Il mese di settembre 2017
fornisce l’ennesima e documentata dimostrazione che l’idea di rilanciare il
mercato del lavoro attraverso l’abolizione della reintegra nel caso di
annullamento o dichiarazione di nullità del licenziamento (leggasi abolizione
dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) non ha funzionato. Ed era
assolutamente evidente che non avrebbe funzionato.
Il flusso delle assunzioni vede
prevalere in modo schiacciante i contratti a tempo determinato, 97 su 100. Il
contratto a tempo indeterminato è, almeno attualmente, un residuato di un
passato che non torna.
E’ la conseguenza esattamente
opposta alle mirabilie del Jobs Act, supposte e propagandate dai suoi ideatori.
Del resto, il Jobs Act sconta un
problema di fondo: la sua architettura di base si scontra con norme e politiche
contrastanti, tali da rendere il quadro normativo e operativo a sua volta
incerto e contraddittorio.
Nel 2014 uno dei primissimi
provvedimenti del Governo Renzi appena insediato fu il d.l. 34/2014 (cosiddetto
“decreto Poletti”) convertito in legge 78/2014, adottato, come si legge
nell’articolo 1 “nelle more dell'adozione di un testo unico semplificato
della disciplina dei rapporti di lavoro con la previsione in via sperimentale del
contratto a tempo indeterminato a protezione crescente”.
Già il decreto Poletti rivelava
la profonda contraddittorietà delle linee d’azione:
1)
da un lato la totale liberalizzazione del rapporto di lavoro a
tempo determinato, sganciato completamente da qualsiasi causa giustificativa e
soggetto solo a limiti percentuali sul totale dei dipendenti a tempo
indeterminato delle aziende;
2)
dall’altro, l’intenzione, poi realizzatasi col Jobs Act, di
abolire l’articolo 18 e di creare un contratto di lavoro a tempo indeterminato
a “tutele crescenti”.
Chiariamo meglio. L’intento, poi
effettivamente tradotto nella combinazione delle norme contenute nei d.lgs
23/2015 e 81/2015, consisteva:
a)
nel liberare le imprese dai problemi applicativi nell’utilizzo
del tempo determinato, e in particolare nell’evidenziazione delle cause
giustificative, fonti di contenziosi enormi davanti al giudice del lavoro, che
avevano fatto da deterrente all’utilizzo del tempo determinato; tanto è vero
che fino al 2014 le imprese utilizzavano, quanto più possibile, le molte altre
forme flessibili. In un’economia in crisi e da rilanciare, la liberalizzazione
del tempo determinato avrebbe consentito alle imprese di provare a tornare a
reinvestire, senza doversi impegnare a lungo termine con i lavoratori e senza
rischi di contenzioso (purchè si rispettassero i termini massimi di durata del
rapporto, 36 mesi, comprensivi di rinnovi e di massimo 5 proroghe);
b)
nell’attivare, mentre le imprese avrebbero consolidato le
proprie posizioni, un contratto a tempo indeterminato caratterizzato:
i.
dalla libera recedibilità, derivante dalla restrizione
dell’ipotesi della reintegra ai soli casi del licenziamento nullo perché
discriminatorio ed all’ipotesi della dimostrazione (difficilissima) in giudizio
dell’insussistenza del fatto materiale imputato al lavoratore licenziato per
giusta causa o giustificato motivo soggettivo; tale libera recedibilità avrebbe
dovuto rendere più “flessibile” il tempo indeterminato, mettere l’impresa al
riparo dalle conseguenze (costi e conflitti interni) della reintegrazione e
rendere, quindi, il contratto a tempo indeterminato “competitivo” con quelli
flessibili;
ii.
dalle cosiddette “tutele crescenti”: a fronte della maggiore
flessibilità garantita dalla sostanziale abolizione dell’articolo 18,:
1. per
il datore di lavoro si costruiva un sistema misto di incentivazione a mantenere
in organico il lavoratore e di deterrenza contro il licenziamento, derivante
dal progressivo aumento del “costo” connesso al licenziamento stesso, pari ad
un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a
due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non
inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità:
l’investimento/costo si pensava avrebbe indotto il datore a tenersi stretto il
lavoratore qualificato e competente, così che i licenziamenti dovessero
necessariamente essere conseguenza solo di genuine cause oggettive o
soggettive;
2. per
il lavoratore, si costruiva un sistema appunto di tutela dal licenziamento,
consistente nella rete di protezione vista sopra, con in più anche una
protezione ulteriore “nel mercato”, assicurata ai licenziati, i quali oltre a
godere dell’indennità di licenziamento e della Naspi, avrebbero potuto fruire
di servizi efficienti di aiuto alla ricollocazione nel mercato del lavoro.
Tutte queste idee insieme sono
sintetizzate dall’intento enunciato espressamente dall’articolo 1 del d.lgs
81/2015: “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato
costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”. Dunque il lavoro a
tempo indeterminato, avrebbe dovuto essere il contratto di lavoro prevalente,
quello “normalmente” utilizzato in via ordinaria dalle imprese.
