sabato 25 marzo 2017

La morsa soffocante della politica sulle nomine di manager e dirigenti


Pur azzerata dalla sentenza della Corte costituzionale 251/2016, la riforma della dirigenza avviata dalla legge Madia arde sotto la cenere ed è sostanzialmente solo rinviata a tempi migliori.
Di per sé ciò non sarebbe un male. Nessuno può oggettivamente negare che una riforma agli assetti ed alle competenze dei dirigenti pubblici sia effettivamente utile, ovviamente laddove sia realmente finalizzata a rendere più efficiente la gestione degli apparati amministrativi o della composita galassia delle società partecipate.

Un punto dovrebbe essere chiaro: qualsiasi riforma dovrebbe avere come obiettivo principale la liberazione della dirigenza dal peso soffocante della politica, anzi dell’appartenenza partitica o della forte condivisione amicale o, appunto, partitica, come fonte dell’assegnazione degli incarichi o della valutazione dell’operato del manager pubblico.
La riforma della dirigenza disposta con diverse “ondate” nel corso degli anni ‘90 del secolo scorso, fino alle riforme Bassanini, poi in parte corretta dalle successive riforme Frattini e Brunetta, è partita dalla necessità di rendere attuali e concreti, nella gestione, i principi desunti dagli articoli 97 e 98 della Costituzione: efficienza dell’azione amministrativa, imparzialità, accesso per concorso e obbligo per i pubblici dipendenti di prestare fedeltà alla Nazione, non ad una certa formazione partitica.
La traduzione di questi principi è l’ulteriore principio di separazione tra funzione politica e funzione gestionale, posto dall’articolo 4 del d.lgs 165/2001, commi 1 e 2. Il primo afferma: “Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti”. Il secondo completa: “Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati”.
Pur nella necessaria divisione delle competenze, vi sono almeno tre modalità con le quali gli organi di governo esercitano la funzione di indirizzo e controllo, impedendo alla dirigenza di divenire un corpo estraneo, un potere separato invece che un sistema servente dotato di autonomia gestionale:
1) la fissazione degli obiettivi politici ed amministrativi, anche attraverso la negoziazione delle risorse necessarie allo scopo;
2) l’assegnazione degli incarichi dirigenziali ad i soggetti più idonei alla realizzazione dei programmi;
3) la valutazione dell’operato dei dirigenti, fondamentale ai fini di un controllo in corso di gestione ed a conclusione della stessa, anche ai fini delle scelte da compiere scaduti gli incarichi, in vista della loro nuova assegnazione.
E’ esperienza comune che queste modalità, pur essendo espressamente regolate in vario modo dalla normativa ed ulteriormente enfatizzate dalla disciplina dell’anticorruzione, risultino ampiamente e diffusamente aggirate. Le norme ed i principi posti a regolare il funzionamento dell’organizzazione ed i rapporti tra politica e dirigenza, lungi dall’essere applicate, sono spesso oggetto degli strumenti più vari per eluderle. Perchè al rapporto stretto tra politica e gestione proprio non si vuole rinunciare.
Finisce, quindi, che gli incarichi per lo più si trasformino in arbitrarie decisioni, mascherate da scelte selettive, mentre la valutazione finale proprio non ha alcuna rilevanza. Due esempi.
Nel suo articolo su phastidio.net “Cacciatori di foglie di fico”, l’attento commentatore di questioni soprattutto economiche Mario Seminerio si sofferma sulle recenti nomine governative nelle principali società partecipate del Governo e sulle risposte del Ministro Padoan nel corso di un question time richiesto dal Parlamento sul tema.
Il Ministro ha fatto presente che per selezionare i manager delle società si è attivata “una procedura di selezione svolta con il supporto di primarie società di consulenza per la selezione e il reclutamento manageriale, sulla base di criteri di professionalità e secondo prassi di uso comune di mercato, in linea con quanto disposto da una specifica direttiva”. Insomma, il Governo si è rivolto a società di “cacciatori di teste”.
