Siamo
tra il 1599 e il 1600. Caravaggio, grazie alla protezione ed alle
commesse del cardinal Del Monte ed all’interessamento del marchese
Giustiniani ha raggiunto la celebrità, così pervicacemente
perseguita e giustamente riconosciutagli, specie grazie ad opere come
Giuditta e Oloferne e Santa Caterina d’Alessandria.
E’
ormai pronto per la prima grande commessa “pubblica”. Ovviamente,
l’aggettivo “pubblica” deve essere compreso nell’accezione
corretta. Siamo all’inizio del ‘600, come visto e la concezione
di Stato o pubblica amministrazione è molto diversa rispetto ad
oggi. Caravaggio opera a Roma, ove regna il Papa da vero e proprio
monarca assoluto: le ricchezze dello stato sono ricchezze del Papa,
immobili e proprietà di “privati” lo sono per concessione
papale.
Per
opera “pubblica”, pertanto, dobbiamo intendere due accezioni. La
prima è l’origine della commessa: un altissimo prelato che
disponga delle concessioni o autorizzazioni papali ad edificare e
ornare opere nell’ambito del territorio del regno. La seconda è la
fruibilità pubblica dell’opera, che viene esposta in luoghi
accessibili a tutti, invece di essere destinata a studi, saloni o
spazi di case private.
Sta di
fatto che a Roma c’era una folta comunità di francesi, sudditi del
re di Francia, come noto storicamente alleato e in ottimi rapporti
col Papa.
Fino
agli inizi del ‘500 i francesi possedevano una chiesa appartenuta
anticamente ai padri Farfa. L’incremento progressivo del numero dei
sudditi di Francia, indusse, però, ad edificare uno spazio ben più
ampio. Il papa Sisto IV diede la concessione per la costruzione del
nuovo edificio di culto (che ricevette contribuzioni finanziarie
molto rilevanti da Caterina De’ Medici). I lavori iniziarono nel
terzo decennio del 1.500, per concludersi l’8 ottobre del 1589.
La
chiesa venne dedicata al re di Francia Luigi IX, morto di peste nel
corso dell’8^ crociata, quando era sbarcato a Tunisi. Ecco la
provenienza della denominazione San Luigi dei francesi.
Come è
chiaro, furono proprio i francesi a realizzare il maestoso edificio.
Ed un cardinale francese, in particolare, ebbe l’onore e l’onere
di gestire i finanziamenti e l’edificazione della chiesa fino quasi
al suo completamento. Si tratta del potente cardinale Matteo
Contarelli, nome italianizzato del vero nome Mathieu Cointrel o
Cointerel, che nel 1565 acquistò la proprietà della cappella più
vicina all’altare nella navata sinistra, con il progetto
iconogrfico di un “ciclo” da dedicare al Santo eponimo, Matteo.
Il
cardinale non vide l’inaugurazione della chiesa, perché morì nel
1585. La realizzazione della cappella e del complesso progetto fu,
dunque, cura del suo esecutore testamentario, Virgilio Crescenzi.
La
materiale realizzazione della cappella fu molto complicata. Anche, ma
non solo, per una ragione molto semplice: è vero che la chiesa venne
inaugurata alla fine del 1589, ma altrettanto verosimile è che
ancora per molto tempo il suo interno dovesse essere un cantiere
aperto, nel quale artisti di ogni genere lavoravano per decorare gli
interni e le altre cappelle.
Soprattutto,
risultò molto difficile per il Crescenzi tenere insieme un’affiatata
compagine di artisti, che realizzasse comunque in tempi ravvicinati
il complicato progetto.
Ricordiamo:
siamo ancora nel 1589, Caravaggio non è nemmeno giunta a vivere a
Roma. L’esecutore testamentario ovviamente si rivolge ad artisti di
fama che già operano e vivono nella capitale, rifacendosi al gusto
tardo manierista o nord europeo.
In un
primo tempo, la realizzazione del ciclo pittorico venne affidata a
Gerolamo Muziano, che avrebbe dovuto affrescare in particolare la
pala dell’altare maggiore; per l’altare maggiore, inoltre era
stata prevista una scultura affidata allo scultore fiammingo Jacopo
Cobaert. Muziano non realizzò le opere, sicchè gli affreschi della
volta e delle pareti vennero affidati al pittore Giuseppe Cesari,
noto come il Cavalier D’Arpino, molto in voga alla fine del ‘500
a Roma, ma proprio per questo impegnato in decine e decine di
commesse e, quindi, poco affidabile e puntuale (oltre che di
carattere piuttosto fumantino).
