Le province sono sempre più sull'orlo del dissesto e la manovra 2017 non assicura loro la copertura del buco da 651 milioni creato dalla devastante riforma Delrio, limitandosi a un palliativo da 100 milioni per le scuole e ad una copertura parziale del buco, tanto che si riconferma la possibilità di approvare bilanci solo annuali e di utilizzare l'avanzo, sia destinato, sia libero, per tappare il dissesto.
Eppure, per qualcuno, oltre a questi seri problemi, c'era anche quello dell'assunzione del direttore generale.
Cioè di una figura solo eventuale, molto costosa, la cui utilità per l'efficienza e l'efficacia del sistema, pur enunciate dall'articolo 108 del d.lgs 267/2000, è sempre sfuggita ai radar. Talmente poco esaltante è stata l'esperienza del direttore generale o, in inglesiano (l'inglese pseudo manageriale alla carbonara che si usa nella PA), "city manager", che nel 2009 venne abolito in tutti i comuni, tranne quelli con popolazione superiore ai 100.000 abitanti e, appunto, nelle province.
Ma, tre anni fa, la micidiale legge 190/2014 ha, come noto, vietato qualsiasi tipo di assunzione per le province: tra le quali, evidentemente, anche quella del direttore generale esterno. Lo scopo era evidente: in una fase nella quale la riforma Delrio abbinata proprio alla legge 190/2014 faceva strame dei bilanci provinciali, sarebbe parso semplicemente assurdo consentire assunzioni di personale, laddove le dotazioni organiche dovevano essere dimezzate e migliaia di dipendenti accompagnati alla porta verso altre amministrazioni.
Come è noto, se per un verso l'operazione di trasferimento dei dipendenti provinciali si è conclusa (ma solo in parte: circa 5.500 dipendenti dei servizi per il lavoro non sanno ancora presso quale ente andranno a prestare servizio), per altro verso la situazione finanziaria delle province è tutt'altro che brillante, come dimostrano proprio le "pezze" che per il terzo anno si mettono in modo raccogliticcio ai loro bilanci, buttando in là il momento nel quale tutte andranno in dissesto. Dunque, pensare alla necessità di assumere il direttore generale, in un mondo normale, non sarebbe apparso oggettivamente una delle priorità necessarie.
Però, qualcuno ha avuto la brillante idea di inserire nel testo del decreto legge la seguente norma: "Il divieto di cui all’articolo 1, comma 420, lettera c), della legge 23 dicembre 2014, n.190 non si applica per la figura di direttore generale delle province delle regioni a statuto ordinario".
A chi appartenga la "manina" che ha scritto questa disposizione francamente paradossale, non è dato saperlo. Si spera che non sia stato un suggerimento dell'Upi (Unione Province Italiane), nella convinzione che l'associazione abbia gatte ben più rognose da pelare.
Sta di fatto che la Ragioneria Generale dello Stato, in un sussulto di serietà, ha negato il visto a questa previsione. Come ha negato il visto all'intento anche di sbloccare le assunzioni nelle province per dirigenti o posizioni organizzative relativi a fantomatiche "figure non fungibili", che nella PA oggettivamente non pare possibile possano nemmeno esistere, ma vengono evocate per aggirare divieti e vincoli alle assunzioni.
La "manina" che ha scritto la norma cassata dal Mef se ne dovrà fare una ragione. Ma, siamo certi, che anche nelle province non si leveranno grida e lai di dolore per l'impossibilità di assumere dall'esterno il direttore generale. Per oltre 100 anni le province (e anche i comuni) sono andati avanti in qualche modo senza i direttori generali; per il lasso di tempo molto più breve nel quale è stato possibile avvalersi di questa figura, ad accorgersi del loro operato sono stati sostanzialmente i bilanci e le buste paga. Pare altamente probabile, quindi, che se ne possa fare a meno, senza scompensi e senza rimpianti. Consapevoli che i tentativi per aprire le porte a dirigenti cooptati direttamente dalla politica, come appunto i direttori generali, saranno sempre in agguato.
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