I voucher
sono morti, che vivano i voucher. E, con loro i tirocini. L’eliminazione
affrettata dello strumento del voucher ha messo in rilievo due elementi:
1) l’assenza
di strumenti agili e semplici per soddisfare fabbisogni lavorativi immediati;
2) la
tendenza fin troppo scoperta ad utilizzare strumenti, astrattamente utili, in
modo deviante, così da trasformare i voucher, ma lo stesso può dirsi per i
tirocini, in metodi per abbassare semplicemente il costo del lavoro.
La
circostanza che il voucher si pensi possa essere sostituito da una sorta di
contratto breve con un netto orario di 9 euro, invece dei 7,5 euro del sistema
dei voucher, la dice abbastanza lunga.
Altrettanto
rimarchevole è una evidente tendenza all’incremento del ricorso ai tirocini,
anche come rimedio al voucher utilizzato in modo non proprio conforme al suo
scopo e, cioè, per prolungate e ripetute attività lavorative “ordinarie”.
E’ chiaro che
finchè il costo del lavoro per le imprese resti elevato quanto lo è in Italia,
qualsiasi impresa sarà portata ad utilizzare gli strumenti di
flessibilizzazione, allo scopo di abbassare i costi. Voucher e tirocini, a
questo scopo un po’ “ellittico” rispetto
alla loro reale vocazione si prestano molto bene.
Non sarebbe,
allora, male provare a modificare il paradigma e pensare ad altro. Per esempio,
prendere atto che i tirocini di inserimento lavorativo troppo spesso sono, in
effetti, una forma di dumping. E allora: perché non sostituirli con forme di
lavoro subordinato vere e proprie a tempo determinato, con sottoqualificazione
stipendiale, per compensare il deficit di competenze del lavoratore e l’attività
di addestramento a carico del datore? La proposta che si lanciò nell’ormai
lontano 2013 (riportata sotto) appare oggi di ancora maggiore attualità.
In quanto ai
voucher: giusto elevarne il lordo complessivo e, forse, anche 9 euro netti
appaiono ridotti. Ma, perché non ammettere un sistema di lavoro subordinato
brevissimo, con contratti da attivare esclusivamente on line su piattaforma
messa a disposizione dallo Stato (tramite Anpal o tramite sistemi informativi
regionali) ai datori, obbligando, in questo caso a specificare la “causa”
contrattuale a motivazione di questo tipo di contratto? Tutto risulterebbe
tracciabile e la causalità contrattuale potrebbe anche evitare di imporre tetti
ai compensi erogabili dal datore e percepibili dal lavoratore: sussistendo effettivamente
una verificabile ragione di attivazione del voucher, anche a più riprese in un
anno, perché dover non consentire ai lavoratori di cercare opportunità di
inserimento nel mercato come questa, una volta che il sistema informativo, con
la tracciabilità, imponga finalmente il rispetto di un minimo salariale che non
costituisca dumping?
Estratto da
La
regolazione dei tirocini formativi in Italia dopo la legge Fornero, (ADAPT LABOUR
STUDIES e-Book series n. 16, disponibile qui)
Per una revisione dei tirocini: apprendimento e lavoro
*
di Luigi
Oliveri
Il boom dei
tirocini soffoca l’apprendistato e impone un ripensamento deciso dell’istituto.
Negli ultimi mesi è possibile osservare (pur in assenza di una stima ufficiale)
un netto incremento del ricorso ai tirocini, al quale si affianca, per altro,
la propensione evidente delle aziende (in passato molto meno tracciabile) di
compensare in modo anche importante l’attività svolta. La quasi totalità dei
tirocini prevede una “borsa” e molto significativa è la percentuale di rimborsi
che vanno ben oltre i 600 euro mensili. Tutto questo ha, ovviamente, una
spiegazione. Il tirocinio non è un rapporto di lavoro vero e proprio, non
comporta sostanzialmente alcun onere amministrativo (tranne la produzione del
progetto formativo e la stipulazione della convenzione con i soggetti
promotori), richiede solo l’assicurazione obbligatoria e non impone attività di
sostituto d’imposta e di versamento di oneri contributivi connessi con la
“borsa”. Insomma, per i datori di lavoro, è estremamente conveniente attivate
un’attività “lavorativa” di semplicissima gestione, che non comporta vincoli
particolari, non sta sotto la spada di Damocle dell’articolo 18, pur lasciando
aperta la porta a possibili sviluppi di vera e propria contrattualizzazione del
rapporto. Per altro verso, le persone in cerca di lavoro, data la scarsa
propensione dei datori di avviare contratti di lavoro subordinati a tempo
indeterminato, ma, per la verità, anche di natura più flessibile, traggono un
vantaggio economico (spesso contenuto, ma talvolta anche significativo) dal
tirocinio, e spesso lo considerano come un’opportunità irrinunciabile per
tentare di restare o fare ingresso nel mondo del lavoro. Le reciproche evidenti
convenienze di datori e lavoratori nell’utilizzo dei tirocini, tuttavia, stanno
finendo per distorcerne le finalità. I tirocini formalmente di
“inserimento/reinserimento lavorativo” finiscono per essere rapporti lavorativi
fine a se stessi, mediante i quali le aziende, che non intendono o possono
compiere investimenti impegnativi e di lunga durata, acquisiscono comunque
forze lavorative, spesso da adibire a mansioni elementari, fino a sei mesi. Si
accollano l’onere di dover periodicamente acquisire e formare nuovi
tirocinanti, unica vera controindicazione ad un rapporto pseudo lavorativo per
il resto molto vantaggioso, a fronte della possibilità di “coprire” fabbisogni