A distanza di poco più di due
anni dal completamento del disegno di riforma, i dati del settembre 2017
rilevati dall’Istat (che non sono per nulla una sorpresa: il flusso delle
assunzioni era da mesi già chiarissimo), si “scopre” che la “forma comune di
rapporto di lavoro” non è affatto il contratto a tempo indeterminato, ma,
all’opposto, il tempo determinato.
Sulle ragioni di ciò ci
si interroga sempre di più. Sul Corriere della sera dell’1 novembre 2017
Dario Di Vico, con l’articolo “Occupazione, a settembre non decolla E le
assunzioni «stabili» sono 7 su 100” prova a riportare 3 distinte tesi, che
sintetizziamo.
“Il mancato funzionamento
delle politiche attive che non riescono a facilitare le cosiddette transizioni
da una condizione all'altra e quindi non fliudificano a sufficienza il mercato
del lavoro”.
Si tratta di un problema vero, ma
di una tesi non idonea a rispondere al perché della netta prevalenza del tempo
determinato sul tempo indeterminato.
Il Jobs act, come detto sopra, ha
puntato sulle politiche attive come protezione dei lavoratori nella transizione
da un lavoro all’altro. Ma, al di là dei sistemi operativi previsti (fin qui un
cavallo di battaglia come l’assegno di ricollocazione è stato un flop),
l’intento giusto e corretto di creare una rete che guidi, formi e reindirizzi i
lavoratori tra un lavoro e l’altro, si scontra con la dura realtà: le politiche
attive del lavoro costano e costano molto. L’Italia non può pensare di produrre
politiche attive efficienti, se l’investimento risulta oltre 10 volte inferiore
a quello della Germania (che, secondo i dati Eurostat spende 9 miliardi contro
i 700-800 milioni dell’Italia) e se il personale addetto ai servizi, sempre in
Germania sfiora i 100.000 ed in Italia è di circa 6.000 (e solo con la legge di
bilancio 2018, forse, finalmente si giunge a definire la loro destinazione alle
regioni, dopo la devastante riforma delle province).
In ogni caso, la facilitazione
della transizione da un lavoro all’altro, anche se funziona, non può favorire
la rimonta del tempo indeterminato sul tempo determinato. Lo dimostrano i dati
sulle assunzioni obbligatorie delle categorie protette, disciplinate dalla
legge 68/1999: in questo caso, le imprese ricadenti nell’obbligo, sono appunto
obbligate ad assumere i dipendenti. Ma anche per le categorie protette la
regola non è affatto il tempo indeterminato e la schiacciante prevalenza è dei
rapporti a tempo determinato.
Se il mercato o le regole del
gioco non favoriscono gli investimenti a lungo termine, le imprese attivano
solo contratti flessibili. E’ inevitabile.
“La seconda spiegazione rimanda alle caratteristiche
inedite dell'economia post-crisi, tema troppo sottovalutato dagli economisti.
La ripresa c'è ma si tratta di una ripartenza che presenta molte novità
rispetto ai precedenti avvicendamenti ciclici tra recessione e crescita. Oltre
all'occupazione non crescono neppure inflazione e salari”.
Questa tesi appare più convincente.
Non solo la ripresa è debole, ma è percepita come non durevole. Le imprese non
investono: il successo di Industria 4.0 sembra, attualmente, solo limitato al
ricambio dei macchinari, ma non si estende alla qualificazione del personale.
Il mercato è cambiato, i lavori
pure. Pensiamo al mondo della logistica e delle vendite on line. Negozi al
dettaglio sono sostituiti da “punti di consegna” o da vettori/consegnatari che
girano per i territori a portare la merce agli ordinanti. Il lavoro si
dematerializza e non è più agganciato ad una sede ed a “macchine” fisse. Gli
orari cambiano, si volatilizzano. Il lavoratore non necessariamente “cede” al
datore il proprio tempo adeguandosi ad ordini gerarchici che impongono modalità
organizzative precise e scandite: molte volte dispone di spazi organizzativi
ben più ampi, e si impegna a produrre risultati, sì da mettere il fattore tempo
in subordine.
Simili modifiche mettono in crisi
la teoria che possa esservi una forma contrattuale “unica” o “prevalente”
rispetto ad altre.
Non si è puntato sulla
definizione di un salario minimo definito per legge, contraccambiato con una
più ampia autonomia delle parti nel negoziare, con contratti aziendali,
modalità, tempi e forme dei contratti di lavoro.
In più, vi sono i problemi della
bassa produttività e della bassa qualificazione della manodopera. Gran parte
dell’economia è caratterizzata da produzioni di beni e servizi in generale non
particolarmente di qualità, che risentono della concorrenza globalizzata a più
bassi prezzi ed a maggiore produttività.
In queste condizioni, per un
datore è indifferente la “persona” che svolge un lavoro di bassa
qualificazione: essa è sempre piuttosto facilmente sostituibile con un’altra
persona, che viene istruita velocemente a svolgere mansioni tutto sommato “di
base”. Dunque, un continuo turn over di personale a termine è preferibile, in
un mercato ancora incerto, ad un investimento a tempo indeterminato, sia pure
in presenza dell’abolizione dell’articolo 18 e delle tutele crescenti.
