La vicenda dell’annullamento degli incarichi di 5
direttori di musei si avviluppa e connette strettamente con altri fatti,
verificatisi contestualmente, quali le dimissioni del direttore generale della
Rai, il nuovo tentativo di sanare gli incarichi da dirigente persino
costituzionalmente illegittimi ai funzionari delle Agenzie fiscali, la riforma
del pubblico impiego e la riforma della destinazione dei proventi delle
sanzioni del codice della strada, per finanziare tutta la spesa corrente, ivi
compresa quella del personale di polizia locale.
Andiamo con ordine. Partendo, intanto,
dall’immancabile articolo di Sergio Rizzo, come sempre pronto a descrivere le
male fatte dell’amministrazione solo come conseguenza di intenzionali
boicottaggi di giudici o burocrati, mai quale effetto, invece, di leggi o atti
amministrativi sbagliati di chi regge le sorti dell’esecutivo.
Già il titolo dell’articolo pubblicato su Il
Corriere della sera del 27 maggio è piuttosto “programmatico” nell’indirizzare
(non vorremmo scrivere “sviare”) il lettore: “Gli stranieri a capo dei musei
italiani? I giudici sono uguali, i giudizi opposti”. Dietro al
titolo si nasconde la teoria in filigrana: sicuramente la sentenza del Tar
Lazio con la sentenza 6171 è discutibile, perché vi sono valutazioni opposte a
quelle espresse.
A parte che proprio per la consapevolezza della
fallibilità dei giudici il legislatore ha previsto due gradi di giudizio e a
parte, ancora, che gli esiti di una sentenza sono influenzati certamente dalla
specifica valutazione del giudice, ma ancor più dai fatti, dagli allegati, dai
documenti e dalla strategia processuale degli avvocati, sicchè è del tutto
evidente che possano esservi sentenze anche in apparenza contraddittorie.
Sottolineamo “in apparenza”, perché le sentenze non sono uno standard,
applicabile in modo eguale a qualsiasi caso (come la lettera di Totò scrivano
in Miseria e nobiltà, scritta due anni prima per un quarantenne e, quindi,
adeguata due anni dopo ad un quarantaduenne).
In ogni caso, in realtà il Rizzo non evidenzia, a
ben vedere, un contrasto giurisprudenziale tra due Tar o tra Tar e Consiglio di
stato (omettendo, per altro, di ricordare che il Tar Lazio ha anche respinto
alcuni ricorsi sempre sulle nomine nei musei), ma rimarca il giudizio opposto
tra il Tar Lazio ed i consulenti giuridici del ministero. Leggiamo
dall’articolo del Rizzo: “Argomentano senza dubbio alcuno i giudici del
Tribunale amministrativo del Lazio Leonardo Pasanisi, Stefano Toschei e
Francesco Arzillo, che «il bando di selezione non poteva ammettere la
partecipazione al concorso di cittadini non italiani». Dunque la nomina di
Assman è illegittima. Altrettanto chiaramente, però, il capo dell'ufficio
legislativo dei Beni culturali, in una nota per il ministro Franceschini
propedeutica a quella selezione firmata insieme al suo collega della Pubblica
amministrazione Bernardo Mattarella, dice l'esatto contrario: «Non solo non sussiste
alcun impedimento giuridico al conferimento dell'incarico di direttore di museo
statale a stranieri, ma in base a giurisprudenza consolidata della Corte di
giustizia dell'Unione Europea sarebbe in violazione del diritto europeo e
nazionale riservare detto incarico a cittadini italiani». E si da pure il caso
che l'estensore di questo parere insieme a Mattarella sia il consigliere di
Stato Paolo Carpentieri. Dunque un magistrato amministrativo, collega di
Pasanisi e degli altri giudici del Tar. Non solo: in quanto consigliere di
Stato, potenzialmente giudice d'appello del medesimo Tar. E dunque per
coerenza, se gli dovesse mai toccare un ricorso contro questo pronunciamento
del Tar Lazio, non potrebbe che ribaltarlo”.