Sta di
fatto che finalmente la cappella comincia a prendere la sua forma
grazie all’opera del Cavalier d’arpino che tra il 1591 e il al
1593 dipinge però solo gli affreschi della volta e poi si ferma (il
problema delle commesse della cappella Contarelli è ben affrontato
nel volume edito da Gangemi Editore spa, La cappella Contarelli in
San Luigi dei Francesi, autori vari).
Il
progetto iconografico elaborato dallo stesso cardinale Contarelli è
il seguente: “Per la cappella di San Matteo, all’altare sarà
un quadro alto palmi dicesette et largo palmi quatordeci di vano nel
quale sia depinta la figura di San Matteo in sedia con un libro o,
volume, come meglio parerà, nel quale mostri o di scrivere o di
voler scrivere il vangelio et a canto a lui l’angelo in piedi
maggior del naturale in atto che paia ragionare o in altra attitudine
a proposito per questo effetto. Al lato destro dell’altare cioè
alla banda del vangelio si facci un quadro alto palmi dicesette et
largo quatordeci di vano nel quale sia medesimamente dipinto San
Matteo dentro un magazeno, o ver, salone ad uso di gabella con
diverse robbe che convengono a tal officio con un banco come usano i
gabellieri con i libri, et danari in atto d’haver riscosso qualche
somma o, come meglio parerà. Dal qual banco San Matteo vestito
secondo che parerà convenirsi a quell’arte si levi con desiderio
per venire a N.S.re che passando lungo la strada con i suoi discepoli
lo chiama all’apostolato; et nell’atto di San Matteo si ha da
mostrare l’artificio del pittore come anco nel resto. Al lato
sinistro cioè nell’epistola sia un altro quadro alto et lungo come
sopra, nel quale dia depinto un luogo lungo et largo quasi in forma
di tempio et nella parte di sopra un altare in isola elevato con tre
quattro cinque più o meno gradi: ove San Matteo celebrando la
messa vestito in quel modo che poi si darà da intendere sia
ammazzato da una mano di soldati et si crede sarà più secondo
l’arte farlo nell’atto dell’ammazzare però che habbia ricevuta
qualche ferita et già sia cascato o in atto di cadere ma non ancor
morto et nel detto tempio sia moltitudine d’huomini et donne
giovani vecchi putti et ogni sorte in oratione per la maggior parte
et secondo le qualità loro e nobilta vestiti et sopra banchi et
tappeti at altri apparati et per il più spaventati del caso
mostrando in altri sdegno in altri compassione. Nella volta un altro
quadro di larghezza et altezza come quelli di sopra ma corrispondente
all’altezza et larghezza di ciascuno delli due altri quadri
collaterali nel quale di depingerà un camerone grande et in quello
San Matteo che resuscita la figliola del Re stante in piedi o a
sedere sopra un letto ricco et pomposo ben ornato di padiglione o,
d’altro apparto et appresso si vegga il Re e la regina
inginocchiati dar gratie a Dio accompagnato da cavallieri serve
donzelle, et serve, et qualche animale nobile et conveniente nelli
estremi se così parerà, e dall’altra parte cioè di San Matteo
sia moltitudine di persone, che stiano in piedi et altri che per la
porta, con calca corrano al miracolo. Una historietta con figurine di
quattro in cinque palmi di S. Matteo predicante ove sia quella turba
che potrà capire il luogo che sarà largo palmi sei o sette lungo
più o meno. Quanto di sopra si è scritto solamente per un poco di
sbozzamento et perché si possa pensare all’historia percioche poi
si scriverà più minutamente ogni cosa”.
Impresa,
come si nota, non da poco, per le notevoli difficoltà di
rappresentazioni che richiedono estrema perizia tecnica
nell’effigiare scene profondamente drammatiche e dinamiche, piene
di personaggi di diversa posa e tipologia. Non c’è da stupirsi per
le difficoltà realizzative.
Sta
di fatto, comunque, che il Cavalier d’Arpino, come rilevato sopra,
nel 1591 si da
alla pittura dell’affresco della volta con San Matteo che compie il
miracolo della risurrezione di Ifigenia, figlia del re di Etiopia
Egippo, e la conclude nel
1593.
