza che, per altro, vi siano possibili
rimedi. Se un ente deve incaricare un avvocato anche solo per un
parere da poche centinaia di euro, il codice dei contratti impone
procedure certamente gravose e motivazioni estremamente stringenti;
se per caso capita di dover assegnare un incarico professionale
anch’esso da poche centinaia di euro, l’articolo 7, comma 6, del
d.lgs 165/2001 impone procedure selettive sotto l’occhio della
Corte dei conti e la mancata pubblicazione del provvedimento di
assegnazione fa scaturire i fulmini, i tuoni e l’apertura delle
cateratte della responsabilità erariale. Invece, incarichi da
centinaia o decine di migliaia di euro all’anno possono essere
assegnati in via sostanzialmente arbitraria.
Andiamo alla valutazione, anche qui
traendo spunto dalla cronaca. Una cronaca, purtroppo, anche tragica,
relativa alle vicende tormentatissime del dissesto del comune di
Reggio Calabria, che ha visto anche il decesso in circostanze non del
tutto chiarite della ragioniera generale dell’ente.
Sul giornale on line Il Corriere
della Calabria, l’articolo dall’eloquente titolo “Il
bilancio di Reggio una fabbrica di falsi”,
sintetizza le motivazioni della conferma della condanna dell’ex
sindaco Scopelliti da parte della Corte d’appello, evidenziando
appunto un rapporto soffocante, intensissimo tra il sindaco e la
dirigente, nel gestire il bilancio in modo dissennato, al solo scopo
di perseguire gli interessi elettorali del primo cittadino. Rapporti
così extra ordinem, da aver consentito alla ragioniera di
prevaricare ogni altro assessore e dirigente e di gestire il bilancio
in modo scorretto, rispondendo solo alle esigenze ed ai voleri del
sindaco. Il quale, riporta l’articolo richiamando passaggi della
sentenza, era perfettamente a conoscenza dei contrasti insorti tra la
dirigente e gli assessori al bilancio, coisì intensi che a un certo
punto il sindaco ha tenuto direttamente su di sé la competenza
connessa, spostando l’ultimo degli assessori venuto in contasto con
la ragioniera ad altra funzione.
Ma, ai fini di quanto interessa in
questo articolo, la Corte d’appello evidenzia che il sindaco, pur
sapendo che la dirigente Fallara era stata valutata negativamente dal
Nucleo valutazione ovvero non aveva raggiunto gli obiettivi
prefissati, ha continuato a riconfermare il di lei incarico,
attribuendole una fiducia incondizionata ed ampi poteri di azione.
Questo per la semplice ragione che tra sindaco e dirigente il
soffocante rapporto aveva fatto sì che il primo dettasse ciò che
c’era da fare e la seconda vi desse esecuzione acritica “in
un rapporto quasi esclusivo di reciproco scambio ed interesse”.
Come si nota, la valutazione dell’operato del dirigente, effettuata
dal Nucleo competente, nel caso di specie non ha avuto nessuna
utilità, nemmeno per attuare quanto, pure, prevede l’articolo 21
del d.lgs 165/2001, che alla valutazione negativa riconnette
l’impossibilità della riconferma dell’incarico, se non la sua
revoca anticipata o addirittura la risoluzione del rapporto di
lavoro.
Questi fatti di cronaca sono solo le punte emerse di un quotidiano
composto da migliaia di casi simili.
Dimostrano, da un lato, che di una riforma della dirigenza c’è
bisogno. Ma che l’impostazione data dall’impianto della Madia è
totalmente sbagliato.
Infatti, quell’impianto finisce per aumentare a dismisura proprio
la discrezionalità nell’assegnare gli incarichi, estraendoli dal
ruolo unico, senza alcuna selettività dimostrabile, mentre al
contempo non assegna alcun ruolo e funzione alla valutazione, come ha
inevitabilmente stigmatizzato il Consiglio di stato nel suo parere 14
ottobre 2016, n. 2113 sulla riforma.
Poichè il rapporto soffocante non necessariamente (anche se più
probabilmente) si instaura tra politica e dirigenti a contratto o
manager pubblici, l’idea di un ruolo unico potrebbe non rivelarsi
erronea.
A patto che, però, la “selezione” dei dirigenti sia sottratta
all’organo di governo e sia svolta da un soggetto totalmente terzo,
che gestisca in modo autonomo il ruolo e selezioni i dirigenti,
avviandoli all’incarico senza alcun intervento della politica. La
quale si reimpossessa della necessaria competenza ad incidere
sull’operato dei dirigenti, esattamente valutando con assoluta
serietà il loro operato, ma anche qui attraverso organismi terzi,
non incaricati dagli enti, i quali organismi dispongano anche
direttamente di poteri sanzionatori nei confronti dei dirigenti non
in grado di raggiungere gli obiettivi fissati, ivi compresa la
possibilità di disporre la revoca anticipata dell’incarico o di
proporre all’organo gestore del ruolo unico il licenziamento per
giustificato motivo soggettivo.
In questo modo, la politica potrebbe finalmente fare il proprio
mestiere: pianificare le azioni ritenute meglio rispondenti alle
esigenze della popolazione amministrata.
Se, poi, altri organi indipendenti venissero chiamati a controllare
non solo gli incarichi del gestore del ruolo unico o le revoche, ma
anche e in via preventiva gli atti concreti, in modo da eliminare la
pressione che comunque la politica non riesce a non fare sulla
gestione, il quadro si completerebbe e si potrebbe provare una svolta
vera.
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