Ogni giorno di più si conferma quanto mostruoso sia, sul piano giuridico, la fattispecie degli incarichi a contratto.
Le magistrature superiori letteralmente ciurlano nel manico, configurando questi incarichi come “fiduciari” o meno senza alcun criterio discretivo univoco, mentre le amministrazioni ne abusano sempre di più, considerando uno strumento eccezionale quale dovrebbe essere l’articolo 110, comma 1, del d.lgs 267/2000 una modalità ordinaria di copertura dei fabbisogni.
Solo il Tribunale di Pavia in qualità di giudice del lavoro interviene gettando una luce importantissima, svelando ciò che è ovvio: gli incarichi a contratto non possono essere assegnati a chi disponga del solo requisito dell’anzianità in una qualifica per l’accesso alla dirigenza.
Ma, andiamo con ordine. Il Consiglio di stato, con sentenza della Sezione V, 29 maggio 2017, n. 2526, conferma l’assunto, più volte ribadito dalla Corte di cassazione, che la giurisdizione sulle procedure selettive finalizzate all’assegnazione degli incarichi a contratto è del giudice ordinario. Argomentando in merito a tale decisione, Palazzo Spada ribadisce che, tra le ragioni principali, emerge quella della “fiduciarietà” degli incarichi a contratto. Leggiamo: “Con recente sentenza, dalle cui conclusioni non vi è ragione di discostarsi, questa Sezione, giudicando su una controversia relativa ad una procedura bandita dopo le modifiche all’art. 110 comma 1, del D. Lgs n. 267 del 2000, apportate dall’art. 11, comma 1, lett. a), più sopra citato, ha confermato il consolidato orientamento giurisprudenziale che esclude la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo nella materia di che trattasi (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 4/4/2017, n. 1549).
Non resta, pertanto, che riprenderne le motivazioni.
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4. Per contro, come fondatamente rileva l'amministrazione appellante, la procedura selettiva in contestazione non consiste in una selezione comparativa di candidati svolta sulla base dei titoli o prove di finalizzate a saggiarne il grado di preparazione e capacità, da valutare (gli uni e le altre) attraverso criteri predeterminati, attraverso una valutazione poi espressa in una graduatoria finale recante i giudizi attribuiti a tutti i concorrenti ammessi. Tale procedura è invece finalizzata ad accertare tra coloro che hanno presentato domanda quale sia il profilo professionale maggiormente rispondente alle esigenze di copertura dall'esterno dell'incarico dirigenziale.
Di ciò si trae in particolare conferma dagli atti di conferimento dell'incarico a favore del controinteressato dott. Go. impugnati con motivi aggiunti dal dott. La... In essi non compare alcuna graduatoria, ma solo un giudizio finale di maggiore idoneità del candidato selezionato dall'amministrazione.
5. Del resto, anche il Tribunale amministrativo ha rilevato questa circostanza, laddove ha affermato che la procedura selettiva prevista dall'art. 110 t.u.e.l. "non può essere identificata in una vera e propria procedura concorsuale", ma ha nondimeno ritenuto la propria giurisdizione in base all'assunto che essa si contraddistingue per una valutazione "di tipo comparativo e procedimentalizzata".
6. Ciò non è tuttavia sufficiente a radicare la giurisdizione amministrativa in una materia, quella del pubblico impiego privatizzato, in cui vige una generale giurisdizione del giudice ordinario, salvo le materie specificamente ad esso sottratte dal testo unico sul pubblico impiego. E tra queste materie vi è appunto quella del concorso pubblico, con le sue peculiari caratteristiche sopra descritte, in assenza delle quali si deve applicare la regola generale della giurisdizione ordinaria.