Secondo
la maggior parte dei critici, Caravaggio giunge a Roma alla fine del
1592 (anche se per una minoranza di interpreti, la sua apparizione
nella capitale risalirebbe al 1596) e, come noto, per sbarcare il
lunario va a bottega da artisti come Antiveduto Gramatica e proprio
Giuseppe Cesari. E le biografie raccontano
che il Cesari lo impiegasse in particolare per decorazioni in fondo
secondarie delle sue opere, ghirlande, brocche, fiori, frutta.
Ma,
come ricorda il marchese Giustiniani in una sua lettera del 1620 per
Caravaggio “tanta manifattura gli era a fare un quadro
buono di fiori, come di figure”.
Dunque, il Merisi nei suoi primi anni di esperienza a Roma pur
cercando di rendersi al più presto indipendente e famoso, non
disprezzava per nulla l’abilità riconosciutagli nel dipingere
fiori, brocche e frutti, del resto molto presenti proprio nelle sue
prime opere romane.
Possiamo
immaginarci, dunque, con quanto orgoglio il 13 luglio 1599 ricevette
la commessa per la realizzazione dei laterali della cappella
Contarelli, a concludere l’opera che era stata lasciata ferma dal
Cavalier d’Arpino, che l’aveva non poco vessato durante i suoi
primi anni a Roma. Ed era, per altro, la prima commessa “pubblica”
nel senso indicato sopra, per quadri di grandissima dimensione nei
quali il Merisi si sarebbe dovuto cimentare per la prima volta nel
dipingere figure intere (fino a quel momento Caravaggio
aveva dipinto a figura intera solo l’angelo del Riposo durante la
fuga in Egitto e San Francesco in estasi).
Il
Merisi si butta anima e corpo nell’impresa e quasi un anno dopo
consegna i due laterali della cappella Contarelli, che lo consacrano
alle meritatissime gloria e fama.
Esaminiamo
il laterale di sinistra, la Vocazione di San Matteo, mettendolo,
però, prima in rapporto con l’affresco della volta dipinto dal
Cavalier d’Arpino.
Notiamo
che San Matteo entra nella stanza di Ifigenia da poco morta per
accingersi al miracolo della sua resurrezione, illuminato da un fasci
di luce obliquo, che proviene da destra e dall’alto, da una porta
aperta.
Questo
fascio di luce, che rappresenta la luce divina e la fede, la cui
forza consente al santo di riportare alla vita un morto, è
chiaramente di ispirazione per la spettacolare vocazione di San
Matteo, dove lo ritroviamo, ma con una rilevantissima modifica.
Nell’affresco del Cesari la luce taglia in diagonale la
rappresentazione ed investe la parte bassa del dipinto e la figura di
San Matteo.
Invece,
nel quadro strepitoso di Caravaggio è l’opposto: la luce divina
disegna una diagonale illuminando la parte alta, lasciando invece la
parte bassa nell’ombra. Quell’ombra, che grazie alla luce
radente, consente quei contorni così tridimensionali, così
espressivi, così veri e toccanti della pittura di Caravaggio.
Scrive
Giulio Mancini, suo biografo, nel suo
Considerazioni sulla pittura del 1620,
in relazione alla tecnica del Caravaggio:
“Proprio di questa schola è di lumeggiar con lume unito
che venghi d’alto senza riflessi, come sarebbe in una stanza da una
fenestra con le parieti colorite di negro, che così, havendo
i chiari e l’ombre molto chiare e molto oscure,
vengono a dar rilievo alla pittura ma però con modo non naturale, né
fatto né pensato da altro secolo o pittori più antichi, come
Raffaello, Titiano Correggio et altri”.
Il
Mancini quasi descrive l’atelier del Caravaggio e la sua tecnica di
pittura, ma, soprattutto, ci illustra proprio il modo di procedere
nella realizzazione del capolavoro della Contarelli, ove sono
visibilissimi, appunto, la luce proveniente dall’alto, l’oscurità
delle pareti, le ombre, gli “attrezzi” del lavoro del pittore, il
tavolo, le sedie e gli sgabelli.
Questa
straordinaria tecnica consente a Caravaggio di definire in modo molto
incisivo lo spazio, così da dare dinamismo e movimento alla scena.
Allo stesso tempo, il pittore riesce a fornire un’articolazione
molto complessa delle figure in rapporto allo sfondo, facendole
emergere pienamente grazie alla ricerca espressiva del chiaro-scuro,
portata avanti nel chiuso del proprio atelier, trasformato quasi in
una camera oscura da fotografo.