Fantastico, no? Secondo il Rizzo una sentenza del
Tar ed un parere del capo dell’ufficio legislativo sono la stessa cosa, anche
perché alcuni capi degli uffici legislativi sono magistrati amministrativi,
perfino del Consiglio di stato.
Siamo, dunque, al punto che si possa ritenere
l’esito di un processo e l’esercizio della funzione giurisdizionale uguale
all’attività amministrativa di supporto ad un provvedimento amministrativo. Né
Rizzo dà adeguato conto a due ulteriori circostanze:
1)
il Tar è un giudice collegiale, nel quale, quindi non valgono
le singole posizioni di un magistrato, ma vengono considerate e ponderate
collegialmente le visioni di tutti i componenti; un parere, invece, è specifica
produzione di un’unica mente;
2)
il Tar agisce quale organo indipendente dalla politica; il
capo di un ufficio legislativo è dipendente del Ministro di turno, dal quale è
stato incaricato; non è difficile per nulla immaginare che al proprio superiore
il capo dell’ufficio legislativo indichi che l’atto adottato è perfettamente
legittimo, soprattutto se i contenuti dell’atto sono in tutto o in parte stati
elaborati esattamente dal medesimo soggetto che in merito a detti contenuti
esprime il parere.
Trattare in modo tanto superficiale questioni
tecniche così delicate, ma tutto sommato precise e facili da analizzare, non è
di nessuna utilità per comprendere quel che avviene.
E’ fortissima la sensazione della perdita
irrimediabile di alcuni valori democratici. Da tempo si sente continuamente
parlare della necessità di restituire il “primato della politica”. Peccato che
questa mobilissima indicazione abbia assunto un’accezione del tutto distorta:
per primato della politica si intende, infatti, la libertà da ogni vincolo
anche di legge, per poter fare ciò che la politica ritiene opportuno perfino
contro la legge.
Il “primato della politica”, invece, si esercita
esattamente mediante l’approvazione delle leggi ed è un primato che spetta
(dovrebbe spettare) al Parlamento, che è (dovrebbe essere) espressione
dell’indirizzo politico manifestato dalla maggioranza dei cittadini. Il primato
della politica, quindi, null’altro è se non il primato della legge. E’ la
legge, alla quale i giudici debbono conformarsi, che garantisce che il separato
potere giurisdizionale non vada oltre i suoi confini. E’ sempre la legge, da
cui deriva il principio di legalità degli atti amministrativi, a garantire che
il Governo, titolare del potere esecutivo, non abusi delle sue competenze,
adottando atti contrari a legge. E i Tar servono esattamente a verificare (a
posteriori) che gli atti amministrativi siano stati davvero conformi a legge.
L’operato dei Tar, dunque, è preziosissimo, perché è
proprio un baluardo per il primato della politica, se correttamente inteso.
Il problema è, invece, che appunto del primato della
politica si dà l’accezione delle “mani libere”. Qualsiasi ministro, presidente
di regione, sindaco, assessore di turno vorrebbe che le leggi fossero solo,
come dire, un “consiglio”, da seguire o meno in base al proprio intendimento o
capriccio. Sicchè, quando arriva qualcuno che fa ricordare che la legge è
proprio il primato della politica e che, dunque, va rispettata, piaccia o non
piaccia, allora è quel qualcuno il problema e non l’atto contrario a legge.
Torniamo sulla questione. Uno dei “ nodi” delle
nomine sta nell’ammissione alla curiosa e opaca procedura “selettiva” di
persone straniere.
E’ forte il sospetto che il tema del direttore del
museo “straniero” costituisca un argomento estremamente intrido di
provincialismo, sia che si perori la causa dell’esotismo dell’italiano parlato
con accento forestiero (che, diciamolo, costituisce un irresistibile aplomb,
specie per le comparsate in TV), sia che si voglia difendere a tutti i costi
“l’italianità”. Non ci pronunciamo, dunque, su questo merito e diamo anche per
buono ed opportuno che la guida di musei, qualcosa che si avvicina molto ad
attività tra lo scientifico e l’artistico, si possa aprire ad esperienze di
soggetti non italiani, che per l’amore del patrimonio artistico italiano, che è
universale, hanno studiato questo patrimonio e lo vivono e sentono come se
fossero davvero italiani. Del resto, chi di noi ammira le opere di Velazquez o
Goya, in quel momento si sente certamente un po’ spagnolo.