Al riguardo devono essere richiamati i principi espressi in materia dalle Sezioni unite della Cassazione, secondo cui è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia originata dall'impugnazione di atti di una procedura selettiva finalizzata al conferimento di incarichi dirigenziali a carattere non concorsuale, laddove per concorso si intende la procedura di valutazione comparativa sulla base dei criteri e delle prove fissate in un bando da parte di una commissione esaminatrice con poteri decisori e destinata alla formazione di una graduatoria finale di merito dei candidati, mentre al di fuori di questo schema l'individuazione del soggetto cui conferire l'incarico invece costituisce l'esito di una valutazione di carattere discrezionale, che rimette all'amministrazione la scelta, del tutto fiduciaria, del candidato da collocare in posizione di vertice, ancorché ciò avvenga mediante un giudizio comparativo tra curricula diversi (da ultimo: Cass., SS.UU, ord. 8 giugno 2016, n. 11711, 30 settembre 2014, n. 20571). In particolare, in base a questo indirizzo giurisprudenziale le controversie relative al conferimento degli incarichi dirigenziali, anche se implicanti l'assunzione a termine di soggetti esterni, sono di pertinenza del giudice ordinario, in applicazione dell'art. 63, comma 1, del testo unico sul pubblico impiego, mentre esulano dalla nozione di "procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni" prevista dal citato comma 4 della medesima disposizione. [...]”.
Gli assunti fondamentali di questa sentenza e del filone giurisprudenziale che riassume, dunque, sono due:
1) la procedura “selettiva” prevista dall’articolo 110, comma 1, del d.glgs 267/2000 non giunge alla determinazione di una graduatoria da parte di una commissione che vincoli l’esito e, di conseguenza, obblighi a stipulare il contratto con il miglior piazzato;
2) si tratta solo di un giudizio comparativo tra curriculum diversi, che consente comunque una scelta totalmente fiduciaria: nella sostanza, la selezione finisce per essere solo la formazione di una “rosa” tra i quali, poi, il sindaco sceglie con totale discrezionalità.
Il sogno del legislatore, che aveva impostato in questo modo la riforma Madia. Ora, cos’è che non funziona in questo assetto interpretativo?
La sentenza della Cassazione, Sezione Lavoro, 5 maggio 2017 n. 11015, di cui ci siamo già occupati nell’articolo “Spoil system: le contraddizioni della Cassazione” (La Gazzetta degli Enti Locali 18/5/2017).
Nella sentenza citata da ultimo, la Cassazione, sovvertendo totalmente gli assunti interpretativi fatti propri anche dal Consiglio di stato per supportare la giurisdizione del giudice ordinario, afferma che l’incarico dirigenziale a contratto di cui all’articolo 110, comma 1, non è da considerare di carattere fiduciario, poerchè non connotato dall’apicalità della funzione, che consente la “preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell’organo politico” che, ai sensi della giurisprudenza della Consulta consente appunto incarichi “fiduciari” solo nel caso dei dirigenti di massimo vertice nello Stato.
Allora, appare evidente che occorre intendersi definitivamente. Non è possibile che la Cassazione e le altre magistrature superiori insistano in contraddizioni in termini tra le loro stesse interpretazioni così clamorose, da privarle del tutto di autorevolezza e, alla fine, anche di legittimità.
Non è possibile che gli incarichi a contratto siano qualificati, a giorno alterni o a seconda delle convenienze, fiduciari oppure non fiduciari.
L’ordinamento giuridico non può ammettere che uno stesso istituto possa essere visto in modo diametralmente opposto e strumentale (nel caso della sentenza della Cassazione 5 maggio 2017 n. 11015 si è negata la fiduciarietà per ammettere che i dirigenti a contratto abbiano un inesistente, invece, diritto alla permanenza dell’incarico per tre anni, rimanendo ininfluente anche la morte del sindaco prima di tale periodo).
L’incarico a contratto o è fiduciario, sempre; oppure non lo è, mai. L’ambiguità con la quale, imperdonabilmente, le giurisdizioni superiori leggono l’istituto, rende un istituto mostruosamente ellittico rispetto all’ordinamento, ancora più mostruoso.
Per altro, la configurazione dell’istituto dovrebbe risultare piuttosto chiara, se solo la magistratura fosse in grado, ma anche qui imperdonabilmente troppo spesso non è in grado di esserlo, di tenere nel dovuto conto che si tratta di un istituto del tutto straordinario. La cui limitazione non deriva solo e soltanto dal limite percentuale di impiego (il 30% della dotazione organica della dirigenza), ma, soprattutto, dalla professionalità da ricoprire.
Non può sfuggire che, dopo la riforma Brunetta con maggiore chiarezza l’articolo 110 del d.lgs 267/2000 e l’articolo 19 comma 6, del d.lgs 165/2001 sono tra loro inscindibilmente connessi.