L’esito
è straordinario. L’opera
presenta ben 7 figure, 4 sedute e 3 in piedi ed è quasi la summa
della poetica del Merisi, oltre che una delle tante rappresentazioni
del suo studio di lavoro.
La
raffigurazione è straordinariamente vicina al progetto inconografico
pensato dal Contarelli. Siamo un uno stanzone oscuro e tetro, ove
Matteo, chiamato anche Levi svolge ancora (per poco) il suo lavoro di
pubblicano, cioè esattore delle tasse per conto dei romani. I
pubblicani erano particolarmente invisi agli ebrei, perché erano
strumento della vessazione dell’impero romano: infatti,
anticipavano ai governatori romani le imposte dovute dal popolo, che
poi perseguitavano applicando sulle tasse l’usura (oggi diremmo
“aggio”), che costituiva la loro fonte di guadagno.
Un
pubblicano, dunque, che diviene discepolo di Gesù rappresentava un
messaggio fortissimo di forza della fede, capace di emendare una
delle persone più spregevoli.
Il
luogo nel quale il Levi esercita la sua attività è angosciante e
buio, come il suo lavoro. Caravaggio divide l’opera in due parti. A
sinistra vediamo il tartassato, chino a contare le monete con le
quali pagare il tributo a Matteo, mentre chino su di lui un
assistente del pubblicano, occhiali inforcati, controlla che il
pagamento sia corretto e completo.
Sono
talmente intenti nelle loro faccende, che ancora nemmeno si sono
accorti dell’irrompere di Gesù e di Pietro davanti a loro.
Il
quadro coglie, invece, Matteo, con ancora nella mano destra intento a
“battere cassa” una moneta, nell’attimo stesso nel quale si
accorge della presenza del Cristo che lo chiama a sé semplicemente
esclamando “Seguimi!”. Matteo ha la faccia stupita, indica se
stesso con l’espressione che svela il suo pensiero: “ma chi, io?
Proprio io?”. E le sue gambe sotto il tavolo sono presentate
nell’atto di muoversi, raccogliersi per alzarsi e seguire Gesù.
Stupiti
dall’ingresso del Cristo sono due veri e propri “bravi”, due
guardie del corpo a protezione del pubblicano (come dimostra la spada
della figura di spalle più vicina a Pietro e a Cristo), per evitare
possibili risse e guai.
Come
si nota, tutti, tranne Gesù e Pietro, sono vestiti con abiti del
tempo, del ‘600. La scena rappresentata al tavolo è quanto di più
realistico non si possa immaginare. Caravaggio ci fa entrare davvero
in un polveroso ufficio delle tasse, triste e in qualche misura
torbido. La sua frequentazione di osterie oscure e mal frequentate è
con ogni evidenza alla base di questa straordinaria rappresentazione.
Il
quadro in qualche misura anticipa ed evoca i “bodegones”, quelle
scene di genere (racconti, cioè, di vita di ogni giorno)
rappresentate dalla pittura seicentesca che descrivono interni di
cucine o taverne, particolarmente oscuri ed attenti alla
raffigurazione di nature morte, nelle quali si cimentò anche il
grandissimo Diego Velazquez.
Diego Velazquez, Il pranzo, olio su tela, 1617, Museo dell'Ermitage San Pietroburgo |
Ma,
nel quadro di Caravaggio, una luce divina irrompe, quella di Gesù,
quella luce che proviene dall’alto ed illumina la mano del Cristo,
protesa ad indicare Matteo, a sua volta colpito dall’illuminazione
divina che lo vota alla nuova fede.
La
diagonale della luce in alto è come il raggio divino che promana
dalla mano di Cristo e colpisce il cuore e l’anima del perfido
pubblicano che diverrà uno tra i più devoti ed importanti apostoli.
Quella
mano di Gesù è un evidente tributo di Michelangelo Merisi all’altro
grande Michelangelo, il Buonarroti: ricorda infatti le mani di Dio e
Adamo che si sfiorano nella meravigliosa Creazione della cappella
sistina.
Ricordiamo, comunque, che l'espediente della luce divina che dall'alto ispira la fede disegnando una diagonale Caravaggio l'aveva già sperimentata anni prima, nella sua Maddalena penitente (olio su tela, 1594, Galleria Doria Pamphilj, Roma).
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