Sta di fatto che, comunque, è la legge a regolare
l’accesso di stranieri agli impieghi pubblici. In proposito, cosa dispone la
legge? L’articolo 51, comma 1, della Costituzione, ad esempio, dispone: “Tutti
i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici
pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i
requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi
provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Chi sono questi
“cittadini”? E’ ovvio: si tratta dei cittadini italiani, perché la Costituzione
regola esattamente l’ordinamento giuridico italiano.
E’ per questa ragione che dal suo fondamento, la
normativa sull’accesso agli impieghi pubblici ha sempre previsto, quale
indefettibile requisito soggettivo per accedere al lavoro pubblico, la
cittadinanza italiana.
Ma, poi, l’Italia è entrata a far parte della Ue. Il
che impone, come noto, aperture ampie alla circolazione oltre che di capitali e
impresa, anche del lavoro e proprio dei “cittadini”, intesi come cittadini
europei.
Pertanto, l’accezione inizialmente chiusa dell’articolo
51, comma 1, della Costituzione, si dilata con l’articolo 38 del d.lgs 165/2001
(testo unico sul lavoro pubblico), il cui comma 1 dispone: “I cittadini
degli Stati membri dell'Unione europea e i loro familiari non aventi la
cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o
del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso
le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto
di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale”.
Dunque, possono accedere al lavoro pubblico:
1) i
cittadini italiani;
2) i
cittadini degli stati membri della Ue e anche i loro familiari pur non aventi
la cittadinanza (questi ultimi ammessi a seguito della legge comunitaria
97/2003), ma a condizione che:
a. il
lavoro presso la PA non implichi esercizio diretto o indiretto di pubblici
poteri;
b. il
lavoro non attenga alla tutela dell’interesse nazionale.
Piuttosto chiaro, no? Evidentemente, no. Secondo il
Tar Lazio sì. Il bando attivato dal Ministero era sbagliato, perché ha aperto
ai direttori stranieri in assenza di una deroga esplicita, fissata per legge,
alle disposizioni viste sopra. Che ci dice, in merito, il Rizzo? Che il Tar
Lazio sancisce “Proprio l'opposto di quanto affermato, due anni fa, da
Carpentieri insieme a Mattarella, secondo cui quella deroga esiste, ed è nel
decreto legge 83 del 2014 sulla riforma dei musei statali. Dove l'articolo
2-bis prevede testualmente di «adeguare l'Italia agli standard
internazionali in materia di musei». Ciò basta, scrive Carpentieri, per
rappresentare «un'eccezione alla disciplina italiana come stabilita
dall'articolo 38 del decreto legislativo 165 del 2001». La deroga, in sostanza,
eccola qui”.
Cioè, secondo il parere di due
componenti lo staff politico di un Ministro (la cui terzietà è, ovviamente,
tutta da discutere) il fatto che l’articolo 14, comma 2-bis, (non l’articolo
2-bis, come erroneamente riporta il Rizzo) del d.l. 83/2014, convertito in
legge 106/2014 in termini assolutamente generici preveda che l’Italia utilizzi
standard internazionali in materia di musei, per traslato sarebbe una deroga
alle previsioni dell’articolo 38. Dall’internazionalità dello standard, quindi,
si può passare direttamente e dritti dritti per l’internazionalità dei
direttori! Ma, se così fosse, allora, perché limitarsi a direttori della Ue? Un
direttore proveniente dalla Nuova Zelanda o dalla Thailandia non sarebbe
“internazionale”?
L’argomentazione, comunque, è
suggestiva e non si può negare che provando ad agganciare questo flebilissimo
appiglio giuridico ai principi del Trattato Ue, il Consiglio di stato, da
subito sottoposto a pressioni politiche e mediatiche estreme, possa rivedere il
punto della sentenza del Tar Lazio, riferito agli stranieri partecipanti alla
selezione.