E allora, stando così le cose, il ricorso agli incarichi a contratto deve sottostare a una serie di presupposti di legittimità:
1) la verifica, cioè la controprova, che nell’amministrazione manchino in modo assoluto le competenze necessarie, nell’ambito della dotazione organica;
2) la specifica motivazione dell’affidamento a persone reperite al di fuori della dotazione organica;
3) la particolare qualificazione delle persone cui si assegna l’incarico.
Centrale è il terzo presupposto di legittimità. L’incarico a contratto può qualificarsi come “fiduciario”, prescindendo totalmente dal presupposto della condivisione politica di cui parla la giurisprudenza della Corte costituzionale, solo se correttamente riferito all’acquisizione di una professionalità mancante nell’ente, reperita ab externo da soggetti che dispongano in modo visibile e conclamato per altra via di detta professionalità.
Per questa ragione, come spiega il Tribunale di Pavia, 9 giugno 2017, n. 169, l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, specifica tre tipologie di professionalità che i dirigenti “esterni” debbono possedere:
a) esperienza maturata per almeno cinque anni in posizioni dirigenziali,
b) particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e post-universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio nelle pubbliche amministrazioni, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono incarichi, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza;
c) provenienza da settori della ricerca universitaria e scientifica e della docenza universitaria.
Nei casi di cui alla lettera a) la professionalità dell’incaricato è conclamata: esso, infatti, ha già svolto funzioni dirigenziali (resta il problema di come conciliare quelle esercitate nel privato, con quelle presso amministrazioni pubbliche). Nei casi di cui alla lettera c), per la norma la prfovenienza dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato dimostra il possesso di una competenza non inferiore a quella richiesta ad un dirigente pubblico.
La fattispecie maggiormente frequente, visto che le professionalità di cui alle lettere a) e c) difficilmente si presentano presso gli enti locali, è quella di cui alla lettera b), cioè la “particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e post-universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio nelle pubbliche amministrazioni, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono incarichi, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza”. Cosa è che può giustificare una scelta “discrezionale” di dirigenti a contratto, senza, dunque concorso? La circostanza che la persona selezionata disponga di una specializzazione professionale “particolare”; tale, cioè, da distinguersi da una professionalità “ordinaria”.
La particolarità dipende, in modo chiarissimo da:
- formazione universitaria e post universitaria: le due cose vanno necessariamente insieme, perché la sola formazione universitaria sarebbe requisito ordinario di partecipazione a concorsi, non indice di competenze di per sé elevate;
- pubblicazioni scientifiche, ovviamente pertinenti l’incarico, tali da dimostrare l’eccellenza della competenza della persona;
- concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio nelle pubbliche amministrazioni, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono incarichi, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza.
Mentre le prime due “particolari” competenze possono essere isolate e alternative, la terza non si regge da sola e deve necessariamente accompagnarsi ad una delle prime due.
Spiega il Tribunale di Pavia: “la normativa statale – a seguito della citata modifica del 2009, che ha introdotto la congiunzione “e” tra i requisiti relativi alla particolare specializzazione professionale – richiede la compresenza dei titoli scientifici e dell’esperienza lavorativa qualificata (almeno quinquennale)”.
Non basta, quindi, perché si configuri un incarico “fiduciario” la circostanza che il destinatario abbia svolto un lavoro in posizione di accesso per concorso alla dirigenza per almeno 5 anni. Questa circostanza di fatto non vale ad attribuire nessun genere di “particolarità” alla professionalità del destinatario e rende, di fatto, l’incarico, se scisso dagli altri requisiti di professionalità, nulla più di una progressione verticale a tempo determinato, totalmente carente di ogni utilità pubblica. La selezione così fatta è una violazione agli obblighi concorsuali e non sceglie per nulla una professionalità eccellete: rimane soltanto una regalìa ingiustificata di una qualifica dirigenziale, tanto più esposta a pericoli di inefficienza, conflitto di interessi, violazione delle cautele anticorruzione, legami solo amicali.
La soluzione alla mostruosità giuridica potrebbe consistere nell’eliminarla una volta e per sempre oppure nel chiarire ancor meglio la fattispecie. Certo è che se le magistrature superiori inciampano in contraddizioni interpretative inaccettabili, non ci si può aspettare che a livello locale gli incarichi siano assegnati con il pieno rispetto dei presupposti che la legge richiede. Ciò non giustifica il ricorso troppo allegro a questi incarichi, ma evidenzia il malessere complessivo dell’istituto.
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