giudicati non stabili nel tempo. Il rischio che il tirocinio si riduca ad una
sorta di minijob alla tedesca, con ancora minori garanzie, è comprovato dalla
scarsa qualità dei progetti formativi, i quali spessissimo si riducono nella
mera elencazione delle mansioni del profilo professionale, a conferma che il
fine lavorativo vero e proprio prevale su quello formativo. Nei riguardi dei
giovani in particolare, il tirocinio così inteso finisce per pregiudicare
l’efficacia di un canale di ingresso nel mercato del lavoro che dovrebbe essere
considerato privilegiato, e cioè l’apprendistato. Sicuramente, a sfavore del
contratto di apprendistato, che in effetti è utilizzato in percentuali
inferiori al 5% delle altre forme contrattuali, giocano la circostanza che si
tratta di un lavoro subordinato a tempo indeterminato: la libera recedibilità
al termine del periodo minimo non viene percepita o considerata dalle aziende e
dai lavoratori come condizione di massima flessibilizzazione possibile; in
secondo luogo, trattandosi di un vero e proprio contratto di lavoro
subordinato, esso prevede non solo tutti gli oneri amministrativi, fiscali e
previdenziali tipici, ma aggiunge anche quello della formulazione e gestione di
progetti formativi piuttosto complessi e dell’obbligo di una formazione vera e
propria, da certificare. Tutti oneri assenti, o molto più sfumati, nel
tirocinio. Occorre, allora, evitare che il tirocinio possa essere travisato
come strumento per creare una sorta di dumping sleale contro le forme
contrattuali più virtuose. A questo scopo, la normativa di regolamentazione
dovrebbe farsi maggiormente rigorosa. Non agire esclusivamente o quasi, come si
evince dal recente accordo Stato-Regioni, sul ruolo del promotore e del tutor
didattico e sull’obbligatorietà di una borsa in un minimo, 300 euro, ben
inferiore a quello che in via di prassi si registra. Pare necessario un
profondo ripensamento dell’istituto. Il tirocinio vero e proprio, inteso come
“esperienza” e non vero e proprio rapporto di lavoro dovrebbe poter rimanere
per pochi e tassativi casi: a) Ovviamente, i tirocini curriculari, cioè quelli
svolti a completamento ed integrazione di attività didattiche ad ogni livello,
dalla formazione professionale agli studi universitari; b) I tirocini di
orientamento: da limitare, tuttavia, esclusivamente ai casi di lavoratori che
abbiano acquisito di recente un titolo di studio, con la obbligatoria assoluta
conformità del tirocinio rispetto al percorso di studi o formazione che lo
presupponga; c) I tirocini quali misura di un complesso progetto di
accompagnamento al lavoro, riservato a categorie di lavoratori svantaggiati;
non si deve trattare, dunque, di tirocini promossi e gestiti autonomamente, ma
di azioni inserite nell’ambito di più complessi e strutturati progetti di aiuto
ai disoccupati, nell’ambito dei quali costituiscano uno tra i tanti “moduli”
obbligatori (insieme a colloqui di orientamento, bilanci di competenze,
esperienze laboratori ali, ecc.); d) I tirocini a sostegno dei disabili e dei
migranti, confermando pienamente la vigenza della normativa in essere. In tutti
gli altri casi, invece di parlare di tirocini, forse si potrebbe aprire la
strada ad un sistema di apprendistato semplificato a tempo determinato. Veri e
propri contratti di lavoro subordinato, di durata non superiore a 9 mesi ad
esempio, caratterizzati dall’acausalità, cioè dalla non necessità di
evidenziare le ragioni giustificative previste dall’articolo 1 del d.lgs. n.
368/2001, essendo sufficiente la causa mista formativa tipica dell’apprendistato.
Si potrebbe ammettere la tipica sotto qualificazione iniziale
dell’apprendistato. In questo modo, si attiverebbero veri e propri rapporti di
lavoro subordinato, con le necessarie coperture assicurative e previdenziali;
il datore potrebbe accedere a sgravi crescenti in caso di prolungamento del
rapporto dai primi 3 ai successivi ulteriori 3 e fino ai 9 mesi massimi di durata
ed accedere ad un più ampio ancora sistema premiale (da diluire, però, nel
tempo) nell’ipotesi di trasformazione in rapporto di apprendistato vero e
proprio o, comunque, di lavoro subordinato di durata superiore ai 12 mesi. I
progetti formativi dovrebbero divenire più rigorosi, ma risulterebbe, in
effetti, più lineare la loro stretta connessione al mansionario della qualifica
e del profilo. Pur non essendo più tirocinio, ma vero e proprio rapporto di
lavoro, per le aziende i vantaggi resterebbero comunque rilevanti: gli sgravi
contributivi, la qualificazione del contratto a tempo determinato con la
conseguente flessibilità, la possibilità di aver realmente testato in posizione
lavorativa effettiva il lavoratore, una minore onerosità del rapporto. Si
accrescerebbero i vantaggi anche per i lavoratori, che accederebbero non ad una
mera “esperienza”, bensì ad un vero e proprio lavoro, maturando contributi ed
abilità lavorative, da registrare poi, a cura dei servizi per il lavoro, nella
scheda anagrafico-professionale o libretto formativo. I servizi per il lavoro,
poi, potrebbero essere coinvolti direttamente nell’aiuto nella predisposizione
dei progetti formativi e nella covalutazione degli esiti progettuali.
* Il presente
articolo è stato pubblicato anche in Bollettino ADAPT, 2013, n. 24. Per una
revisione dei tirocini: apprendimento e lavoro 405 @ 2013 ADAPT University Press
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