Però, c’è un però. L’operazione
giuridica interpretativa da richiedere al Consiglio di stato è piuttosto
ciclopica.
Sì, perché per un verso
sicuramente il Trattato Ue enuncia i principi di libera circolazione del
lavoro, nei primi 3 commi del suo articolo 45 che riportiamo di seguito:
“1. La libera circolazione dei
lavoratori all’interno della Comunità è assicurata.
2. Essa implica l’abolizione
di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli
Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre
condizioni di lavoro.
3. Fatte salve le limitazioni
giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità
pubblica, essa importa il diritto:
a) di rispondere a offerte di
lavoro effettive,
b) di spostarsi liberamente a
tal fine nel territorio degli Stati membri,
c) di prendere dimora in uno
degli Stati membri al fine di svolgervi un’attività di lavoro, conformemente
alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano
l’occupazione dei lavoratori nazionali,
d) di rimanere, a condizioni
che costituiranno l’oggetto di regolamenti di applicazione stabiliti dalla
Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego”.
Basta, quindi, riallacciare la generica previsione
dell’articolo 14, comma 2-bis, del d.l. 83/2014 a questi principi, per ottenere
automaticamente l’interpretazione secondo la quale detto articolo 14, comma
2-bis, abbia derogato all’articolo 38 del d.lgs 165/2001, in virtù di superiori
principi posti dal Trattato?
Non è così facile. Il motivo?
L’articolo 45 del Trattato non si derma ai tre commi evidenziati sopra, ma ne
contiene un quarto. Eccolo: “4. Le disposizioni del presente articolo non
sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione”.
Sorpresa! Dal Trattato non
discende affatto, dunque, alcun vincolo che obblighi uno Stato membro ad aprire
le selezioni per l’accesso ai concorsi pubblici a stranieri, né per la
dirigenza, né per altri profili professionali.
L’apertura parziale prevista
dall’articolo 38, comma 1, del d.lgs 165/2001, dunque, è una scelta tutta di
diritto interno, volta evidentemente a garantire una simmetria piena tra Stato
Italiano e cittadini italiani che ne impersonano gli organi dotati di poteri
decisionali, tali da costituire, modificare o estinguere posizioni giuridiche
nell’ordinamento, quali sono proprio i dirigenti pubblici.
L’operazione interpretativa
richiesta al Consiglio di stato (e paventata dai frettolosi pareri rivolti al
Ministero dal suo staff) risulta, quindi, molto difficoltosa. Il Tar Lazio ha
avuto ottime ragioni per sottolineare che il legislatore, non potendosi
ricavare nemmeno dal Trattato Ue un obbligo di apertura agli stranieri, avrebbe
dovuto con maggiore, anzi con assoluta, chiarezza derogare alle previsioni
dell’articolo 38, comma 1, del d.lgs 165/2001 (e affrontare anche un rischio di
legittimità costituzionale).
Pare piuttosto chiaro che
l’articolo 14, comma 2-bis, del decreto Franceschini è scritto male ed è lacunoso.
Non esprime la volontà di aprire i concorsi agli stranieri, sbandierata nei
media e nelle televisioni. Forse, perché probabilmente sarebbe necessario che
ministri e parlamentari dedicassero maggior parte del loro tempo invece che a
comparsate nei media e ad interviste finalizzate all’annuncio delle riforme, a
predisporre quelle riforme con lo scrupolo e gli approfondimenti necessari,
trascorrendo qualche ora e giorno in più tra le mura di palazzo Chigi e del
Parlamento piuttosto che nel comizio continuo, senza appiattirsi su pareri di
soggetti che non rivestono un ruolo terzo e distaccato, circa la “legittimità”
di norme oggettivamente laconiche e, dunque, tutt’altro che tecnicamente
corrette. Se lo fossero, non darebbero la stura a controversie interpretative.