“La terza spiegazione è forse
la più amara ed è quella che gli imprenditori forniscono solo a microfoni
rigorosamente spenti. I giovani che si presentano ai colloqui non soddisfano le
aspettative e quindi le aziende non si sentono invogliate a rischiare per i tré
anni previsti dal jobs act. Vogliono rischiare meno e quindi ricorrono ai
contratti a termine ripetuti ed effettuano una rotazione dei giovani coinvolti”.
Le considerazioni “a microfoni
spenti” degli imprenditori si riferiscono ad una sola parte della verità.
Un pezzo dell’altra parte della
verità lo abbiamo accennato poco sopra: se le mansioni dei lavori sono semplici
e le attività poco produttive, la “rotazione” richiamata dal Di Vico è, come
visto prima, vantaggiosa e semplice.
Inoltre, se è acclarato il
distacco esistente tra istruzione e formazione dei giovani, altrettanto vero
appare il “disimpegno” delle imprese italiane rispetto a questo tema.
Disimpegno non teorico: in qualsiasi convegno le imprese invocano maggiore
vicinanza dell’istruzione e della formazione alle necessità delle imprese,
nuovi percorsi formativi, investimenti. Ma, nel parlare di formazione “duale” o
di organizzazione della scuola e della formazione “alla tedesca”, ci si
dimentica il ruolo fondamentale del potente impegno finanziario delle imprese
in Germania, che contribuiscono al sistema formativo non solo con la
progettazione e l’innovazione dei percorsi, ma con potenti cofinanziamenti del
sistema, che vanno dal 30% al 50% del costo totale: cifre in Italia mai viste.
Ancora, le imprese lamentano
l’incapacità dei giovani di soddisfare le aspettative. Ma, i dati dei flussi
delle assunzioni rivelano che il tempo determinato oltre a predominare sul
tempo indeterminato schiaccia, soffoca e cannibalizza lo strumento principale a
disposizione delle aziende per formare i giovani alle loro prime esperienze:
l’apprendistato.
Contestualmente, una serie di
“misure di politica attiva”, tanto nazionali (ad esempio Garanzia Giovani),
quanto regionali, producono tirocini pagati dall’erario, inducendo, così, le
imprese a continuare a non investire e ad usufruire, talvolta (non sempre) in
modo parassitario del beneficio di avvalersi di manodopera gratis, anche se
solo per 6 mesi, da adibire ancora una volta alle già viste mansioni “di base”,
a bassa qualificazione e di facile istruzione.
Guardando la realtà a 360 gradi,
allora, si scopre che il Jobs Act è stato immaginato per una realtà in piena
ripresa economica: dunque, nella situazione attuale non può funzionare.
Ancora, il Jobs Act immagina
politiche attive del lavoro con strumenti in teoria molto efficaci, ma privi di
finanziamenti e personale adeguato: anche in questo caso, quindi, lo strumento
non funziona.
Il Jobs Act enuncia il principio
della prevalenza del contratto a tempo indeterminato: ma sono solo l’economia,
l’attività delle aziende, i loro investimenti, che possono determinare quale
forma contrattuale si riveli prevalente su un’altra, non certo una legge.
Il Jobs Act, confermando la
liberalizzazione totale del lavoro a tempo determinato prevista dal decreto
Poletti, di fatto rende il tempo determinato molto più vantaggioso sul tempo
indeterminato e sull’apprendistato. Infatti, anche se il tempo determinato
costa ben poco di più (l’1,4% di contribuzione previdenziale), non espone il
datore alla spesa delle “tutele crescenti”, che poi sono solo “indennità
crescenti”; spesa che, comunque, in caso di ricorso giurisdizionale,
ricordiamo, non sarebbe solo connessa all’indennità prevista dal Jobs Act, ma
anche alle spese amministrative e di giudizio. Meglio, quindi, un contratto a
tempo determinato: una volta scaduto il termine, non vi sono tutele crescenti,
non vi sono contenziosi.
Il quadro è destinato a divenire
ancora più complesso dal raddoppio di quella sorta di “tassa sui licenziamenti
collettivi” prevista dal disegno di legge di bilancio 2018. Anche le assunzioni
a tempo indeterminato “drogate dai bonus”, sul piano economico risultano poco
vantaggiose perché comunque i bonus rischiano di essere azzerati dai costi
appunto della “tassa per il licenziamento” e dalle indennità del Jobs Act. In
ogni caso i bonus, come si è già visto, possono rilanciare il tempo
indeterminato per pochi mesi, non essendo in grado di modificare le incertezze del
mercato
In questa situazione, dunque, il
tempo determinato è la modalità più sicura e tranquilla, insieme ai tirocini
drogati dal finanziamento pubblico delle indennità per i tirocinanti, per fare
fronte al fabbisogno di personale.
Nel frattempo, la produttività
continua a scendere e con essa le ore di lavoro ed il reddito dei lavoratori.
Il che, certamente, non aiuta l’economia a risalire, per provare ad invertire
la rotta.
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