Fin qui tutto bene: non essendo obbligatorio effettuare concorsi per i manager delle aziende, selezionarli mediante sistemi operanti nel mercato privato appare corretto.
Poi, come rileva il Seminerio, qualcosa sfugge sulle ragioni delle nomine. Per il vertice di Leonardo Finmeccanica, Padoan spiega così la nomina: “in considerazione della peculiarità del settore e della mancanza di aziende simili in Italia, nonché della natura internazionale dell’attività, si è ritenuto opportuno privilegiare l’esperienza nello sviluppo internazionale e la capacità di gestire situazioni di forte complessità aziendale”.
Non possiamo che fare nostra l’osservazione di Seminerio: “con simili “argomentazioni”, è possibile giustificare ex post qualsiasi nomina”.
Basta in effetti evidenziare che “il dirigente o il manager dispone delle caratteristiche idonee a rivestire l’incarico affidatogli in considerazione dei contenuti e degli obiettivi fissati, vista anche l’esperienza posseduta e la complessità operativa” ed è pronta la motivazione per qualsiasi incarico, tale da rendere qualsiasi procedura selettiva, realizzata o meno che sia mediante società di cacciatori di teste, nulla più se non una cortina fumogena, per far apparire che una scelta totalmente arbitraria sia guidata, invece, da una selezione meritocratica. Evidentemente, invece, assente.
Le argomentazioni buone per tutti gli incarichi di cui parla il Seminerio e riscontrabili praticamente in tutti gli incarichi nei quali siano maggiori i profili di discrezionalità degli organi di governo (dunque, le nomine nelle società e gli incarichi dei dirigenti a contratto) sono, a ben vedere, sostanzialmente solo la descrizione delle competenze necessarie, gli skills direbbero quelli che conoscono il latinorum.
Il fatto è che le procedure selettive non dovrebbero servire per affermare, poi, che il selezionato possiede quelle competenze, ci mancherebbe pure che non le avesse; le ragioni delle scelte compiute dovrebbero spiegare perché mai il selezionato disponga delle abilità necessarie in misura maggiore rispetto agli altri che abbiano partecipato alla selezione: ma, questa spiegazione non è praticamente mai dato reperirla.
Ecco, dunque, che gli incarichi si traducono in procedure solo apparentemente selettive e complesse (anche con denari spesi per incaricare gli head hunters, con dubbia efficacia), utili solo per coprire scelte già prefabbricate a tavolino. Senza che, per altro, vi siano possibili rimedi. Se un ente deve incaricare un avvocato anche solo per un parere da poche centinaia di euro, il codice dei contratti impone procedure certamente gravose e motivazioni estremamente stringenti; se per caso capita di dover assegnare un incarico professionale anch’esso da poche centinaia di euro, l’articolo 7, comma 6, del d.lgs 165/2001 impone procedure selettive sotto l’occhio della Corte dei conti e la mancata pubblicazione del provvedimento di assegnazione fa scaturire i fulmini, i tuoni e l’apertura delle cateratte della responsabilità erariale. Invece, incarichi da centinaia o decine di migliaia di euro all’anno possono essere assegnati in via sostanzialmente arbitraria.
Andiamo alla valutazione, anche qui traendo spunto dalla cronaca. Una cronaca, purtroppo, anche tragica, relativa alle vicende tormentatissime del dissesto del comune di Reggio Calabria, che ha visto anche il decesso in circostanze non del tutto chiarite della ragioniera generale dell’ente.