Non è, comunque, questo il
profilo più delicato della riforma Franceschini, quanto gli altri due elementi
di illegittimità contestati dal Tar, entrambi fortemente connessi:
1)
i colloqui a porte chiuse o con meccanismi di collegamento
telematico privi di qualsiasi verbalizzazione e cautela;
2)
le interpolazioni piuttosto arbitrarie dei punteggi.
Questi due punti possono essere
tradotti in uno solo: la riforma Franceschini è stata la prova generale di
quello che sarebbe stato il sistema di assegnazione degli incarichi
dirigenziali (conferito a italiani o stranieri, non avrebbe fatto differenza),
se fosse entrata in vigore la riforma Madia della dirigenza.
Non si deve dimenticare che la
riforma Franceschini è sostanzialmente coeva alle elaborazioni riformatrici
anche delle leggi portate avanti dal Ministro Madia (Bernardo Mattarella, che
ha collaborato col Ministro Franceschini ha anche redatto gran parte
dell’impianto riformatore Madia). E risponde alla medesima filosofia.
I bandi attivati dal Mibact e censurati
dal Tar Lazio sono figli esattamente di quella concezione della dirigenza: un
insieme di soggetti inseriti in un ruolo, comunque permeabile ed aperto a
soggetti che nemmeno ne fanno parte (l’esempio degli “stranieri” è lampante),
al quale attingere sostanzialmente senza alcun vincolo per l’organo di governo
dotato del potere di conferire gli incarichi, con totale e pieno arbitrio.
Il ruolo non sarebbe stato,
infatti, una graduatoria, capace di obbligare gli organi di governo a scegliere
scorrendola.
Sarebbe stato solo un insieme
informe, per sollecitare gli iscritti a rispondere ad “interpelli”, avvisi
pubblici finalizzati a procedure selettive in tutto analoghe a quella
effettivamente gestita dal Mibact: totalmente opache, svolte con modalità tali da
non rendere conoscibile nemmeno un minimo di motivazione delle scelte
effettuate. Scelte, per altro, poste in essere a seguito di un complicatissimo
reticolo di punteggi valutativi, ponderato ed interpolato, però, in modo tale
da non vincolare la scelta dei candidati da inserire nelle terne poi sottoposte
al Ministro e al direttore generale per la scelta finale.
Tutto un sistema che, sebbene nel
caso di specie abbia portato a scegliere direttori considerati molto abili
(anche se esperti del settore come Vittorio Sgarbi o Tomaso Montanari hanno
espresso profonde e motivate riserve sul merito tecnico degli incaricati),
consente perfettamente di orientare le presunte “selezioni” esattamente come
vuole che vadano l’organo politico di volta in volta al potere: basta fare sì
che il soggetto “meritevole”, superi sempre tutte le valutazioni e gli
sfoltimenti e passi nelle rose selettive successive, fino a giungere alla terna
finale, dalla quale, sicuramente, sarà sempre estratto.
Un metodo complicatissimo per far
apparire scelte a tavolino, realizzate e negoziate molto prima, come frutto di
una certosina opera di valutazione selettiva.
Si dirà: ma i privati selezionano
il personale in questo modo, tanto più se debbono scegliere i principali
collaboratori, dirigenti e manager.
La risposta a questa osservazione
è, purtroppo, banale, ma è l’unica: i privati fanno come vogliono, nella
ricerca di salvaguardare al meglio il loro interesse.
La PA non è privata, è un bene di
tutti. Nel caso specifico, un museo, gli Uffizi, l’Accademia di Brera, la
Galleria Borghese, non sono un bene privato, ma un bene pubblico, forse tra i
massimi beni pubblici, perché espongono, raccontano e diffondono arte, cultura,
libertà dell’animo e dell’espressione umana.
La scelta di chi è chiamato a condurre
questi luoghi di altissima democrazia, perché la cultura ne è una delle
fondamentali espressioni, non può essere compiuta alla stregua della ricerca di
un privato.
Ciascun fruitore dell’immenso
patrimonio dei musei ha il diritto sacrosanto di sapere perché viene scelto un
direttore invece di un altro, per quali titoli di merito, per quali
motivazioni, in base a tracciabili e verificabili elementi di valutazione e in
base a quale tipo di selezione, per essere certo che la scelta sia caduta
davvero sul più meritevole e non sia frutto di mode provinciali o di tessere di
partito.
