Su Il Solo 24 Ore del 2 luglio 2017 un interessante articolo di
Gianni Trovati riguardante la delicata fase del rinnovo dei contratti
pubblici è intitolato “Statali, i nuovi contratti azzerano la
«spending»” ed arricchito da un occhiello che riassume
benissimo il tutto: “La spesa salirà di 5 miliardi, tornando ai
livelli del 2011 Per i rinnovi servono in tutto cinque miliardi, che
annullano la flessione della spesa fra 2011 e 2016”.
L’articolo conferma indirettamente che la spendin review
raccontata dal rapporto di Yuoram Gutgeld qualche giorno fa, e
puntualmente smentita dalla realtà oltre che dalla Corte dei conti e
dall’Istat, è pura fantasia.
La spesa pubblica aumenta
costantemente e le uniche due voci che sono scese in questi anni (ma
compensate ampiamente dall’aumento di tutto il resto) sono la spesa
per interessi e, appunto, quella per il personale, scesa molto
velocemente in 10 anni da oltre 172 miliardi a circa 163.
Per quanto per il Governo sia
obbligatorio ripartire con una contrattazione ferma dal 2009, anche a
seguito della sentenza della Consulta 1798/2015, è evidente che
parlare di lavoro pubblico e del connesso costo, significa anche
parlare di politica economica.
La spesa complessiva per stipendi
pubblici sfiora il 20% della spesa totale dello Stato. Qualsiasi
incremento, quindi, incide in maniera molto significativa
sull’allocazione delle risorse, sulla spesa complessiva, sulle
connesse entrate ed anche sui singoli bilanci degli enti, in
particolare quelli autonomi, come regioni, province e comuni, che
debbono reperire tra le proprie risorse i fondi necessari (mentre le
amministrazioni statali non debbono fare alcuno sforzo: è il
bilancio dello Stato ad ingrassare i loro fondi).
Ora, si scopre che la previsione
dell’incremento di 85 euro, che al lordo di tutto è di 110 euro
al mese per 13 mensilità
finisce per costare complessivamente oltre 5 miliardi. Con due
conseguenze: in primo luogo, riportare il costo complessivo del
personale pubblico vicino ai 170 miliardi; in secondo luogo, reperire
almeno 2,5 miliardi attualmente mancanti all’appello, perché le
ultime due leggi di bilancio hanno stanziato solo 1,2 miliardi per le
amministrazioni statali, cui consegue un onere complessivo simmetrico
per le altre amministrazioni.
Dunque, i rinnovi, se davvero si
riuscirà a garantire un incremento contrattuale in denaro “fresco”
(e c’è da dubitarne: già si parla di interventi “compensativi”
di welfare aziendale…) azzereranno totalmente il taglio alle spese
correnti per il personale pubblico.
Un costo molto salato, che avrebbe
dovuto essere meglio considerato, prima di stipulare con i sindacati
l’accordo
del 30 novembre 2016 che vincola il Governo al salasso che non si
sa, adesso, come finanziare.
Un accordo che, a distanza di mesi,
svela la sua vera funzione: una captatio benevolentiae
nei confronti delle organizzazioni sindacali, per anni ignorate ed
avversate dal precedente Governo, allo scopo di ottenere il consenso
al “sì” al referendum sulla riforma della Costituzione, che si
sarebbe tenuto pochi giorni dopo, il 4 dicembre 2016.
Si hanno molte ragioni per dubitare
che senza l’incombenza del referendum il Governo si sarebbe spinto
ad impegnarsi in questa misura poco sostenibile.
Adesso la ricerca affannosa delle
risorse per aumenti che la situazione finanziaria ed economica dello
Stato oggettivamente non può permettersi è il prezzo, molto caro,
della ricerca del consenso ad ogni costo su una riforma che,
comunque, è naufragata clamorosamente, perché bocciata senza
appello dai cittadini.
L’unico appiglio per evitare che
all’impegno di spesa corrisponda davvero un’erogazione di oltre 5
miliardi, ora è puntare a riversare quanto più possibile degli 85
euro previsti dall’accordo sulla “produttività”, cosa che i
sindacati, ovviamente, avversano, perché l’intento dell’accordo
stesso era rimediare agli anni di blocco della contrattazione e,
dunque, rimpinguare lo stipendio tabellare.
Dunque, si annuncia lo scontro sulla
destinazione delle risorse (sempre che si trovino). Ma, l’accento
sul “risultato” alla luce della recente sentenza della Corte
costituzionale 153/2017 è un altro paradosso: la Consulta dimostra a
chiare lettere che nella PA il “risultato” o, come scritto nelle
varie leggi provincialmente supìne di un linguaggio pseudo
manageriale d’accatto, la “performance”, nella PA è
impossibile, perché non si può legare mai l’attività svolta a
risultati economici che aumentino la competitività ed il fatturato,
come invece avviene nelle aziende.
Insomma, il tributo alla ricerca ad
ogni costo del consenso per il referendum si dimostra ogni giorno che
passa più insostenibile ed ingiustificabile, soprattutto poiché,
alla fine, quel consenso non c’è stato affatto: restano, però, le
macerie di una campagna referendaria poco assennata.
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