Sul giornale on line Il Corriere della Calabria, l’articolo dall’eloquente titolo “Il bilancio di Reggio una fabbrica di falsi”, sintetizza le motivazioni della conferma della condanna dell’ex sindaco Scopelliti da parte della Corte d’appello, evidenziando appunto un rapporto soffocante, intensissimo tra il sindaco e la dirigente, nel gestire il bilancio in modo dissennato, al solo scopo di perseguire gli interessi elettorali del primo cittadino. Rapporti così extra ordinem, da aver consentito alla ragioniera di prevaricare ogni altro assessore e dirigente e di gestire il bilancio in modo scorretto, rispondendo solo alle esigenze ed ai voleri del sindaco. Il quale, riporta l’articolo richiamando passaggi della sentenza, era perfettamente a conoscenza dei contrasti insorti tra la dirigente e gli assessori al bilancio, coisì intensi che a un certo punto il sindaco ha tenuto direttamente su di sé la competenza connessa, spostando l’ultimo degli assessori venuto in contasto con la ragioniera ad altra funzione.
Ma, ai fini di quanto interessa in questo articolo, la Corte d’appello evidenzia che il sindaco, pur sapendo che la dirigente Fallara era stata valutata negativamente dal Nucleo valutazione ovvero non aveva raggiunto gli obiettivi prefissati, ha continuato a riconfermare il di lei incarico, attribuendole una fiducia incondizionata ed ampi poteri di azione. Questo per la semplice ragione che tra sindaco e dirigente il soffocante rapporto aveva fatto sì che il primo dettasse ciò che c’era da fare e la seconda vi desse esecuzione acritica “in un rapporto quasi esclusivo di reciproco scambio ed interesse”.
Come si nota, la valutazione dell’operato del dirigente, effettuata dal Nucleo competente, nel caso di specie non ha avuto nessuna utilità, nemmeno per attuare quanto, pure, prevede l’articolo 21 del d.lgs 165/2001, che alla valutazione negativa riconnette l’impossibilità della riconferma dell’incarico, se non la sua revoca anticipata o addirittura la risoluzione del rapporto di lavoro.
Questi fatti di cronaca sono solo le punte emerse di un quotidiano composto da migliaia di casi simili.
Dimostrano, da un lato, che di una riforma della dirigenza c’è bisogno. Ma che l’impostazione data dall’impianto della Madia è totalmente sbagliato.
Infatti, quell’impianto finisce per aumentare a dismisura proprio la discrezionalità nell’assegnare gli incarichi, estraendoli dal ruolo unico, senza alcuna selettività dimostrabile, mentre al contempo non assegna alcun ruolo e funzione alla valutazione, come ha inevitabilmente stigmatizzato il Consiglio di stato nel suo parere 14 ottobre 2016, n. 2113 sulla riforma.
Poichè il rapporto soffocante non necessariamente (anche se più probabilmente) si instaura tra politica e dirigenti a contratto o manager pubblici, l’idea di un ruolo unico potrebbe non rivelarsi erronea.
A patto che, però, la “selezione” dei dirigenti sia sottratta all’organo di governo e sia svolta da un soggetto totalmente terzo, che gestisca in modo autonomo il ruolo e selezioni i dirigenti, avviandoli all’incarico senza alcun intervento della politica. La quale si reimpossessa della necessaria competenza ad incidere sull’operato dei dirigenti, esattamente valutando con assoluta serietà il loro operato, ma anche qui attraverso organismi terzi, non incaricati dagli enti, i quali organismi dispongano anche direttamente di poteri sanzionatori nei confronti dei dirigenti non in grado di raggiungere gli obiettivi fissati, ivi compresa la possibilità di disporre la revoca anticipata dell’incarico o di proporre all’organo gestore del ruolo unico il licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
In questo modo, la politica potrebbe finalmente fare il proprio mestiere: pianificare le azioni ritenute meglio rispondenti alle esigenze della popolazione amministrata.
Se, poi, altri organi indipendenti venissero chiamati a controllare non solo gli incarichi del gestore del ruolo unico o le revoche, ma anche e in via preventiva gli atti concreti, in modo da eliminare la pressione che comunque la politica non riesce a non fare sulla gestione, il quadro si completerebbe e si potrebbe provare una svolta vera.

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