E’ piuttosto strano che
pubblicità, trasparenza, obblighi di motivazione profondissimi vengano imposti
(anche giustamente) perfino per un appalto di poche migliaia di euro, ma quando
si tratta di selezionare i vertici amministrativi di beni incommensurabili,
vada bene affidarsi a colloqui di 9 minuti, senza uno straccio di spiegazione
delle scelte compiute. Improvvisamente, per gli incarichi nei musei il Piano
Nazionale Anticorruzione, con le stringentissime regole selettive non è valso
più.
Gli incarichi sono stati la prova
generale delle micidiali disfunzioni che avrebbe generato la scellerata riforma
Madia della dirigenza, fortunatamente colpita e affondata dalla Corte costituzionale
con la sentenza 251/2016.
Fosse passata quella riforma,
avremmo assistito a migliaia di “selezioni” opache e di molto dubbia
legittimità, esattamente come quella avviata dal Mibact, con un’esplosione
totalmente incontrollabile del contenzioso.
Le nomine dei direttori dei
musei, oggettivamente attuative di una riforma Madia non in vigore, sono
espressione chiarissima della voglia irrefrenabile della politica di, appunto,
“nominare”, intervenire in modo pervasivo nella vita e nella gestione.
E’ quella politica che ritiene la
dirigenza un esecutore mero, che si accolli responsabilità al posto della
politica, che ne sia supino e che possa essere defenestrato appena mostri anche
piccolissimi aspetti di non condivisione della “linea politica” di chi “nomina”.
Non può che essere letta così la vicenda del direttore generale della Rai,
nominato per rendere più conforme al sentire governativo la Rai, ma pochissimo
dopo defenestrato perché non ha “epurato” quanto desiderato negli ambienti
governativi; il tutto, mentre i critici osservavano che quella nomina alla
direzione generale aveva solo meriti politici e non tecnici, ma i sostenitori
del Governo facevano quadrato, sottolineando che “i numeri” della gestione Rai
erano ottimi. Talmente ottimi, che comunque quel direttore generale si è dovuto
dimettere.
Basterebbe questo elemento a
riprova che il tanto decantato “merito” è solo uno slogan, nei fatti
assolutamente né cercato, né voluto.
Anche l’ennesimo tentativo di
stabilizzare come dirigenti i funzionari a suo tempo illegittimamente
incaricati come dirigenti nelle Agenzie fiscali appartiene allo stesso filone:
quello delle “nomine” di stampo politico-feudale o, comunque, espressione di un
potere che del primato della politica inteso come principio di legalità vuol
far strame, per confermare che detto primato è sulla legge, oltre la legge e,
anche, sulle persone.
Vedremo se il Consiglio di stato
avrà la forza di tornare sulla questione delle nomine dei musei con la serenità
d’animo che il dibattito apertosi ha compromesso, sperando che il Parlamento
non accetti la proposta di stabilizzare i dirigenti illegittimi delle Agenzie,
per non dover assistere, come probabilmente accadrebbe, alla crocifissione
della Corte costituzionale (già per la verità avvenuta all’indomani della
sentenza 37/2015), qualora questa dovesse accertare l’incostituzionalità di
questo modo di intendere la dirigenza.
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RispondiEliminaLo stato dell'arte, delle leggi, delle riforme amministrative e della confusione giornalistica. Eccellente!
RispondiEliminaComplimenti per l'analisi lucida, puntuale e ampiamente circostanziata, che fa giustizia di tanti (troppi) commenti, per lo più di fonte giornalistico-governativa, intrisi di sciatteria e di incompetenza, ai quali siamo stati purtroppo costretti a prestare ascolto negli ultimi giorni.
RispondiEliminaComplimenti per la chiarezza e la conclusione impeccabile. Io, ma essendo meno autorevole di Oliveri, ma posso permettermi di essere meno soft: abbiamo una classe politica popolare da incompetenti e a Franceschini che di è stupito come l'unica risposta è
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